Palestina all’ONU – Speranze e Timori

Abbiamo vinto hanno perso. E’ la frase tipica che spunta ad ogni voto, ovunque e da chiunque.

La Palestina ha il proprio posto all’ONU anche se come membro osservatore.

Non ha perso Israele come i media di parte si ostinano ad annunciare. E’il Premier Netanyau che ha perso una grande occasione di dimostrare un po’ di apertura politico-diplomatica. Anche controvoglia avrebbe dovuto votare “Sì” e sarebbe salito nella stima di molti prendendo tutti in contropiede. Avrebbe stravolto una storia già scritta. Gli israeliani sono prigionieri di un Governo ottuso. Perché, anche se soffocata dal potere, esiste ancora una sinistra e prima del voto all’ONU ci sono state manifestazioni per il Sì. Sono molti gli israeliani che vogliono la pace ma i media occidentali preferiscono giocare a “buoni e cattivi”. Un atteggiamento esasperante e non costruttivo.

 

Certo che l’accesso della Palestina all’ONU deve comunque far riflettere, non fosse altro perché sembra un procedimento alla rovescia. La Palestina non è ancora uno Stato ma una Missione. Mettiamo che l’idea di procedere in questo modo sia quella buona, è però necessario che anche il popolo in festa debba rendersi conto che un tale riconoscimento implica anche dei doveri. Il “Sì” può essere interpretato in tanti modi, non ultimo un riconoscimento di Mahmoud Abbas, o Abou Mazen (il suo nome di guerra), Presidente legittimo della Palestina e membro del Fatah. Un messaggio ad Hamas, il braccio armato, quello che lancia i razzi da Gaza, che “ignora” il Presidente eletto  alla morte di Arafat.

Se l’interpretazione è corretta allora può spiegare la dichiarazione del capo del movimento islamico Khaled Méchaal in un’intervista all’agenzia Reuters e secondo il quale il riconoscimento all’ONU “può essere un passo per la riconciliazione con il Presidente dell’autorità palestinese Abbas”. Ma Khaled Méchaal mantiene anche propositi estremi : “Ho detto ad Abou Mazen che vogliamo che questa iniziativa rientri in un quadro di strategia nazionale palestinese che comprenda la resistenza (armata) che ha eccelso a Gaza e fornito un esempio della capacità del popolo palestinese di resistere e tener testa all’occupante”. Il Capo dell’Hamas, che per chi non lo sapesse, vive in esilio in Siria da tempo ed il governo egiziano del destituito Presidente Moubarak gli impediva di rientrare. Ora, con il successore Mohamed Morsi, che proviene dal movimento islamico dei Fratelli Musulmani, Méchaal può rientrare a festeggiare i 25 anni di Hamas.

 

Questo riconoscimento alla “rovescia”, può essere un’arma a doppio taglio per le negoziazioni. La diplomazia deve vincere. Si deve riuscire a trovare uno sbocco e giungere alla creazione di “due popoli due Stati” è un’esigenza per i civili che chiedono la pace. Il Premier Netanyau potrebbe anche accorgersi che, al di là del suo governo oltranzista, esiste il popolo israeliano che non è tutto con lui, che manifesta per la pace ma anche per il caro vita, gli alloggi. Potrebbe anche ricordarsi degli sforzi produttivi di Ariel Sharon che cambiò strategia e, nel 2004 scatenò una vera e propria tempesta politica annunciando un piano di smantellamento di diciassette colonie ebraiche dalla Striscia di Gaza e di tre colonie dalla Cisgiordania. Il “duro” era anche lungimirante.

 

Alla Knesset, il Parlamento israeliano, vince la linea del pugno di ferro ma il partito Laburista esiste e come in tutte le democrazie nulla impedisce di sperare in un’alternanza. Con il riconoscimento all’ONU, anche se soltanto come membro osservatore, la Palestina sa di poter far ricorso alla Corte Penale Internazionale in caso di aggressione e lo sta già dicendo forte. Ma Abbas non deve dimenticare che Israele può fare altrettanto. I razzi di Hamas su Bersheeva, Ashdod, Shderot ed anche Tel Aviv non sono proprio un’incitazione alla pace. La convinzione di molti è che la lotta è impari ma Hamas non può non saperlo, allora perché ricomincia e ricomincia esponendo i civili palestinesi alle risposte israeliane? Abbas ha chiesto all’ONU un primo riconoscimento di uno Stato Palestinese ma non è compito dell’ONU, semmai il voto d’integrazione deve essere visto come un incoraggiamento alle trattative di pace per entrambe le parti. La popolazione israeliana è in parte preoccupata? Non è uno schiaffo al voto ma il lecito timore dettato da Hamas e delle sue relazioni con l’Hezbollah, i Fratelli Musulmani ed altri estremisti islamici che sognano apertamente la morte di Israele. Forse il problema del conflitto israelo-palestinese andrebbe visto in un’ottica allargata, anche in base ai recenti sviluppi delle “primavere” arabe. Ma per fortuna sembra che nessuno voglia farsi rubare la rivoluzione da estremisti islamici in giacca e cravatta che siano egiziani o tunisini e se ce la fanno, anzi, ce la faranno, anche gli estremisti israeliani come i rappresentanti del Likud avranno meno argomenti per trascinare alle lunghe le trattative.

La palla è ora nei due campi.

Luisa Pace

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