Una strage dimenticata avvenuta 35 anni fa. Un mistero di Stato e di mafia, un giallo che dispensa ancora segreti e veleni. Era la notte tra il 26 e il 27 gennaio 1976, quando due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, vennero uccisi nella casermetta di Alcamo marina, in provincia di Trapani. Movente sconosciuto, ma in cella finiscono subito cinque persone con l’infamante accusa di essere i giustizieri dei due militari. Oggi le nuove indagini e una testimonianza riscrivono quella storia. Con un ennesimo segreto da svelare.
L’ultimo colpo di scena è che il giornalista Francesco La Licata, storico inviato di punta de La Stampa in Sicilia, sarà chiamato in aula, durante il processo di revisione in corso presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria a carico di Giuseppe Gulotta, accusato e condannato all’ergastolo per la strage. Per quell’eccidio con Gulotta vennero condannate al carcere a vita altre tre persone: di questi uno è morto e gli altri due sono fuggiti in Sudamerica.
Il loro calvario iniziò il 12 febbraio 1976, quando un giovane alcamese, noto come anarchico, Giuseppe Vesco, fu fermato durante i pattugliamenti dei carabinieri, insospettiti dall’auto del ragazzo, una Fiat 127 senza fari anteriori e con una targa di cartone. Nell’unica mano, essendo privo dell’altra, il giovane impugna una pistola e dunque viene portato immediatamente in caserma per dei controlli. In seguito ad una vera e propria tortura, condotta dalla squadra e alla presenza del colonnello Giuseppe Russo, poi ucciso il 20 agosto del 1977, Vesco confessa il duplice omicidio dei carabinieri e fa ritrovare parte della refurtiva sottratta dopo l’agguato.
Non finisce qui: avendo riscontri, Russo passa la conduzione dell’interrogatrorio-tortura ai sottufficiali Giuseppe Scibilia e Giovanni Provenzano, che costringono Vesco a fare i nomi dei fantomatici complici: tra questi c’era Gulotta. Nomi palesemente inventati tanto che Vesco arriva ad implorare: “Vi bastano cinque?”. A quelle sevizie, poi ripetute in maniera più blanda anche per i gli altri accusati, era presente anche il sottufficiale dell’Arma dei Carabinieri, Renato Olino. E qui entra in gioco Francesco La Licata. Durante l’udienza del 24 giugno 2010 del processo di reivisione, Olino, testimone chiave, viene chiamato dalla difesa di Gulotta. Racconta delle torture, “dell’acqua e sale che viene spinta in gola a Vesco con un imbuto, degli elettrodi collegati ai testicoli del presunto assassino e delle percosse”. Delle finte esecuzioni con le pistole puntate sulla fronte del ragazzo e dei suoi supposti complici.
Ma dice anche di aver provato a raccontare la sua versione dei fatti molto tempo prima, sia ai piani alti dell’Arma, che gli consigliano di non essere “inopportuno”, che ai giornalisti, uno su tutti Francesco La Licata: “Prima e dopo il 1990 avevo più volte stimolato il dottor La Licata a mettermi in contatto con magistrati per fare emergere questo fatto” dichiara durante l’udienza. “Io ho conosciuto – continua Olino – il dottor La Licata in quanto lui era cronista de L’Ora di Palermo, e io stavo al nucleo investigativo di Palermo, lui veniva spesso in ufficio dal colonnello Russo a prendere le cosiddette veline per le notizie stampa”. E aggiunge: “Ho sempre cercato attraverso lui di dire: ‘guarda Francesco, io ho questa esigenza, la strage di Alcamo Marina, per me non è chiarita, non è chiara, lì ci stanno delle persone secondo me, lo dico in un modo molto distaccato, innocenti, dobbiamo vedere cosa c’è veramente dietro la strage di Alcamo Marina’. Per questo l’avvocato di Gulotta, Saro Lauria, chiederà nella prossima udienza di ascoltare il giornalista.
“(Mi disse, ndr) di lasciare perdere. Che mi sarei messo contro l’Arma, che i miei colleghi che avevano torturato i ragazzi non avrebbero mai ammesso nulla. Gli ho ripetuto le stesse cose anni dopo, ma fu inutile, un muro di gomma. Non volle scrivere nulla. Gli dissi anche che volevo parlare con il maresciallo Scibilia che avevo visto prendere parte alle torture. Seppi poi che lui era in stretti rapporti proprio con Scibilia” disse Olino il 12/08/2010 a L’Unità e oggi ci dice: “Negli anni sono sempre tornato alla carica, avendo il suo numero privato, chiedendogli ogni volta di aiutarmi a raccontare la verità”. Circostanze confermate oggi dal giornalista: “Immaginavo che la difesa mi avrebbe convocato. All’epoca non ero molto convinto delle cose che diceva” ha ribattuto La Licata al telefono. Versione che fu poi ritenuta attendibile dallo stesso giornalista solo nel 2007 e presentata nel corso di una puntata della trasmissione “Blu Notte” di Carlo Lucarelli nel 2009.
Intanto la procura di Trapani, nei mesi scorsi, ha iscritto nel registro degli indagati quattro carabinieri per quelle sevizie, tra cui Scibilia, che di fronte al magistrato trapanese Andrea Tarondo si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, consci che ormai i reati contestati sono prescritti. Il racconto di Olino ha anche permesso di riaprire le indagini sulla strage e avviare il processo di revisione per Gulotta, che oggi di fronte a questo ennesimo colpo di scena ci rilascia un’amara considerazione: “Non potevo immaginare che La Licata che tanto aveva fatto per far emergere la verità sulla mia innocenza, ne era perfettamente a conoscenza molto tempo prima. Se avesse scritto quell’articolo del 2007 negli anni ‘90 forse mi avrebbe fatto risparmiare una condanna all’ergastolo”.
Un ulteriore conferma alla versione di Olino è un’intercettazione telefonica in cui i familiari di un altro carabiniere indagato, Giovanni Provenzano, parlano delle sevizie e delle modalità che i militari misero in piedi per evitare che si scoprissero: “Hanno spostato i mobili e ridipinto le pareti della caserma”. Chiamati in aula, Rossana e Michele Provenzano, anche lui carabiniere come il padre e oggi in forza al Ros, hanno negato tutto anche a fronte delle contestazioni del magistrati, tanto che il procuratore generale e l’avvocato difensore hanno chiesto che contro i testimoni si proceda per il reato di falso.
Rimane la domanda di fondo. Chi era a conoscenza dei segreti della strage di Alcamo Marina? E perché sono rimasti sepolti fino ad oggi? L’ultima ipotesi è che i due carabinieri uccisi avrebbero casualmente scoperto un traffico d’armi mediato dai servizi segreti e sarebbero morti perché tacessero. L’unico che poteva parlare è Vesco che è morto però suicida in carcere pochi mesi dopo la strage. All’eccidio seguì il depistaggio alla ricerca dei capri espiatori, dei colpevoli perfetti inguaiati dalla confessione di un’anarchico torturato e forse “suicidato” da qualcuno in carcere, considerato che impiccarsi con una sola mano è impresa assai ardua.
Benny Calasanzio