di Simona Mazza

Le frasi offensive sui figli del giudice Borsellino, profferite durante le conversazioni tra Natoli e Scarpinato, mediaticamente coprono l’eco del varco vero: Caltanissetta, i brogliacci riemersi, la riunione del 14 luglio ’92, il nome di Giuseppe Pignatone. Qui la posta è la memoria giudiziaria
Il rumore e la trama
Il clamore di questi giorni si è concentrato sulle parole di Gioacchino Natoli, già presidente della Corte d’Appello di Palermo, che nelle intercettazioni definisce i figli di Paolo Borsellino “senza neuroni”. A dialogare con lui è Roberto Scarpinato, ex procuratore generale e oggi senatore del Movimento 5 Stelle, magistrato che ha attraversato l’intera stagione delle stragi e che ha spesso assunto posizioni critiche verso gli apparati dello Stato. È Natoli a pronunciare l’espressione, mentre Scarpinato non la raccoglie né la contesta, lasciando che la conversazione si sposti su altri temi.
Quelle frasi, destinate a colpire l’opinione pubblica, non sono che la superficie di un dialogo più intricato. In controluce, affiorano riferimenti alla Commissione parlamentare Antimafia – anche questa oggetto di tentativi di condizionamento, con la proposta da parte del Generale Mori di periti da nominare -, a verbali da predisporre, ad audizioni già fissate e alla riunione del 14 luglio 1992, cinque giorni prima della strage di via D’Amelio in cui perse la vita Paolo Borsellino con la sua scorta. Natoli chiede spiegazioni a Scarpinato circa la sua eventuale presenza a quel tavolo, mentre Scarpinato ribadisce di non esserci stato. Non si tratta, quindi, di un semplice scambio di opinioni: è un confronto tra due ex magistrati che maneggiano una materia delicatissima, la memoria degli attentati e il modo in cui essa viene trasmessa alle istituzioni e alla collettività.
Ma non è solo questione di presenze. È il contenuto stesso di quella riunione a rimanere sospeso: quali rischi furono discussi? Quali strategie accantonate? Quali priorità d’indagine stabilite? Le intercettazioni fanno capire che intorno a quella data si gioca un pezzo di verità cruciale, in cui omissioni e divergenze continuerebbero a pesare sulla storia delle stragi.
Caltanissetta: gli archivi che tornano
Il tracciato delle conversazioni conduce a Caltanissetta, dove nell’estate 2025 sono ricomparsi i brogliacci e le bobine dell’inchiesta Mafia e Appalti. Non carte residuali, ma documenti che intrecciano mafia, politica e grandi imprese alla vigilia delle stragi. Dentro quelle registrazioni emerge un sistema in cui le cosche non operavano isolate, ma come ingranaggio di un meccanismo che coinvolgeva imprese di costruzione, commesse pubbliche e apparati amministrativi. È per questo che il destino di quei documenti è ancora decisivo: conservarli significava infatti esporre la rete di interessi che legava criminalità e potere, distruggerli equivaleva a tutelare equilibri fragili.
Uno sguardo al contesto aiuta a comprendere. L’inchiesta Mafia e Appalti, avviata nei primi anni Novanta dai carabinieri del ROS, individuava negli appalti per grandi opere pubbliche la nuova frontiera del controllo mafioso. Non più soltanto estorsioni e racket, ma la capacità di orientare le gare, condizionare la gestione dei lavori, spartire i profitti. Ne emergevano nomi di imprese di rilievo nazionale, rapporti con politici e collusioni amministrative.
Da qui le domande: chi custodiva quelle carte? Chi tentò di ridimensionarne la portata o di farle sparire? Perché riemergono solo oggi? Era sufficiente questo a determinare la volontà stragista di uccidere Falcone a Capaci e Borsellino in Via D’Amelio? Perché le stragi proseguirono anche nel ’93? È attorno a questi interrogativi che le conversazioni tra Natoli e Scarpinato trovano la loro densità. Nei loro scambi affiora il riferimento alla Commissione Antimafia, alle audizioni, alle versioni ufficiali da offrire. Non è dunque un banale scambio di opinioni, ma un confronto sul modo in cui la memoria istituzionale della stagione delle stragi viene costruita e tramandata.
Il triangolo Natoli – Scarpinato – Pignatone
A completare il quadro interviene un terzo nome: Giuseppe Pignatone. Insieme a Natoli e al generale Screpanti, è oggi indagato a Caltanissetta per favoreggiamento di Cosa Nostra nell’ambito di Mafia e Appalti. Procuratore a Reggio Calabria, poi a Roma, infine presidente del Tribunale vaticano, Pignatone ha incarnato per decenni l’immagine della magistratura di vertice. Le intercettazioni lo collocano dentro la rete di domande ancora aperte: chi sapeva cosa, quali bobine andavano preservate, quali potevano essere distrutte, e fino a che punto determinati rapporti potevano configurare conflitti di interesse. Cerchiamo di capire meglio.
Le compravendite e la difesa
Negli anni Ottanta la famiglia Pignatone acquistò immobili dall’Immobiliare Raffaello, riconducibile ai fratelli Buscemi e a Francesco Bonura, imprenditori che solo più tardi sarebbero stati condannati come esponenti delle cosche. Pignatone si è difeso sostenendo che allora non esistevano sentenze definitive e che la Palermo pre-Maxiprocesso non consentiva di distinguere con certezza le aree di contiguità mafiosa. Già nel 1976, tuttavia, alcune relazioni investigative segnalavano quei nomi come vicini a Cosa Nostra. A complicare il quadro vi sono le dichiarazioni di Giovanni Brusca, che parlò di un “canale” con i Buscemi, e l’intercettazione di Bonura del 2024, in cui il boss ricordava di aver venduto case ai Pignatone. Su questo punto, l’ex procuratore ha respinto ogni sospetto, ribadendo la linearità dei propri comportamenti e ricordando che anche Giovanni Falcone era a conoscenza delle richieste di intercettazione senza aver mai sollevato questioni di incompatibilità.
Brusca e Bonura: il peso delle voci
Le affermazioni di Brusca e le parole intercettate di Bonura non costituiscono da sole prova giudiziaria. Letti però insieme ai rogiti immobiliari e agli inventari dei ROS, questi elementi compongono un fascicolo che merita di essere esaminato con rigore. Pignatone, ascoltato dai pm di Caltanissetta, ha escluso qualsiasi trattamento di favore e rapporti personali con quegli ambienti. Resta tuttavia l’impressione che i contorni della vicenda non siano mai stati del tutto chiariti e che l’eco delle compravendite torni a intrecciarsi con la questione dei brogliacci di Mafia e Appalti.
Un profilo istituzionale da distinguere
Per delineare la figura di Pignatone occorre ricordare anche l’altra parte della sua carriera. Da procuratore di Roma firmò l’archiviazione del caso Orlandi, e da presidente del tribunale vaticano guidò la fase di maggiore apertura della Santa Sede alle collaborazioni giudiziarie con l’Italia. È un tassello utile a comprendere il personaggio, ma distinto dalla vicenda di Mafia e Appalti. Due piani che non vanno sovrapposti: il primo definisce il ruolo istituzionale, il secondo riguarda un’indagine che lo vede oggi indagato a Caltanissetta.
La memoria come posta in gioco
Il triangolo Natoli–Scarpinato–Pignatone illumina un nodo comune: la gestione della memoria delle stragi. Non si tratta di un contrasto personale, ma di ciò che rimane nelle carte, nelle versioni, negli archivi. La riunione del 14 luglio, i brogliacci di Mafia e Appalti, le compravendite degli anni Ottanta, le dichiarazioni di Brusca e Bonura, le difese di Pignatone: tutto converge in una domanda che riguarda le istituzioni, non i singoli.
Mafia e Appalti fu l’unico movente delle stragi?
È su questo campo che si gioca una partita che non ha visto solo le vittime di quegli anni, ma il destino stesso dell’Italia nei decenni successivi.
A distanza di oltre trent’anni, il vero terreno di confronto è la capacità dello Stato di custodire le proprie verità senza lasciarle scivolare fuori fuoco.
Diceva Gothold Ephraim Lessing: Se Dio tenesse nella mano destra tutta la verità e nella sinistra il modo di scoprirla, io sceglierei la sinistra.
In questa ricerca della verità, ognuna delle parti attrici, sembra aver scelto la mano destra, attingendo soltanto a quelle verità utili a confermare la linea di desiderio di ognuna di loro.
Così facendo, più si ha l’impressione che ci si avvicini alla verità, più ci si allontana dalla stessa.