Non devi nascere in una città di mare per amare il mare. E’ un luogo comune. Devi essere bambino. E restarlo. Devi credere alle favole. Credere che quello che vedi è vero. E riprendertelo. Devi andare sull’Adriatico. Su quel mare stretto e basso e verde e lento. A vedere il sole nascere dall’acqua. Staccarsi dall’acqua trascinandola con sé. L’alba sull’Adriatico. E’ un mare triste ma il sole abita lì.
Dei mille tramonti rosa, di quell’incendio che dipingeva insieme il cielo e l’acqua, del profumo intenso di sale e di vita del suo mare, del mare che da sempre le aveva riempito gli occhi e la vita non rinnegava niente Giulia. Era in quei colori che si abbracciava l’anima, prima di lasciarla correre ad inseguire nuvole e poi stelle. Ma quell’alba sull’Adriatico, su quella lunga, infinita spiaggia bianca e deserta, le aveva preso e restituito tutto. Il tempo, l’innocenza soprattutto. Aveva venti anni Giulia. E per la prima volta vedeva il mare davvero.
L’estate di Giulia iniziava il primo giorno che tornava sul suo mare di sempre da sola. Tutti gli altri incontri col mare, qualunque pezzo di mare fosse, erano incontri. Profondi a volte, solitari, silenziosi e pieni di parole, di notte spesso, di nascosto dalla luna invidiosa del nero abisso in cui si riunivano, l’anima di lei e quella del mare. A volte invece era proprio lei, “la vecchia” –così Giulia chiamava la Luna- che i suoi occhi andavano ad incontrare. Quando le parole voleva spegnerle e trasformarle in urla senza voce, in ferite esangui e livide, in solchi vuoti e insanabili da conservare sulla pelle. Non la guardava subito. Ne seguiva la scia argentata sull’acqua nera. Si arrampicava in fondo, alla fine del mare, sui fili trasparenti che la tenevano legata al cielo e alla fine la raggiungeva. Le piaceva quando era un’invisibile parentesi di luce nel cielo, ma riusciva a trovare pace e pena e dolore e morte solo quando era un’ enorme incantata magica sfera bianca. La sfidava allora. Faccia a faccia. Una faccia contro una faccia. L’altra nascosta sempre. Giulia offriva alla Luna la faccia che nascondeva al mare e alla vita.
Andava dal suo mare anche di giorno Giulia. Ci andava con gli amici anche. Ma quelli erano passaggi. Come quando lo vedeva dall’autobus o dal treno. Per incontrarlo doveva andarci da sola. Quando era agitato da far paura magari, e il vento forte le portava dentro la sua rabbia e la sua violenza che le confondevano le lacrime con i sorrisi. O quando era liscio e piatto e grigio come il cielo. Come le sue ombre.
Ma il primo giorno d’estate, quando riusciva a liberarsi di tutto e tutti e poteva prendere da sola quello che lei definiva ormai “la mia zattera a motore” , era per Giulia l’ultimo e il primo giorno dell’anno, il primo giorno di un amore, l’ultimo giorno da adulta, di conoscenza, il primo giorno da bambina, di innocenza. Il giorno che finalmente avrebbe saputo di nuovo tutto, come in quell’alba sull’Adriatico. Con gli occhi sul cuore.
La gassa d’amante. La gassa d’amante era il primo magico passo del rituale di incontro. Giulia sentiva di amare intensamente quel nodo incantato. Lei non amava i legami. E non era stata capace di averne e di volerne. Ne aveva avuti e ne aveva. Ma ogni volta che li aveva sentiti tali aveva finito per spezzarli. La gassa d’amante era un prodigio che le entrava dentro dalla pancia. Non c’è un nodo più semplice né uno più rapido a farsi e a sciogliersi. E non ce ne è uno più sicuro. Più le parti si allontanano più il nodo si stringe, perché non si perdano. Giulia amava sciogliere quel nodo in quel primo giorno. Liberava la zattera e si liberava. Aspettava un po’ prima di accendere il motore. Le piaceva guardare la boa restare lì, ferma, incapace di urlare, piangere, scappare, tendere una mano a riprendersi quello che per tante ore, giorni, mesi aveva creduto suo. Le piaceva guardare la fune affondare lentamente, incapace di reazioni e di vita. Si guardava le braccia e le mani. Capaci di stringere e di liberare. Si ascoltava la voce e si assaggiava le lacrime, capaci di chiedere di restare. O di andare. Lei non sarebbe mai stata una boa, pensava. E non sarebbe stata neanche una zattera, che chiunque avrebbe potuto rapire e legare altrove.
Dopo veniva il vento. Il vento nei capelli negli occhi sulla pelle. Giulia correva lontano. Lontano guardando solo avanti, solo in fondo al mare. E quando si spegnevano tutti i rumori e le voci e scomparivano tutte le scie e le onde e il mare diventava di un blu tutto uguale, coperto di infinite piccolissime piegoline, ed il sole e la fine del mare le sembravano più vicini, Giulia spegneva il suo di rumore, quello della testa e quello del vecchio motore che disturbava il cielo finalmente vuoto. Poi si girava. A volte la terra era lontanissima. Finalmente. E lei si sentiva proprio come il mare. Che guarda la terra da lontano. Come Dio. Si vedeva lì, persa e presa, infinitamente piccola e in balia dell’immenso eppure si sentiva come un Dio. Un Dio lontano che guarda il mondo da lontano. E da lontano guardava Giulia. Quella che lasciava a terra. E riusciva a guardarla finalmente senza rabbia o senza amore. Proprio come lei aveva imparato col tempo a guardare gli altri, a guardare le cose. Riusciva a comprenderla, a smettere di giudicarla. Si stendeva e aspettava che il sole le seccasse la pelle, le lacrime, il sangue, le parole. Poi il sole usciva dall’acqua dell’Adriatico. E Giulia si regalava al mare.
Nel mare Giulia aveva spento fuochi, sogni, ferite, desideri. Al mare aveva confidato quello che nascondeva al sole e vomitava in faccia alla luna, quello che all’uno donava e all’altra negava. Il mare le entrava nelle pieghe scure dell’anima e le accarezzava piano la pelle.
Come lui. Lui quando era arrivato era stato come l’alba sull’Adriatico. Giulia si era sentita bambina e vecchia insieme. Piena e vuota. E aveva saputo tutto. E niente. I suoi occhi le avevano scavato gli occhi, le sue parole le avevano frugato in fondo, giù, in quell’abisso che lei donava al mare senza esplorarlo, e le sue mani quell’abisso lo avevano steso piano sulla sua pelle. Lui la guardava. E le restituiva quello che vedeva. “Guardati Giulia, non aver paura”. Giulia nel mare si immergeva. Il mare se la beveva tutta. Lui invece si era immerso in lei. Le aveva insegnato a bere. E nei suoi occhi a guardarsi. Il tramonto di fuoco nell’anima e la Luna nera negli occhi. E il sole e il cielo e il mare e la luce e il buio erano tutti lì e tutti insieme. Anche la terra lontana. Dove per la prima volta Giulia aveva voglia di stendersi a sentirne il calore e il sorriso e il freddo e il pianto. Sotto di lui, sopra di lui, dentro di lui, con lui dentro. Nessuna boa. Nessuna zattera. Nessun nodo. Fili sottilissimi stesi sull’oceano a restituirsi gli occhi, l’odore, il coraggio, il desiderio.
Quell’estate Giulia aveva paura del mare. Tradito l’avrebbe derisa. Avrebbe riso del suo sogno, della sua follia, della sua verità. E avrebbe giocato a strapparglielo dall’anima. Sicuro di vincere come aveva vinto tante volte. “Sei di nuovo sola Giulia ed è questo quello che vuoi. Mai una boa, Giulia, mai una zattera. Sei tornata da me Giulia. Sei tornata da te. Lontano dalla terra, lontano dal dolore, lontano dal rumore, dalle voci, dal tempo”. Giulia sciolse il nodo e si guardò le mani. Le mani cariche del doppio degli anni di quell’alba sull’Adriatico. Guardò la corda affondare in silenzio. Guardò la boa allontanarsi in silenzio. Si prese il vento nei capelli e il sole a seccare pelle e lacrime e parole e sangue. Guardò la terra lontana e respirò il cielo. Guardò il mare prima di immergersi. Il mare che si prendeva tutto e le cambiava la vita in memoria. Con lui sotto la pelle che le era rimasto lì e che lei non aveva neanche provato a strapparselo. Si immerse. Per un tempo che le sembrò infinito e brevissimo. E si chiese di non pensare.
Si lasciò il mare e il sole sulla pelle quella notte. A bruciarle la pancia e gli occhi dove c’erano le sue mani e la sua immagine. Il suo mare e la sua seconda alba sull’Adriatico.
Il giorno dopo il mare era liscio come l’olio. A Giulia non piaceva quando era così. Era come la faccia nascosta della Luna. Si nascondeva. Quando il Caronte di servizio alle boe le chiese, lasciandola alla zattera, se voleva che le sciogliesse il nodo si scoprì a rispondergli di si. Accese il motore e prese il vento. Si stese in mezzo al niente. Al silenzio assordante di quel mare immobile. Anche l’aria era ferma e calda e cupa. Il cielo e il mare si fusero in un colore grigio come quello dell’inverno. Giulia guardò la terra lontana. Lontana e piena di quello che il mare le toglieva dal cuore per trasformarlo in ricordi e parole. Non ce ne erano. Non li sentiva. Era capitato. Qualche volta era capitato. Di sentire che non era il momento ancora di tornare, che non era pronta. Ma poi il mare le aveva fatto spazio e chiarezza e forza. Altre volte aveva aspettato, finché sicura di quell’abbraccio non era scesa a terra. Accese il motore con il cuore che le scoppiava dentro. Senza accendere i pensieri che aveva lasciato al mare senza pensarli. Si prese il vento contro, la fine del mare e il sole dietro le spalle. Si prese le scie, le voci i rumori che si lasciava ogni giorno indietro. Mollò la zattera sulla riva di quel lago senza più forze e voce e lacrime per trattenerla a sé. Come una boa. Si stese sulla sabbia bollente. L’odore di lui nella testa, nei capelli, nelle mani, nella pancia.
Quando riaprì gli occhi la zattera strusciava sulla battigia. Il cielo era tornato azzurro e il mare gli restituiva il colore. E mille brividi di vento lo spazzolavano restituendogli vita. Si alzò per portare la zattera a un ormeggio e sentì in ogni passo che affondava nella sabbia e nel mare la sua voce che ripeteva il nome di lui. Come le volte che da ragazzina andava al mare a presentargli i suoi amori. Guardò lontano in fondo al mare. Con la terra sotto i piedi. Con la terra tra le mani. Respirò l’assenza. “Guardati Giulia, non avere paura”.
Lui non sarebbe tornato. O forse si. O forse Giulia sarebbe andata a cercarlo. O a cercarsi. Il mare non aveva saputo prenderglielo. O non aveva voluto. L’alba sull’Adriatico ha il colore dei sogni. Dei sogni di chi crede alle favole. Lui era stato la sua alba sull’Adriatico. E il mare non ruba i sogni a chi crede alle favole.