Ovvero, cinquanta sfumature di munnizza (monnezza).
Agrigento è famosa per le rovine dei suoi templi greci, ma non tutti sanno del tempio della Pudicizia e Modestia.
Ma questa è un’altra storia, che se di vergogna e di modestia si è persa ogni traccia – così come del tempio – di rovine ne rimangono molte di più degli edifici della città di Machu Picchu in Perù.
Sapevi che l’antica città peruviana rimase intatta grazie al fatto che rimase coperta sotto cumuli di terra e sterpaglia, che salvarono le numerose residenze, i magazzini, i laboratori e i dormitori per le Vergini?
Da qualche parte, in qualche ufficio del Comune di Agrigento, qualcuno deve aver letto la storia della città Inca immersa nella foresta tropicale e ritrovata intatta nel 1911.
Se la foresta tropicale, la terra e la sterpaglia salvarono Machu Picchu – pensò il nostro uomo – anche Agrigento potrà essere conservata intatta per le future generazioni.
In mancanza della foresta tropicale, si decise di coltivare le sterpaglie.
Già, ma come fare se poi c’è chi l’erba la toglie? E come coprire quantomeno i quartieri più antichi senza la terra da buttarci sopra?
Pensa e ripensa, che l’idea geniale in ultimo venne fuori.
Come per tutti i siti archeologici era necessario delimitare la zona.
Transenne e “lapazze” (assi di legno) in brevissimo tempo conquistarono buona parte del territorio cittadino, compreso quello dei quartieri più moderni per preservare anche questi per i futuri archeologi.
Intere aree comunali chiuse per diversi anni, impedendo anche il transito pedonale, fecero sì che la natura (ortiche ed erbacce varie) si impossessasse di quelli che sarebbero divenuti i futuri siti archeologici.
Agrigento ottenne così il primo riconoscimento, la “lapazza doc”.
Ma l’erba appassisce e non è sufficiente a creare una coltre che protegga i preziosi beni.
Volenterosi cittadini, in mancanza di terra per ricoprire lastricati ed edifici, si misero all’opera.
Materassi, vecchie imposte, elettrodomestici in disuso e rifiuti di ogni genere, ricoprirono ogni palmo di vecchie scalinate e strade, preservandone l’integrità.
Senza considerare la salvaguardia delle biodiversità del mondo animale.
Mosche, ratti, zecche e scarafaggi che grazie a condizioni igieniche non proprio da Guida Michelin, hanno trovato il loro habitat ideale.
Agrigento nel 2025 sarà la capitale della cultura italiana, ma la cosa più interessante è che per raggiungere questo primato non si dovrà aspettare il 2025.
La città, che era stata definita la più bella dei mortali, il titolo lo ha conseguito in anticipo con la cultura delle lapazze e della munnizza, sgominando facilmente le altre città candidate che – anche a seguito di attività svolte dalle forze dell’ordine e dalla magistratura – sono state escluse dalla prestigiosa gara innanzi tempo.
Ma se anche ciò non fosse avvenuto, la città dei templi si sarebbe comunque accaparrata il titolo per la presenza ormai storica delle lapazze, per il numero delle stesse e per la tenacia manifestata a voler conseguire il risultato.
Persino le ordinanze sindacali, vecchie di anni, vengono ignorate tanto dai cittadini quanto dagli uffici preposti.
Se Narciso s’annacava (termine difficile da tradursi, a volte indicato come cullarsi) dicendo a destra e a manca, compreso a sé stesso, quanto era bello, chi ebbe la trovata geniale di preservare le ricchezze agrigentine con lapazze e munnizza, può ancora oggi annacarsi dinanzi gli uffici comunali facendosi vanto di quanto è stato bravo.
Ad Agrigento – dove perse le scarpe Gesù Cristo, chissà come – c’è da essere fieri del prestigioso marchio d’eccellenza: “Agrigento, capitale della cultura delle lapazze” (ideali anche per chi volesse allenarsi per le olimpiadi).
Con buona pace della modestia che di certo non appartiene a chi guarda al 2025 vantando il titolo di “Agrigento capitale della cultura italiana”, dimenticando i sacrifici fatti da anni da chi, avendone pieno titolo, s’annaca dinanzi taluni uffici comunali.
Agrigento senza il binomio lapazze e “munnizza”, cosa avrebbe mai consegnato ai posteri?
***
Le foto sono state prese dalla pagina Facebook del giornalista Francesco Di Mare, e da quella di Alfonso Cartannilica, editore di Satira Agrigentina