La guerra che divide nord e sud, l’incubo del terrorismo, le diverse etnie e il rischio di rappresaglie, sono gli elementi che hanno fatto del Mali un’autentica polveriera dalla quale ognuno tenta di fuggire. Dopo un periodo di notevole sviluppo economico e nonostante i tanti progetti in corso e l’aiuto di istituzioni mondiali, il Mali è tornato agli anni più bui della sua storia.
Fuggono i maliani dalle torture e dalla sharia imposta dagli estremisti islamici che controllano il Nord del Paese con l’aiuto di alcuni appartenenti a tribù nomadi. Fuggono quelli di etnia Tuareg, peul e araba, per paura delle rappresaglie da parte della popolazione che li accusa di essere complici degli islamisti e di aver causato il caos nel paese con il sostegno dato al Movimento di liberazione dell’Azawad.
Profughi e morti ormai non si contano più. Chi riesce a fuggire ritiene di non poter rientrare più nel proprio paese. A prescindere dalle etnie alle quali appartengono i profughi, le loro storie narrano di morti, violenze, stupri, torture.
La fuga dall’inferno spesso si trasforma in un diverso inferno. Un viaggio alla fine del quale chi ha la fortuna di sopravvivere si dovrà confrontare con l’incertezza in merito al futuro e con la certezza di aver perso il proprio passato, la propria storia, la propria famiglia.
Vittime innocenti, la cui unica colpa è quella di essere nati nel posto sbagliato.
Rashid (per precauzione il nome è di fantasia), il cui padre, dopo aver lasciato il Mali, è morto nel 2006 in Costa d’Avorio, è fuggito dal proprio paese lasciando la madre, parenti, amici e l’università che frequentava, affrontando un lungo viaggio terminato, almeno per il momento, in Sicilia, dove è arrivato la scorsa estate.
A raccontarci la sua fuga dall’inferno, dopo un breve scambio di convenevoli, è lo stesso Rashid. Un giovane nella cui voce, in un italiano ancora assai incerto, si percepiscono la sofferenza subita, la tristezza nell’aver dovuto abbandonare la famiglia e il proprio paese, ma anche la gioia di essere arrivato vivo alla fine del suo viaggio.
Gian Joseph Morici: Ciao Rashid. Quando hai deciso di lasciare il Mali?
Rashid: Nel 2011. Frequentavo il secondo anno di università e per completare gli studi mi mancava ancora un solo anno, quando ho deciso di scappare dal mio paese perché c’era la guerra. Da quando sono nato c’è sempre stato un conflitto con i tuareg del deserto. Aiutato economicamente da mia madre, che temeva per la mia incolumità, sono partito alla volta dell’Algeria. Un viaggio di 100 chilometri percorsi a piedi fino a quando, grazie a qualche passaggio, sono arrivato ai confini dell’Algeria. Giunto lì, insieme ad altri connazionali che ho trovato sul posto, abbiamo pagato una persona perché ci facesse da guida. Ho pagato 30.000 sefa, l’equivalente di 46 euro circa. Per me erano tanti soldi…
G.J.M: Durante l’attraversamento del deserto algerino avete avuto problemi?
R: Ci siamo divisi in gruppi di cinque… non potevamo stare tutti insieme… Camminavamo un gruppo dietro l’altro mantenendo una buona distanza. Poi, man mano che attraversavamo il deserto cominciava a scarseggiare da mangiare e l’acqua… soprattutto l’acqua… Le persone morivano per la sete e quando trovavi qualcuno che era ancora vivo ma non ce la faceva più, dovevi andare avanti e lasciarlo lì… Noi avevamo preso solo una persona che conosce bene quella strada. Se qualcuno decideva di fermarsi per aiutare un altro, quello che ci faceva da guida andava avanti con gli altri… E questo è un problema per te perché andare da soli per il deserto è difficile… impossibile… quando hai un problema di acqua e ci sono delle persone che sono morte che hanno lasciato l’acqua, prendi l’acqua per bere… non c’è niente… Noi siamo scappati per salvare la nostra vita… perché lasciare il tuo paese è come lasciare la tua vita nelle mani di altre persone. Ci sono molti problemi in Mali, non è un problema soltanto del governo. Il problema con il governo, il problema con la popolazione del nord del Mali… la popolazione del nord, la popolazione Tuareg… Sono terroristi già da prima, non hanno iniziato ora. Ci sono delle persone che vengono nel paese e prendono .. Loro hanno un grande mercato nel deserto, dove accumulano e vendono armi… Ci sono i terroristi islamici che stanno in questo campo… All’inizio della guerra hanno ucciso 100, 130 persone. Gli hanno tagliato la testa e il sesso… ho dimenticato il nome del paese dove hanno fatto questo massacro… Dovevo scappare da loro, se mi avessero preso dovevo diventare uno di loro… Se loro ti prendono è impossibile rifiutare. Lo devi fare obbligatoriamente… se non lo fai hai firmato la tua condanna a morte. Nel deserto bisogna anche evitare di finire in mano alla polizia algerina. A questo ci pensava la nostra guida che sapeva i posti dove rischiavamo di incontrare i poliziotti e aggirava i posti di controllo… Ho fatto 8 giorni nel deserto prima di arrivare a Sabaha, una città della Libia…
G.J.M: In quanti avete fatto il viaggio?
R: Alla partenza eravamo circa una trentina… quando siamo arrivati eravamo rimasti in undici… Quando sono arrivato a Sabaha ho lavorato un mese per avere i soldi necessari…
G.J.M: Quando hai attraversato il deserto algerino per raggiungere la Libia, hai incontrato eritrei?
R: Eritrei? No, non è la stessa strada, non è la stessa strada per arrivare in Libia.
G.J.M: Hai saputo cosa succede agli eritrei quando attraversano l’Egitto?
R: Sì! Ma non so parlare del problema in Egitto… ho fatto l’Egitto ho fatto una settimana in Egitto però non ho preso quella strada…
G.J.M: Qual è la via più pericolosa per raggiungere la Libia?
R: La via più pericolosa per raggiungere la Libia non è l’Egitto, è il Mali. Il deserto del Mali e Niger, questa è la più pericolosa… È la parte più pericolosa questa… la più pericolosa dell’Africa…
G.J.M: Avevi più paura della polizia algerina o di quella libica?
R: Tu sai che c’è un governo in Algeria. Tra Algeria e Mali se tu hai passaporto puoi andare in Algeria… Però in Libia non c’è governo, dunque, noi abbiamo più paura della Libia che dell’Algeria. L’Algeria è stato un paese colonizzato dalla Francia e anche il Mali è stato colonizzato dalla Francia… Io posso parlare francese in Algeria, in Libia no. Devi parlare solo l’arabo… se tu sei una persona che arriva in Libia oggi già da domani devi parlare l’arabo.
G.J.M: Come hai fatto a lavorare in Libia?
R: Con uno dei miei amici, una persona che… se tu sei arrivato in Libia, ci sono persone che ti dicono che hanno un padrone che può farti lavorare… Se il suo padrone ti prende a lavorare, chi ti ha trovato il lavoro prende una parte dei soldi che ti avrebbero dovuto pagare… Tra le persone con le quali ho iniziato insieme il viaggio, c’era una di loro che aveva un fratello a Sabaha e ci ha creato il contatto con chi ci ha poi trovato lavoro… Un mese di lavoro per guadagnare una somma sufficiente a pagarsi il viaggio verso Tripoli… A Tripoli ci sono tante persone del Mali… Persone che per me erano come una famiglia… Il lavoro dipende dalla fortuna … ci sono altri che sono venuti oggi e domani sono stati arrestati quindi.. dipende dalla tua fortuna
G.J.M: Per quanto tempo hai vissuto in Libia?
R: 2 anni. Sono stato anche 6 mesi senza lavorare in Libia. Come ho detto ci sono persone del Mali…Se io sono in Libia e vedo una persona del Mali è come la mia famiglia. Posso vivere con loro senza pagare niente… non è un problema. Poi con altri connazionali abbiamo preso in affitto una casa e abbiamo lavorato per un altro padrone libico… Poi, una sera, intorno alle dieci, mi ha fermato la polizia libica. Mi hanno arrestato e portato in prigione. Ero clandestino… Tu non puoi immaginare cosa succede in Libia… Non c’è un processo, non hai un avvocato che ti difende, non hai nessun diritto… Tu non puoi parlare, tu non puoi dire niente. Puoi solo aspettare che loro decidano di liberarti… Le guardie ti dicono che nel tuo paese c’è la guerra, che non puoi tornarci, che la tua casa, in attesa che finisca la guerra nel Mali, è la Libia… Ma intanto sei in carcere e subisci violenze… C’è tanta violenza in prigione, però io la violenza l’ho subita perché a me non piace restare a guardare mentre vengono commesse ingiustizie… Loro (riferito alle guardie – ndr), hanno preso il fucile e con il calcio mi hanno colpito alle gambe e sulle dita dei piedi… Ho ancora le cicatrici per le violenze subite…
G.J.M: Quando ti hanno rilasciato?
R: No, non mi hanno rilasciato. Dopo tre mesi, mi hanno riportato nel deserto… tra la Libia e il Niger… Quando sono venuti a prendermi dalla prigione, un militare mi ha detto che se volevo tornare indietro dovevo pagare. Ma io non avevo soldi… Mi hanno lasciato nel deserto e loro sono andati via… La stessa cosa hanno fatto con altri dieci prigionieri… 8 del Mali e 2 della Nigeria. Dopo un po’ ognuno di noi prese una strada diversa… non so perché… Da solo nel deserto non sapevo dove andare… non sapevo come ritornare in Libia… ero da solo nel deserto… Al secondo giorno incontrai i miei salvatori… I Tuareg, i Tuareg nomadi… Avevo il problema dell’acqua… Due giorni senza acqua… Loro mi hanno salvato, mi hanno dato l’acqua e dopo un giorno mi hanno portato a Durku, un paese che non è lontano dalla Libia. Da lì sono tornato nuovamente in Libia… Non potevo tornare indietro in Mali. Ho chiamato uno dei miei amici in Libia che mi ha aiutato… lui ha chiamato l’autista del camion che porta le persone in Libia. Lui mi ha portato nuovamente a Sabah. Lì ho lavorato e sono tornato a Tripoli…
G.J.M: Hai più avuto notizie degli altri uomini che erano stati abbandonati con te nel deserto?
R: Niente! Il deserto è troppo grande… è impossibile che si vive tre o quattro giorni senza acqua. Impossibile…
G.J.M: Tornato a Tripoli cosa hai fatto?
R: Ho ripreso a lavorare con stesso padrone di prima, stando attento a non farmi prendere più dalla polizia. Il giovedì è impossibile andare fuori… devi stare a casa… Ci sono tante manifestazioni alle quali è interdetta la partecipazione degli stranieri. Sono rimasto con il padrone per tre o 3-4 mesi… poi si è rifiutato di pagarmi… Lavoravo e non mi pagava. Facevo l’idraulico… Poi ho parlato con uno dei miei amici in Libia e lui mi ha aiutato a partire per l’Italia… conosce alcuni che fanno questo lavoro… Mi hanno portato nel luogo segreto dove tengono le persone che devono partire… vicino al mare… Dopo venti giorni è arrivata una barca e ci hanno caricati per portarci in Sicilia…
G.J.M: Quante persone eravate sulla barca?
R: 85. Abbiamo navigato per tre giorni stando attenti ad evitare le grandi navi per paura che fossero navi libiche che potessero prenderci per riportarci indietro, dove saremmo finiti di nuovo in prigione… perché ci sono le navi della Libia… perché se loro hanno visto ti prendono e ti portano indietro in Libia e tu vai a fare la prigione in Libia. Per questo motivo per giungere in Italia si devono evitare le navi.
G.J.M: Sai quanti erano gli scafisti?
Rashid: Non lo so… ognuno di noi ha la sua storia, ognuno di noi ha la sua maniera di arrivare… Non lo so. Ci sono gli altri che la polizia porta, ci sono gli altri che sono venuti da soli, ci sono gli altri che non possono andare dietro… non puoi fare niente e sono obbligati a venire. Il mare era troppo pericoloso in quei giorni… non è morto nessuno però la barca ha avuto dei problemi… si è rotta e siamo stati una giornata fermi senza andare né avanti né indietro. C’era una donna incinta, altre 5 donne ed un solo bambino. A bordo c’era uno di noi che aveva lavorato meccanico e insieme abbiamo riparato la barca… dopo delle navi sono venute a prendere noi e ci hanno portati a Lampedusa…
G.J.M: C’erano persone armate sulla barca?
R: No… però è pericoloso… Perché, per esempio, se c’è un gruppo della Nigeria o Gambia… se hai preso una barca con persone del Gambia, se sono più numerosi del tuo gruppo, possono buttarti a mare senza problemi… perché sono molto più numerosi…
G.J.M: Avevi soldi o un telefonino?
R: No. È impossibile venire con il telefonino. Perché prima d’imbarcarti nella barca le persone della Libia prendono tutto… soldi, telefonino… Io non so di tutti i viaggi, ma nel mio viaggio non avevamo niente… se tu hai detto che non hai soldi e guardano nei pantaloni ed hanno visto dei soldi è un problema per te…
G.J.M: A Lampedusa sei andato al centro di accoglienza? Com’era?
R: Quando siamo arrivati abbiamo avuto il primo necessario. Quando noi siamo arrivati c’erano già molte persone nel centro. Ce ne erano che dormivano fuori e altri che dormivano a casa. Dipende dall’ordine di arrivo… chi è arrivato prima o meno. Del mangiare io non posso dire niente ma solo che per me era insufficiente. Sì, era insufficiente. Ho fatto solo una giornata a Lampedusa. Siamo arrivati la mattina e poi l’indomani mattina ci hanno trasportato da Lampedusa e Porto Empedocle. La polizia a Lampedusa ci ha trattati molto bene…
G.J.M: Hai notizie di tua madre da quando sei partito?
R: è impossibile chiamare in Mali e parlare… ho notizie tramite un amico della Costa d’Avorio. Ho paura a chiamare casa… paura del governo, paura di tutti… Ci sono altre persone che sono scappate perché hanno avuto un problema solo per loro, un problema personale… però il mio non è un problema personale e se la prenderebbero con la mia famiglia… E’ impossibile per me ritornare… è impossibile far sapere che io sono qua…
G.J.M: Il ricordo più brutto di questo tuo viaggio…
R: Il più brutto di tutti è quando mi hanno lasciato nel deserto da solo… in quel momento non ho avuto paura di morire perché ho pensato che ero già morto… ma se ci penso ora… Quando sono arrivato in Italia è stato il momento bello. Nella barca ho fatto anche amicizia… Se io ho preso una bottiglia di acqua… perché devi avere una bottiglia di acqua prima… se io ho una bottiglia di acqua e c’è una persona vicina a me che ha sete, devo aiutare questa persona. Quando noi siamo nella barca è come se fossimo della stessa famiglia. Però nella barca ci sono le persone cattive… dipende dal gruppo che avete preso. Dipende dal gruppo.
G.J.M: Cosa pensi di fare in Italia?
R: Voglio avere una famiglia. Dipende dal mio paese…
La storia di Rashid, per sua fortuna, è una storia finita bene. Ma quante persone muoiono quotidianamente durante questi viaggi?
A breve vi riparleremo del caso di Zwena. La ragazza eritrea tenuta sotto sequestro dai beduini del Sinai, violentata, torturata e che dopo la liberazione è stata arrestata dalla polizia egiziana perché clandestina. Zwena comparirà a giorni dinanzi un tribunale egiziano e rischia di essere rimandata in Eritrea, dove, quasi certamente, verrà uccisa.
La sua storia, ricca di particolari agghiaccianti, diventa ancor più tragica a causa del mancato intervento di alcune organizzazioni umanitarie che avevamo contattato e dalle quali avevamo ottenuto promesse che sono rimaste solo parole al vento.
Organizzazioni e persone delle quali pubblicheremo i nomi nonché i contenuti della corrispondenza intercorsa in questi lunghi mesi.
Quanto ci costano queste organizzazioni? Quanto vale per loro una vita umana? Sarebbe stato sufficiente prendere sotto tutela Zwena per far sì che potesse continuare a vivere nonostante quello che aveva passato. Invece, per colpa degli strani silenzi e all’inoperosità di chi aveva garantito il proprio intervento, Zwena morirà. Perchè? Perchè si sono disinteressati così di una ragazza ventunenne condannandola a morte certa? Vogliamo sperare che dopo quello che pubblicheremo qualcuno trovi il coraggio di contestare quello che scriveremo. Che abbiano il coraggio di farlo apertamente accusandoci di aver detto delle falsità. Non aspettiamo altro, per poter documentare la veridicità di quanto sosterremo. Potremo così produrre la corrispondenza che dimostra come organizzazioni di carattere internazionale si sono comportate come Ponzio Pilato lavandosene le mani. Alcune non rispondendo nemmeno più alle email o alle telefonate con le quali si comunicava che la ragazza era libera e tramite l’Alto Commissario alle Nazioni Unite se ne poteva far riconoscere lo status di avente diritto ad asilo politico. Altre, costrette ad ammettere la loro incapacità ad intervenire. Semplicemente vergognoso…
Gian J. Morici
Totò Castellana