Due calci ad una palla. Ragazzini che giocano. Ti chiedi perché stai guardano questa partita di pallone giocata tra le macerie di quelle che fino a non molto tempo fa erano case. Poi, guardi attentamente il video e inorridisci. Quello strano pallone, così pesante da non rotolare via, è una testa. La testa di un nemico morto.
Hanno capelli scuri, occhi scuri, ma ce ne sono anche di biondi e con gli occhi chiari che tradiscono la provenienza dei loro genitori. In mano stringono i famigerati AK47 anziché pastelli e penne. La loro età è compresa fra i 11 e i 18 anni ma ce ne sono anche che ne hanno meno di otto o nove. Questi ultimi forse non combattono nelle strade, sono le mascotte, quelle nuove leve a cui i padri mettono un mitra in mano per la foto ricordo o che invitano a dare un calcio alla testa di un uomo appena ucciso.
Sono i “combattenti dello Stato Islamico”. Il fenomeno dei “bambini soldato” non è certo nuovo. Li abbiamo già visti in diversi paesi, soprattutto africani, impugnare le armi, sparare o anche soltanto far la spola tra chi combatte e chi manda ordini, viveri o armi e munizioni.
A differenza degli adulti avvertono meno il pericolo e l’uso di armi sempre più sofisticate e leggere permette anche a loro d’impugnare un mitra e sparare esattamente come fa il papà.
Sono figli di una cultura della violenza che combattono una guerra per la quale hanno subito l’indottrinamento degli adulti. Di quei fanatici che in nome di un dio, qualunque esso sia, non esitano ad uccidere, ad immolarsi, ad immolare i propri figli.
Nei video dell’ISIS vengono presentati come “volontari” che combattono la Jihad. Abu Munther Al Banshi è uno di loro. Anzi, era uno di loro. Sì, perché Abu Munther Al Banshi è morto in Siria. Aveva solo 15 anni. Tante foto con il mitra in mano e una mentre sollevava la testa di un nemico morto tirandola per i capelli. Quasi fosse un trofeo di caccia.
M, a quell’età un ragazzino non dovrebbe imbracciare un’arma neppure per andare a caccia.
Un altro video. Uno ha undici anni e un messaggio da dare. L’altro sembra più piccolo. Parlano in francese e dicono di essere cresciuti in Francia. In mano l’immancabile AK47. Il messaggio è sempre lo stesso, quello che mandano gli adulti, quello che hanno insegnato loro. Per un attimo, ma solo per un attimo, il bambino viene fuori da quella scorza dura che gli hanno costruito intorno. Il suo sorriso lo tradisce. Mastica una caramella. Forse la paga ricevuta per imbracciare il mitra e mandare il suo messaggio. Un mitra che certamente non è la prima volta che stringe tra le mani. Te ne accorgi da come lo maneggia, da come lo mette in spalla, da come lo imbraccia. Non è l’addestramento che hanno fatto i reparti speciali, non quello dei soldati di professione, ma tanto quanto basta ad uccidere e a volte a farlo magari per sbaglio colpendo un altro ragazzino come loro. Tanto quanto basta per morire.
Guardo nuovamente il video, i loro occhi, il loro sorriso e so già che molto probabilmente rivedrò i loro volti. Come per Abu Munther Al Banshi, sarà una nuova supplica ad Allah affinchè accetti le loro anime in paradiso a dirmi che non ci sono più, che fanno parte della schiera dei “martiri”. E se i loro volti non saranno tanto sfigurati da non poterli mostrare, li vedrò ricomposti, ne riconoscerò i lineamenti, ma non più quel loro ingenuo sorriso da “bambini soldato” che giocano a far la guerra.
E se anche dovessero uscirne vivi, cosa ne sarà di loro? Quali le ripercussioni psicologiche dovute a quello che hanno visto, a quello che hanno fatto?
Gian J. Morici