Le era venuto in mente nel bel mezzo del traffico cittadino, nel bel mezzo della canicola d’agosto, nel bel mezzo d’un esaurimento nervoso. Aveva smaneggiato il fondo della sua borsa estraendone un biglietto con su scritto un numero di telefono. Aveva telefonato ed era entrata nella sua doppia, incantevole, sporca vita.
Forse si era detta, poi mi sentirò in colpa. Ma non era accaduto. Erano gli altri a percepire che lei era andata via, e smaniavano perchè tornasse. Entrava ed usciva da case che non le interessavano minimamente, da vite che non spostavano la sua. Era ora così libera.
E questa costituiva la sua più grande attrattiva: essere riconosciuta così libera e così inquietante per questo. Quel suo aspetto spiccio e dimesso, il fatto di ridere spesso, ma sul serio, di sentire l’etilico piacere della leggerezza. E poi la finzione, non credeva le sarebbe piaciuta tanto.
Sapeva bene che dietro l’angolo di quella sua scelta ci sarebbe stata in agguato la volgarità e forse la violenza. ma non accadde mai.
Almeno fino ad allora. Era dunque sempre al telefono che iniziavano questi nuovi amori, questi nuovi appuntamenti, queste invenzioni sfrenate perchè così banali e credibili. Occasioni che si verificavano con una regolarità inquietante.
Era quella la strada, era quello il cortile con il numero scolpito nel marmo, era quello il giardino, la porta aperta. Era quella l’ora calda del primo pomeriggio, l’inizio cordiale del gioco amoroso che si ripeteva con gli stessi gesti, racconti, sorrisi.
Erano quelli gli abbandoni che nella loro semplicità contenevano qualcosa di felice e di mostruoso insieme. L’inganno continuo. L’esperimento di altre carni ed altri volti e luoghi e storie. La storia sua che non esisteva più. Si era così spezzata da risultarle ormai estranea e noiosa.
E lei così fresca e leggera, dopo ogni incontro in cui non c’era gioco più piacevole che il dire immediatamente si a tutto senza per questo incorrere in alcun disprezzo postumo. Tranne quel giorno Si, era calda la giornata e accecante. Le piante di alloro immobili, verdi spietate e senza ombra. La porta d’ingresso socchiusa e gli scuri accostati, pesanti di ombra fresca dentro il vestibolo. Lei si fermò in quel primo ambiente circolare e non chiamò E non le importò che dall’ombra si sollevasse una voce stanca, emozionata. Che l’uomo la conducesse dove voleva, non era che più divertente abbandonarsi. Ed infatti la condusse, ed era tutto silenzioso, scuro e indistinguibile Per un istante si ricordò di se stessa, di quando non avrebbe mai sopportato di non conoscere fin nei minimi particolari la realtà che la circondava. Tempi durissimi ai quali la sua vita attuale non era che vistosa opposizione Si quindi quest’uomo non parlava, non offriva dolci, nè bibite E questa casa era infinita. Non c’erano che stanze in cui non si sentiva che la eco dei loro passi su un pavimento risuonante. Lui la teneva in vita, trattenendole una mano.
Se così doveva finire, pensò lei, e con molta stanchezza si abbandonò di più al suo braccio e lui immaginò lei richiedesse un bacio. E nel buio più profondo la attrasse
Così cominciò, in quel giorno pieno di sole, che lei si ritrovò poi di nuovo alla luce accecante d’un pomeriggio immobile che non era forse trascorso, priva di deliziose bugie da inventare. E a casa, nessuno le chiese nulla.
Era così bella e intatta quella storia senza volti riconoscibili, quella storia bendata nel silenzio fresco della casa, mentre fuori l’erba avanzava sugli impiantiti, le api rigiravano impettite e stordite, ubriache dei rosa malva E lei si ritrovava puntualmente fuori della casa, preda di un gran sonno,. abbattuta dalla grande emozione, che ormai la dominava, e sentiva, sentiva, che non ne sarebbe uscita bene Tornava alla sua casa, ai suoi lavori, con un ostinato silenzio. A chi le chiedeva conto delle sue giornate, ed ora gliene chiedeva, rispondeva con monotone menzogne. Era come un frutto che il sole non risparmia, che il sole invade ad ogni istante senza riparo, finchè non si addensano gli zuccheri in cristalli, ed esso muore, staccandosi dall’albero. Trafitto, cade al suolo.
Non c’era più tempo per i foglietti di carta, gli appuntamenti al telefono dati con risate isteriche, i continui incontri. Non c’era che quell’amore torpido, eccolo di nuovo, tra il lampo di luce fissa all’esterno e il buio freddo dopo il portoncino, in quegli ambienti irti di mobili, su pavimenti nudi.
Vuoi che apra le finestre? Vuoi respirare, ti vedo affaticata. Mi vedi? ed io che non distinguo che il vapore delle nostre parole, in questo freddo mentre fuori ruota il calore del vulcano. Non c’è che estate fuori di qui, e all’ombra si ricompone ancora un pò di vita. Fino a quando? ecco, è ritornata la domanda che avevo dimenticata, ma non ho la forza di andare via. Così oggi sei tu che ti allontani
Non c’è traccia di pigrizia, per un attimo nella mia mente, quando apri la porta ed entra la luce indovino la statura e appena il colore dei tuoi capelli. Mi lasci con orrore a misurare quanto io sia di nuovo presa. Di quanto sia pesante la ripetuta condizione. Ora non saprò più mentire Ritorno abbattuta alla casa. Di nuovo la colpa si è incamminata durante la strada, recriminando il mio abbandono, a casa non ho potuto confessare. Non c’era più nessuno ad attendermi. E quando sono tornata nel giardino, pioveva, ed era tutta una burrasca, i rovi attentavano alla casa, e tutto in me si tormentava di nostalgia. La porta era chiusa. Mi chiedo se dovrò attendere per sempre dietro quella porta, e sono capace di farlo, dandomi di volta in volta un segnale: quando tornerà il sole, quando scenderà la notte, se aprirai la porta, quando avrai tardato e ti incontrerò per la prima volta, e vedendoti, mi mancherà l’amore
Bellissimo racconto. Grazie Sara