
Si dice che infinite storie sappia raccontare il mare.
Basta saperlo ascoltare soprattutto allorchè il rumore bianco delle onde, frangendosi sulla riva, fa eco ipnotica del suo passato senza tempo.
Nella leggenda, infatti, l’onda nacque come abbraccio perenne del mare alla terra che – al momento della creazione – temette il suo abbandono.
Una delle storie narrate dal mare ci porta molto lontano, nel luogo in cui l’Oceano Pacifico abbraccia le coste del Giappone nella penisola di Bōsō (non lontano da Tokio).
Lì, un’antichissima tradizione aveva generato le “AMA”.
La parola nipponica altro non indica se non le donne del mare.
Sin da piccole erano avviate all’arte dell’immersione in apnea per la pesca di perle, aragoste e molluschi di ogni genere (in particolare il ricercatissimo Abalone).
Si immergevano quasi del tutto nude arrivando a notevoli profondità (superavano i venticinque metri) e – restando senza respirare per due minuti – riuscivano a portare in superficie ogni più prezioso dono del mare.
In quel mondo fondamentalmente maschilista e segregativo del ruolo delle donne, le “AMA” riuscivano a creare una straordinaria solidarietà che le aiutava a condividere le esperienze (evitando i sempre incombenti pericoli di quel vivere in profondità…) garantendo loro grande autonomia ed indipendenza sociali.
Quel lavoro così unico ed insostituibile le rendeva libere.
Basta vedere i ritratti delle “AMA”, realizzati dal fotografo giapponese Iwase Yoshiyuki, per comprendere quanta bellezza vi fosse in quella libertà.
Ancora oggi, nel Giappone moderno, si indica con la parola “isobue” l’acuta emissione sonora che contraddistingueva il ritorno in superficie di quei respiri dopo l’infinita apnea.
Era, quello, l’urlo della loro libertà…
Lorenzo Matassa