Il palo della luce mi sosteneva. E da lì potevo osservare il quartiere, stretto da palazzi a sette piani, con le facciate ridipinte e assolate. Avrei potuto perderci la mattinata in quello stato. Aspettavo un tram che non arrivava, e neanche avrei voluto, ora che le serrande erano tese verso il vuoto per riparare le finestre dal sole già caldo, dagli sguardi dei dirimpettai e i balconcini inutili ospitavano fiori o elettrodomestici arrugginiti. La gente andava e veniva con la sua traiettoria precisa, ed io ero debole e avvinto a quella fermata e mi sembrava di vedere tutti in sogno. Seppure malato, quel tepore, quella certezza che gli altri mi davano della vita, mi emozionava.
Scrutavo piano per piano, indovinavo la sequela delle finestre che appartenevano ad un unico appartamento, indagavo con lo sguardo nei cortili, che mi piacevano perché erano simili ai cortili della mia giovinezza, di quell’infanzia che aveva potuto godere di ore vuote.
Giunse il tram, con pigrizia, nella freschezza della strada, altrove era il sole, che ancora mi rifletteva nell’anima l’idea di quelle case dietro le finestre, i panni stesi, i mobiletti sbilenchi. Immaginavo le giornate della gente come me. Seduto su un sedile altri palazzi, palazzine, caserme, uffici, chiese in vecchi cinema, supermercati e scuole ridipinte, parchi incandescenti nella lucentezza del mattino, sfilarono attraverso i finestrini puliti. Fino a che il tram non costeggiò la campagna, un lembo recintato come un reperto, costretto tra case popolari e palazzine intensive, un salto nel nulla antico dell’agro romano. Avessi vissuto qui, nello squallore dei palazzi sgretolati, non ci avrei badato, se fuori della finestra, ogni mattino quel lembo di macchia confusa, selvatica, mi fosse apparso nella mutazione delle stagioni. Ero stanco e mi lasciai trasportare al capolinea. Mi sembrava di non essere un uomo, ma una lastra continuamente impressionata dal click degli occhi. Un tumulto continuo di luci e di ombre, di lampi al magnesio, una vecchia lastra corrosa dagli acidi, ma ancora viva.
Mio figlio abitava qui.
Almeno ci abitava sua madre. Di lui non sapevo niente di preciso. Per cui aspettai al capolinea di vedere arrivare la donna che a malapena ricordavo, e che forse non avrei riconosciuto. In fondo alla strada, addossata al muretto di recinzione di un mercato di quartiere, c’era una macchina della polizia che controllava due ragazzi in moto. I negozi aperti erano pochi, una farmacia e un Bar con l’insegna a rovescio. Perfino il mercato non aveva che pochi banchi attivi. La chiesa di cemento armato con la croce rossa in cima al tetto, nessun bambino, nessuna donna con le buste della spesa. Un deserto.
Non facevo che aspettare e guardare, annotare con distrazione esasperata gli abiti di chi attraversava la strada, la moto controllata dalla polizia, l’età approssimativa dei ragazzi, che aspettavano anche loro, indifferenti. La moto era perfetta, loro, vestiti in prevalenza di nero.
Se mai mi era venuta nella vita la curiosità di conoscere mio figlio, e non mi era mai venuta, solo immaginare potesse essere come uno di quei due mi avrebbe infastidito. Uno di quei due. Con le carte scrutate da un poliziotto.
Di fronte al mercato c’era una scuola. Per quel che mi risultava Adele ci aveva sempre lavorato, e forse anche il ragazzo era andato a scuola lì. Avrei aspettato il mezzogiorno. Mi spostavo verso il marciapiede di fronte all’edificio da dove avrei potuto osservare uscire ragazzi e insegnanti, e forse avrei riconosciuto Adele. O forse non l’avrei rivista, forse quello non era il giorno giusto, ma solo il caso me lo avrebbe confermato.
Avevo deciso all’improvviso, potevo dirmi. Ma mi erano venuti in mente appena avevo avuto quel malore. Il tempo in ospedale, mentre poi preparavo la borsa per andare via, radunavo magliette e pigiami, e uscivo malato, uscivo più solo, dalle stanze bianche, aveva definito questa decisione, così impraticabile. Ma ora ero qui. Il sole girava sul lato della mia strada e non sapevo resistergli, mi accostavo al muretto dove ancora stavano i ragazzi, e la polizia. Mi appoggiavo al cemento riscaldato e speravo di sentirmi forte come quando vivevo nel corpo di un ragazzo.
E forse ho chiuso gli occhi e li ho riaperti, e il poliziotto mi chiedeva se stavo bene. I ragazzi non c’erano più e le porte della scuola erano spalancate ed eruttavano gioventù, e non riuscivo a distinguere nulla, neppure le parole per ringraziare e liberarmi dell’uomo in divisa, né superare il panico di non farcela, a ricordare il volto di Adele, o la sua andatura, a smarrirmi di fronte ad un abito sconosciuto, quando di lei non ricordavo che una vestaglia di cotone blu ed un prendisole bianco. Comunque poi mi ero ritrovato in mezzo ad una folla di ragazzi in movimento, di richiami, di ondeggiamenti, di suoni, come se di colpo l’aria si fosse messa a fluttuare, e l’immobilità dell’ora e del quartiere venissero percosse dal martellare delle marmitte dei motorini, dai sibili dei telefonini, da qualche scoppio di allegria esagerato, un grumo di piccola folla che pian piano andava disperdendosi, rotolando lontano. E lasciandomi abbattuto nell’affanno di vedere, rivedere, riconoscere. Così non c’era più nessuno. E forse era meglio. Mi passavo le mani tra i capelli per frenare l’ansia, il tremito che mi coglievano di fronte ad una emozione, a questa nuova fragilità. Avevo fatto una passeggiata, in una bella mattina di sole, in un posto brutto che però aveva la sua luce, un suo torbido mistero. Non sapevo più dov’era la fermata del tram che mi ci aveva portato, né dove potessi andare a bere qualcosa, sedermi un momento. Entrai alla fine nel bar con l’insegna a rovescio e mi misi ad un tavolino e ordinai un po’ di colazione. Mi servirono senza guardarmi mentre contemporaneamente salutavano una donna che entrava in fretta e chiedeva di incartarle gli ultimi cornetti e due tramezzini per il figlio che andava agli allenamenti.
-Yes teacher!- le risposero sghignazzando e così mi resi conto che era Adele. Mi abbandonai alla spalliera del sedile di ferro di quel bar freddo, vuoto, passabilmente pulito. Era di profilo. Non la ricordavo davvero, teneva i capelli lunghi legati , e aveva gli occhiali. Non era più snella, non era più bionda. Mentre aspettava che le incartassero il pranzo per il figlio si girò a guardarmi. E ricambiai lo sguardo. Mi aveva riconosciuto subito, nonostante io fossi invecchiato, dimagrito, visibilmente malato. Perché cercò di mantenersi neutra, ma quando le porsero la busta bianca lei non si mosse, lei continuò a guardarmi, e infine le mani le tremavano, ed era accigliata. Ed uscì senza pagare, con il barista che le gridava dietro: -Segno?-
Mi sembrava che fuggisse e quindi anch’io mi alzai, lasciai dei soldi sul tavolo e provai a seguirla, e lei era già in fondo a quella strada ben asfaltata in mezzo a casamenti in rovina.
Non si girava indietro e mi chiedevo come avrei fatto a raggiungerla, quando, alzando la testa, la vidi finalmente ferma accanto ad una macchina. Si doveva esser detta che scappare così non era da lei, da quella donna che voleva essere e che secondo me non era mai stata. Voleva vedersi come una tigre e non era che uno scoiattolo, aveva quei suoi atteggiamenti arrabbiati che mi avevano aperto molte strade per convincerla a stare con me, ad accettare poi di sparire senza fare un fiato. Ed ora mi aspettava. Rallentai il passo, e quando le fui davanti sapevo di avere addirittura un lieve sorriso sulla faccia, tanto per non metterla di buonumore, tanto per non riuscire a cambiare mai. Mi venne un colpo di tosse, imbarazzante, e non riuscii a parlarle per qualche secondo. Lei non mutò l’espressione. Quella faccia indurita la trovavo patetica.
Solo quando mi disse:
-Ciao Lucio- provai una fitta fastidiosa, una specie di intenerimento, perché la voce era la stessa, perché i giorni in cui mi salutava erano stati giorni che avevo rimpianto. Dimenticai il motivo da dichiarare per quell’incontro, le domande concepite per mostrare un interesse, una gentilezza che sapevo ben riprodurre:
-Sono malato- pronunciai, e non c’era niente intorno a noi, né macchine, né suoni, né colori. Solo la sua faccia bianca, e gli occhi tristi e asciutti.
Non so chi dei due si mosse per primo, ma mi ritrovai nella sua macchina che percorrevamo una tangenziale appena fuori del quartiere che ricongiungeva la città agli altipiani collinosi carichi di storia, di boschi, e dove nostro figlio andava a fare gli allenamenti di non so cosa. Non sembrava ci fosse altro da dire. Eravamo immersi in un silenzio senza imbarazzo ed ero tranquillo, dopo tanti anni ormai. Lei non faceva domande, né mostrava risentimento, e ad un certo punto, in curva, il cielo si mostrò tra i castagni, e la città ai piedi dei boschi non era che una distesa azzurrina simile al mare. Ci guardammo di sfuggita, perché avevo riconosciuto qualcosa che ci apparteneva, per quel breve periodo in cui ci eravamo presi gioco delle nostre vite.
Dopo anni di carcere, di violenza e di apatia, fuori non mi aspettava che la malattia, e forse sembrava giusto, ma non lo era secondo me, non lo era. Ora mi dicevo di aver fatto finalmente la cosa migliore, almeno per qualche ora, stare qui e andare a vedere gli allenamenti di mio figlio.
Arrivammo finalmente davanti al palazzetto che ospitava il campo di basket. I ragazzi erano in giardino e Adele richiamò l’attenzione del figlio. Ci venne incontro un ragazzo che mi somigliava, a me che non ero mai stato uno sportivo, solo uno con i soldi che piaceva alle ragazze. Venne verso la madre sorridendo, ma poi vedendomi si fece curioso. Adele gli porse il sacchetto del bar, e poi tirò fuori dalla borsa un thermos. Lui la ringraziò, poi le chiese con franchezza:- E’ lui?-
La madre annuì. Il suo viso si aprì e mi tese la mano:- Ciao, sono Francesco, tuo figlio-
La sua mano era grande, calda, e mi sforzai di tenerla tra le mie, cercando di sapere quel che facevo, fosse per la prima ed ultima volta. Adele non distolse mai lo sguardo da quell’uomo sicuro di sé, non si produsse in lacrime o raccomandazioni. Lui si piegò a baciarla e corse verso i compagni e il fischio dell’allenatore.
Tornammo indietro in silenzio, camminando sul brecciolino di quel giardinetto, ed entrando poi nella villa comunale di fronte al palazzetto dello sport di quel paese ben tenuto, costruito su pietre antiche, appena sbiancate dal sole.
-Possiamo sederci?- chiesi. Ero già stanco, non per la malattia, non per tutti gli anni in cui ero stato rinchiuso. Era a causa, più che altro, di qualcosa che avevo sempre combattuto, una certa possibilità di emozionarsi, che mi aveva fregato al momento di premere un grilletto, lasciando i miei nemici pericolosamente vivi. L’idea che c’era un bel conto da qualche parte che mi aspettava e che avevo tanto difeso negli anni della galera, della cui vaghezza mi ero servito per sopravvivere tra ricatti, legami ambigui, e violenze di ogni tipo, fuori, accanto ad Adele, in questo parco semivuoto, in una galassia assente dal paesaggio che avevo sempre avuto dentro, non contribuiva a tenermi in piedi.
Con Adele scambiammo poche parole. Nessun ricordo, non era il caso. Non era mai venuta a trovarmi in prigione, e d’altronde c’eravamo già lasciati, me l’ero tolta di torno, avevo i miei affari da mandare avanti, tutti pericolosi, tutti eccitanti. Adele sapeva sempre qualcosa che io non sapevo, che ero un bravo ragazzo, per esempio, me lo diceva spesso con occhi sognanti, mentre io le rovinavo la vita. Mi prese l’idea di rivedere quegli occhi e le chiesi come mai portava gli occhiali ora. Li tolse e si passò una mano sulla fronte. La linea di quegli occhi grandi non era più così vivida, così ben disegnata. I suoi occhi neri, mobili, preziosi, erano sempre molto belli, pur nella stanchezza, non più fanatici, come allora, quando litigando asseriva la bontà di idee tutte sue, curiose, ostinate. Si era tenuta il figlio, era rimasta sola, si era laureata, e invece di diventare un grande reporter, era insegnante in una scuola scalcinata della periferia più agonizzante che avessi mai visto. La cosa più ridicola era che si sforzava di non mostrare risentimento, e magari aveva rammollito anche suo figlio, che ora dava la mano a un criminale come fosse stato un buon padre. Il parco, la marea verde che risaliva dalle valli, il cielo che cominciava a macchiarsi di oro e di rosso, mi diedero la nausea. Mi alzai e le dissi: -Vado via- Lei si rimise con calma gli occhiali e annuì. Mentre mi avviavo verso l’entrata della villa avevo la sensazione che non ci sarebbe stato più niente per me. Che i giochi erano proprio finiti.
Attraversai la piazza per raggiungere il posteggio dei taxi, e dal fondo della strada avanzò con velocità crescente un fuoristrada, frenò di colpo davanti a me che ero rimasto pietrificato da un gelo che mi legava all’asfalto, per poi procedere a singhiozzo fino a che non mi riscossi e saltai sul marciapiede opposto. L’auto rimase ferma. I finestrini erano scuri, e colpiti ad Ovest dai raggi sanguinanti del tramonto. Di colpo ricominciò a girare il motore e molto minacciosamente l’auto scattò in avanti e si perse nella discesa che costeggiava i laghi e portava in città.
Tutto il tragitto in pullmann, perché rinunciai all’idea del taxi, lo passai a chiedermi dove e quando avevo smesso di guardarmi le spalle, e come avevo potuto anche per un istante credere che la malattia fosse un permesso speciale. Dovevo ragionare in fretta, ma non ne ero più capace. Tenevo le mani in grembo e su ognuna sentivo il calore della stretta di mio figlio.
Guardavo il mio viso riflesso nei finestrini sporchi del pullmann, mescolato alla luce morente, alle chiome ingemmate degli alberi, ogni cosa in corsa, solo la mia faccia fissa, con il suo sguardo disarmato, finito. Allora cercai di reagire, e cominciai a fare due conti, a tenermi stretto ai tracciati finanziari, a tutto quello che potevo radunare per mio figlio, e le briciole che avrei dato ai miei assassini.
Non sarei andato a casa, ma ad un internet cafè. Da lì avrei concluso le mie manovre. Ora una mail al notaio di famiglia, di quella famiglia di smidollati decaduti da cui discendevo. Le mie volontà, suggellate da una manciata di denaro sporco che più sporco non si può. Mio figlio non lo saprà mai, la casa gli verrà dal nonno, non da me, da quell’onesto uomo di suo nonno. Già morto, che importa, il notaio ha le sue istruzioni.
Adesso vado a casa. Non vale la pena di prendere medicine per mantenersi sveglio e in vita per quello che dovrò affrontare.
La notte non è fredda, non c’è traccia, mentre cammino verso casa, nel quartiere ancora acceso, del freddo e del caldo soffocante che ho patito in vent’anni di cella, di vicinanza con corpi sempre all’erta, di notti passate ad almanaccare e a sfuggire agguati. Sono un uomo libero ora. E senza pace.
Mi addosso al portone perché non ho più forze. Aziono il cellulare su alcune cifre, che poi nascondo affinché non le trovino con facilità e si convincano che quello è tutto il malloppo. So che troverò la porta aperta. Salgo per le scale e penso a quando salivo con Adele in braccio fino al quinto piano, per ridere. E so quando l’ho messa incinta, e cercherò di pensarlo anche quando il dolore sarà troppo forte. E spero di finire presto.