Tieni la nota, non permettere alla voce di spezzarsi.
Tieni il tempo, non puoi farlo senza disciplina e senza orecchio. Non battere il piede, non muovere il corpo, non gli permettere di partecipare, per ora.
Ti vergogni? Apri bene quella bocca, lascia che il respiro faccia vibrare le corde vocali e dai spazio al suono, non serrare le mandibole!
Ricominciamo.
Martelletti, armonie, attacco.
Respiro, diaframma, spinta. Vapore incandescente, corde morbide, vibrazione, suono.
Canto. Stai cantando. Note lunghe, pausa, respiro. Arrotonda la nota, altrimenti non esce, si strozza, respira!
Incalza, tre respiri brevi. Silenzio.
Il Maestro non chiude con un gesto secco lo spartito. Non la guarda però. E lei lo saluta.
La strada è trafficata, il marciapiede ombreggiato da platani dal tronco bianchissimo. Lo zaino con gli spartiti di studio è pesante. Ma lei saltella. Non dovrebbe cantare fuori di lì. Ma lei canticchia.
Non dovrebbe sudare, ma gli ultimi metri verso casa li ricopre in corsa, fino all’androne freddo.
Non c’è che il Maestro, la voce, i vestiti sbagliati che sua madre le cuce per i concerti.
Sale le scale, apre la porta pesante con le chiavi. All’ingresso buio fanno seguito una serie di corridoi che sembrano ponti gettati per unire sezioni della casa. Che pare una cittadella. Si cammina tanto in quella casa e ci si isola volentieri. Ha angoli e difformità cave in cui nascondersi. Va dritta in camera sua. Supera salottini polverosi, ognuno col suo odore caramelloso e chiuso, divanetti con le frange dorate, broccati stinti o rossi o verde veronese. Nella stanza in fondo c’è un nonno che ha superato il secolo, e vive nella sua bomboniera riscaldata. A volte entra nella stanza e lo guarda. Lui sembra di cera, con il cappello in testa e le scarpe lucide ben allacciate. Le appare come un oggetto bizzarro, come certe bambole antiche con cui non puoi giocarci. Di fronte alla sua stanza c’è solo un muro, una parete rosso pompeiano che la logora. Sua madre ha cambiato spesso stanza, trascinandosi dietro la testiera del letto imbottita di seta rosa salmone. Suo padre aveva uno studio, scarno, con le pareti giallognole interrotte da alte librerie che ai ripiani superiori sono ormai vuote. Sulla scrivania erano sempre accatastati fascicoli, brogliacci e sottomano di pelle verde, che ogni anno sua madre regalava al marito, senza fantasia ma con tenera ostinazione.
Poi c’è la “sala”, dove ci si riunisce per le feste. E il pianoforte. Quando lei studia sua madre la isola. Chiude la doppia porta con uno sguardo grave, come di quando c’è un morto in casa. Se sua sorella passa per uscire le fa cenno di fare piano, e quella ride, poi sbatte la porta e va via correndo per le scale, cantando a squarciagola Aiem de passenger!! Lei aspetta, con le mani sulle guance, per scaldarle, mentre le si appesantisce il cuore, le si chiudono gli occhi. Aspetta il silenzio che serve a sua madre e poi inizia. Si accompagna, prova, cantando piano per non sforzare la voce. Intanto scende la sera, nel vicolo vociano anime discrete, si illuminano i lampioni sospesi ad un filo elettrico nero e contorto tra i palazzi. Si fa buio e lei non accende la luce, continua a suonare, mette la sordina, perché non vuole che la sentano, perché non vuole che sappiano.
Ma questa sera deve riposare. Domani c’è il pubblico, saranno lei e il Maestro. Il suo abito è appeso all’armadio con lo specchio. E’ un tubino informe senza maniche. Si stende sul letto e gira il volto verso la parete. Non ci sono quadri, non ci sono angeli, e si addormenta. Ancora prima della cena e della notte. Sua madre viene ad osservarla. Le sistema una coperta intorno alle gambe. Raccoglie gli spartiti sul tavolo. Non fa rumore. Si siede un secondo su una piccola poltrona. Sono al buio e lei ascolta il respiro di sua figlia. Poi si alza e va via. La cena è in cucina, con la luce al neon, la signora Agata che accudisce il nonno, e il nonno con un ampio canovaccio sotto il mento. Lui mangia inespressivo, e lei non vuole farsi più le solite domande, sulla vita, per esempio, perché quell’organismo lì, le scoraggia tutte, soprattutto le più romantiche. E’ famelico, assolve il compito di trangugiare, e neppure l’Agata gli parla più. Con un gesto lento della mano chiede l’acqua, e lo si soddisfa. Poi Agata va a prepararlo per la notte. In fondo è buono, silenzioso, muto e indifferente.
Resta in cucina e si chiede cosa ancora la spinga a stare sulla terra, ad abitare quelle stanze, a non significare niente per nessuno, ad accumulare debiti e preoccupazioni, a sorvegliare quella casa immensa con i mobili per sentinella, aggeggi senza fulgore e che non raccontano nulla. Sparecchia e si affaccia alla finestra, che dà sulla piazza centrale, dove si sente la fontana, dove ronzano le insegne sotto i portici. Su quella piazza lì è sceso suo marito. Lei lo ha visto allontanarsi, con la valigetta zeppa di carte giudiziarie. Lo ha seguito con lo sguardo mentre attraversava la piazza che al mattino è grigia, e fredda. Era solo, ed era presto. Ha sentito i suoi passi arrestarsi all’altezza della fermata del tram e ha sorriso. Non aveva ancora quarant’anni allora, e le bambine già cresciute, e la loro casa a qualche fermata dal tribunale. Era una grande casa piena di spifferi e di infissi da sistemare, ma le bambine correvano per i corridoi come si fosse al parco. Ne avevano parlato, prima che lui uscisse, in quella cucina, a quel tavolo, di fronte alla colazione insieme. Che la maggiore aveva una voce gradevole, che forse avrebbe dovuto studiare. Le aveva detto quello, in ultimo: Costi quel che costi, ci daremo da fare per lei. Ed era uscito. Si era allontanata dalla finestra presa dalla preoccupazione di sistemare la cucina per la colazione delle bambine e del suocero. E mentre sciacquava le tazze una le era scivolata di mano e cadendo aveva provocato un fragore insolito, che non era nella cucina, ma nella piazza, in una lontananza, dove era rimasto il suo pensiero. E cioè nel luogo preciso dove suo marito, aspettando il tram, si era preso in testa la pallottola d’un sicario.
Non è che ogni sera ci pensi, solo quando è più deserto il suo sentimento della vita.
Spegne la luce e va nella sua stanza. La più piccola delle sue figlie non è ancora tornata. L’ha informata che a Giugno parte, va in Inghilterra. Le ha detto altre cose, sempre le solite, in verità, ma lei non le risponde più. Non ci può fare niente, pensa, non può fermare niente. La sola cosa che ora, mentre si stende, le può dare una certa piacevole ansia, è che domani ci sarà il concerto. Non un piccolo concerto in qualche oscura sala di provincia. Il concerto in un auditorium.
Prova a chiudere gli occhi e ad affrontare la notte. Ma il giorno la ritrova sveglia e stanchissima. Sente rientrare sua figlia, ascolta i discorsi dell’Agata con il nonno. In lontananza, il pianoforte emette qualche accordo. Poi la porta d’ingresso si chiude, e qualcuno scende veloce le scale.
L’appuntamento dal Maestro è per le dieci. Ma è ancora presto. Ha messo su una sciarpa intorno al collo e un maglioncino di filo. Mentalmente ripassa tutti i passaggi più semplici. Ha tre punti di difficoltà, chiederà al Maestro di aiutarla. Attraversa la strada che porta il nome di suo padre. Entra nel parco comunale. E’ scoraggiata e ha paura. Si siede ad una panchina. E’ ancora presto. Non apre lo zaino, non sfoglia spartiti. Lei non ama la musica. Né la sua voce. Troppo acuta, troppo vuota. Non vuole studiare, non vuole diventare famosa. Non vuole pagare il Maestro e non mangiare a cena. Non vuole andare in giro vestita così male. Essere così brutta. Si alza ed esce dal parco.
Alle cinque del pomeriggio indossa il tubino nero. Pettina i capelli. Escono con sua madre e salgono sul tram. Arrivano all’Auditorium e si separano, lei va verso l’ingresso degli artisti. Sua madre rimane qualche minuto a guardare la targhetta che segnala quell’ingresso. Poi si avvia. Fatica a trovare la sala del concerto, si perde nell’intrico di scale, sale, viavai, spazi insoliti, gente in movimento verso ogni direzione. Infine si affida ad una hostess che la traghetta lungo le file di poltrone, ai primi posti, accanto al palco. Dove lei vede tutto. Le tavole del palcoscenico, il rosso dei velluti, il nero specchiato del pianoforte. C’è brusio, confusione, ma si accomoda sulla poltrona. Poi si addensa la penombra. Non sa bene come sua figlia sia giunta sul palcoscenico, ma vede questa piccola ragazza simile ad una statuina fasciata di nero, le braccia bianchissime, i capelli raccolti. C’è solo una luce nella sala e quella luce illumina la cantante. E non è la musica a sorprenderla, ma la voce. Che non ha mai sentito piena, solo un sussurro smorzato dietro la porta. Una voce precisa, diretta. Sale verso il centro della sala, e ricade sul pubblico, è fresca come la fontana della piazza.
Lei guarda nell’oscurità, il tempo è ormai dentro la sua gola, e i passi del Maestro le sono noti. E’ il Maestro che la segue ora, attende la sua interpretazione. Lei è lieve. Può inoltrarsi nell’ombra, nella massa che l’ascolta, la luce che l’avvolge non le pare che una stella simile a quelle di porpora che suo padre appuntava al presepe, nei giorni della pace, della sicurezza.
– Oh liberty, thou choicest treasure- si innalza sul filo del basso continuo : – Tieni la nota- pensa mentre la voce che controlla le sembra ora la sua libertà, fino all’acuto sulla sopradominante, mentre sotto di sé, sorridente, riconosce sua madre, con il viso proteso:- Tieni la nota cara, tienimi in vita-