La notizia è di quelle che fanno sorridere ogni più smaliziato lettore.
Un giudice di Arezzo si trova davanti ad un caso probabilmente unico nel suo genere.
Un uomo di sessantotto anni viene sottoposto all’amputazione del pene sull’errato presupposto di un tumore.
L’intervento – che il giornalista definisce “tecnicamente riuscito” – ad un successivo esame istologico (si suppone del moncone amputato) rivela l’errore in cui era incorso l’urologo.
Sembra che il Pubblico Ministero investigante abbia ritenuto che questo scenario non potesse integrare un reato.
Di diverso avviso il giudice preliminare che ha imposto l’imputazione (sull’amputazione) e dato luogo al processo.
Non avendo le fonti di prova in possesso di quegli organi giudiziari è difficile comprendere le ragioni di questa contrapposizione.
Perché delle due l’una: o quel pene doveva essere asportato, oppure non doveva esserlo.
“Tertium non datur“, dicevano gli antichi Romani.
Insomma, tra l’asportazione completa e la non asportazione non vi è un’altra soluzione che avesse permesso l’asportazione per metà.
Ma il tema rischia di rappresentare, iconicamente, la paradossale situazione della Giustizia italiana intrisa di soluzioni a metà che, però, distruggono l’intero.
Devo ammettere che l’ablazione del fallo mi ha fatto pensare ai miei primi studi all’università.
La questione – lungi dall’essere materia di ironia – rappresenta un tema che ha avuto un grande rilievo anche nella Storia.
Ricordo di avere letto pagine e pagine di Diritto Romano dedicate alla castrazione dello schiavo.
I giureconsulti di quel tempo se le davano di santa ragione per dare un assetto certo all’istituto e davvero inconciliabili erano le opposte posizioni.
Da una parte vi erano coloro che pensavano che la castrazione fosse una scelta insindacabile del “pater familias“.
Non solo una libertà, ma addirittura una necessità allorché la castrazione rendeva lo schiavo più affidabile per essere usato con funzioni (diciamo così…) ancillari nei ginecei.
Dall’altra coloro che ritenevano che la quella rimozione carnale creava comunque un danno ad un soggetto che – tuttavia – non aveva alcun diritto o prerogativa giuridica per poterla fare valere.
Nel Diritto Romano, infatti, lo schiavo era considerato alla stessa stregua di una “res“, ovvero di una cosa inanimata.
Chissà perché, ma questa situazione mi fa pensare alla recente “riforma” della Ministra Cartabia in materia di Giustizia.
Vedo applicato in Italia un processo penale di tipo anglosassone, ma amputato da molti ragionevoli istituti (pure adottati dai giuristi di Sua Maestà) che non ne permettono il funzionamento.
Guardo a questo povero giudice come disegnato dal legislatore italiano: senza alcuna forza, senza vere e proprie capacità dispositive del processo.
Un “maître de cérémonie” – avrebbero detto i francesi – una specie di maggiordomo onerato, soprattutto, di liquidare al più presto il gratuito patricinio agli avvocati per processi dalla durata secolare.
Un giudice svilito ed amputato nelle sue vere funzioni.
Un organo insanabilmente ablato…
Lorenzo Matassa