Strage di S. Giovanni Gemini, ergastolo per Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Incontro con Giuseppe Ciminnisi

La Corte d’Assise di Agrigento ha condannato oggi in primo grado all’ergastolo Salvatore Riina e Bernando Provenzano, per la strage del 29 settembre 1981, quando a San Giovanni Gemini vennero uccisi Gigino Pizzuto, capo mandamento di Castronovo di Sicilia e due vittime innocenti che pagarono il fatto di essersi trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato, Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano .

Abbiamo incontrato stamattina Giuseppe Ciminnisi, figlio di Michele Ciminnisi, vicepresidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia, le cui caparbietà, coraggio e desiderio di giustizia, hanno portato all’odierno risultato.
All’epoca dei fatti, Giuseppe era un ragazzino di soli 14 anni, al quale la ferocia di un gruppo di malavitosi, unitamente a un destino avverso, portarono via per sempre la figura paterna.
Il padre, impiegato comunale, la sera del 29 settembre 1981, si trova al bar Reina a giocare a briscola con altre persone. Vicino al tavolo, Vicenzo Romano che assiste alla partita a carte.
Non passa molto che al bar entra Calogero ‘Gigino’ Pizzuto, il quale si siede allo stesso tavolo.

Secondo quanto si apprenderà in seguito dai pentiti, Pizzuto in quel momento è ai vertici della ‘Cupola’ di Cosa Nostra, dopo Bontade ed Inzerillo. Un incontro casuale quello con Pizzuto, il quale non è originario di San Giovanni Gemini e risiede a Palermo.
Pizzuto è la vittima designata dell’agguato. I killer entrano e sparano incuranti del fatto che all’interno del locale si trovino molte persone che nulla hanno a che spartire con il boss.
I killer si lasciano alle spalle due feriti e tre morti. A perdere la vita quel giorno furono la vittima designata e due avventori, ‘vittime per caso’. Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano.

Oggi Giuseppe non è più un ragazzo. È un uomo che ha sofferto tanto, ma che non si è mai rassegnato dinanzi l‘ingiustizia subita.
Stamattina, prima che venisse emessa la sentenza di condanna per Riina e Provenzano – Pippo Calò è stato assolto -, abbiamo ripercorso insieme questi ultimi 29 anni, che hanno visto un ragazzino spensierato trasformarsi in un uomo desideroso di giustizia e determinato ad ottenerla.

Giuseppe inizia fin da subito un calvario fatto di sofferenza, indifferenza da parte di chi avrebbe avuto il dovere di stare accanto a lui e alla sua famiglia, isolamento da parte di molti compaesani, quasi fossero lui e la sua famiglia i criminali.
Persino lo Stato e il mondo politico lo abbandonano. Ha solo 16 anni, quando comincia a scrivere alla Procura, per ottenere giustizia. A 18 anni compiuti, presenta la sua prima denuncia formale, con la quale chiede vengano puniti gli assassini di suo padre.

Viene istruito il primo processo, che si conclude con l’assoluzione di tutti gli imputati. Non si trovano gli esecutori materiali della strage. Il primo a dare una lettura più approfondita a quella strage che era costata la vita a due innocenti, fu il pentito Nino Giuffrè a cui farà seguito Ciro Vara, che dei killer fu autista.
Fu lui infatti ad andare a prendere Gigi Garofano, Calogero Sala, Rosario Corsi, e Lillo Lauria (tutti in seguito morti ammazzati), dopo l‘agguato per portarli in un luogo sicuro. Fu sempre Vara ad occuparsi del loro trasferimento da una masseria di Cammarata a un nuovo rifugio a Valledolmo.

D – Giuseppe, per oggi è attesa la sentenza sulla strage di S. Giovanni Gemini, nel corso della quale perse la vita tuo padre
R – Sì. Finalmente oggi potrebbe aprirsi un primo squarcio in quelle tenebre che dal 1981 circondano la mia esistenza
D- Cosa ti aspetti che accada oggi?
R- L’unica cosa che mi aspetto e che desidero che accada, è che venga ripristinata la verità e sia fatta giustizia. Nulla potrà restituire mio padre a noi familiari. Ma fare giustizia di un delitto e di tutto quello che è accaduto in seguito, questo sì. Questo lo si può fare.
D- Nel corso di questi lunghi anni, hai anche incontrato uomini come Giovanni Falcone
R- Nei primi anni ’80, incontrai il Giudice Falcone. Ero ancora molto giovane. A Falcone chiesi che venissero assicurati alla giustizia gli assassini di mio padre. Falcone mi rassicurò. Non sarebbero rimasti impuniti. Passarono appena tre anni e Falcone rimase anch’egli vittima della mafia.
D- Cosa provasti dopo gli attentati a Falcone e Borsellino?
R- Inutile negare i momenti di scoramento. Ti senti impotente. Ti sembra che il mondo ti caschi ancora una volta addosso e ti seppellisca con la sua violenza brutale. Poi, mi sono detto che non poteva finire tutto così. Che ci sarebbero stati altri magistrati pronti a fare quello che a Falcone e Borsellino era stato impedito con il tritolo. Non mi sono arreso…

Giuseppe Ciminnisi è emozionato. Tra qualche ora saprà se effettivamente verrà fatta giustizia o se, come nel primo processo, a vincere saranno ‘loro’. Coloro che hanno distrutto l’esistenza di tante famiglie.
Appena il tempo di passare da casa e poi corro in Tribunale. Voglio essere lì al momento della sentenza. Chiamo Giuseppe. La sentenza è stata già emessa. Ci vediamo dinanzi il tribunale.

D- Com’è andata?
Giuseppe sorride e già dal sorriso comprendo tutto.
R- Ergastolo! Ergastolo per Riina e Provenzano. I Giudici li hanno ritenuti colpevoli.
D- E Calò?
R- Calò è stato assolto. Lui al momento del delitto si trovava a Torino. Da qui la sua assoluzione.
D- Cosa provi adesso?
R- Credo che almeno in parte giustizia sia stata fatta. Dopo quasi trent’anni…
D- A parte la sentenza di oggi e l’incontro con Falcone nell’89, in questi lunghi anni, la presenza dello Stato è stata tangibile? Ti sei sentito protetto?
R- A volte mi sono sentito abbandonato dallo Stato. Una sensazione che provano tutti i familiari di vittime della mafia. Basti pensare che le spese processuali per arrivare alla sentenza di oggi, le ho dovute pagare io. Una legge assurda prevede infatti che per le vittime del ‘terrorismo mafioso’ è lo Stato a farsi carico delle spese giudiziarie, mentre per le vittime di mafia, sono i familiari a dover far fronte alle spese. Come spiegare il fatto che per gli attentati avvenuti a Firenze e Roma, addebitati a Riina, le spese processuali sono state pagate dallo Stato, mentre per le stragi che hanno visto lo stesso Riina vestire i panni dell’imputato, lo Stato non ha affrontato alcuna spesa?
D- A proposito di Riina e Provenzano, hanno seguito in videoconferenza il pronunciamento della sentenza?
R- No. Si sono rifiutati di assistere alla lettura della sentenza…
D- C’è qualcuno in modo particolare che ti è stato vicino nel corso di questi anni?
R- C’è una persona della quale sono orgoglioso. Una pesrona che mi è sempre stata vicina, che mi ha spronato ad andare avanti, che ha saputo sorreggermi moralmente nei momenti più difficili. È questa persona che in modo particolare voglio oggi ringraziare…
D- Vuoi dirci chi è?
R- No. Preferisco tenerlo per me…
D- Ci sono altre persone alle quali vorresti dedicare questa vittoria o che vuoi ringraziare?
R- Il risultato di oggi, intendo dedicarlo a tutte quelle famiglie che hanno vissuto e vivono il mio stesso dramma. Un ringraziamento va a chi mi ha aiutato in questa battaglia, ma anche a quanti mi hanno sbattuto la porta in faccia, aiutandomi a crescere e a capire…
D- C’è anche stato chi ti ha sbattuto la porta in faccia?
R- Cito un caso per tutti. Un sacerdote che all’epoca era direttore di un giornale, il quale tentò di ricondurre l’omicidio di mio padre a presunti traffici illeciti nei quali era coinvolto. Successivamente, si giustificò dicendo di aver raccolto voci che circolavano in paese subito dopo il delitto. Non voglio entrare oltre nel merito, ma è giusto ricordare come la parrocchia di questo sacerdote annoverasse tra i suoi fedeli alcuni mafiosi del paese… Solo i pentiti chiarirono come due delle vittime, mio padre e Romano, fossero innocenti. A persone come quel sacerdote, non devo certamente nulla…
D- E Riina e Provenzano?
R- Di quello che hanno fatto, oltre che alla giustizia degli uomini, risponderanno alla loro coscienza e a Dio… Io amo la vita, non sono come loro che le vite le hanno distrutte…
D- Un’ultima domanda. Non hai mai avuto paura di dover pagare caro il tuo coraggio?
R- La morte è una conseguenza della vita. Sarei pronto a rifare tutto quello che ho fatto…

Ci salutiamo. Sono certo che con Giuseppe ci rivedremo presto. Lo guardo salire in macchina, pronto a tornare in quel paese dove molta gente lo ha abbandonato nei momenti più difficili della sua vita.
Quale prezzo ha dovuto pagare quest’uomo per vedersi riconosciuto un proprio diritto? Non voglio neppure pensarci. Da un lato lo ammiro per il coraggio che ha dimostrato, dall’altro, provo orrore per tutto quello che gli è stato fatto. E non mi riferisco ai killer che gli hanno portato via il padre…

Forse ha ragione Giuseppe quando dice che quella di oggi non è la sua vittoria, ma quella di tante famiglie che vivono la stessa situazione. Sarà, ma a me sembra anche la sconfitta di uno Stato che, incapace di garantire i propri cittadini, li abbandona nel momento di maggiore bisogno. Senza la forza d’animo di Giuseppe o di altri come lui, si arriverebbe a sentenze come quella emessa oggi dal tribunale di Agrigento?
Gian J. Morici

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