di Gian J. Morici
Cinisi, un paesino con meno di 12.000 abitanti in provincia di Palermo.
Sul suo territorio sorge l’aeroporto “Falcone e Borsellino”.
Un paradosso, l’aeroporto voluto in quel territorio da Cosa Nostra, oggi intitolato ai due magistrati uccisi da Cosa Nostra.
Questa è la terra di “Tano Seduto”, come sarcasticamente Peppino Impastato chiamava Gaetano Badalamenti.
Sicilia, terra di sole.
Ma dove c’è il sole c’è anche l’ombra, e di ombre in Sicilia ce ne sono tante.
Questa è una storia siciliana, una di quelle storie che accadono perché in Sicilia c’è questo miscuglio eterogeneo tra persone perbene, eroi, mafiosi, criminali e colletti bianchi che sono mafiosi”.
Chi parla è Maria Badalamenti, figlia di Silvio Badalamenti – nipote del boss Tano Badalamenti – ucciso il 2 giugno del 1983, nel corso della guerra di mafia che vide contrapposti i corleonesi di Totò Riina alla vecchia mafia dei Bontade, dei Badalamenti, degli Inzerillo.
Silvio Badalamenti non era un uomo di Cosa Nostra, così come confermeranno vari collaboratori di giustizia, a partire da Tommaso Buscetta che narrerà di questo omicidio avvenuto nell’ambito delle vendette trasversali che videro i corleonesi uccidere parenti e amici dei vecchi mafiosi, anche se estranei alle attività e agli interessi delle famiglie di mafia.
Ma Badalamenti – che sia un innocente o un mafioso poco importa – è un nome pesante da portare.
“Mia nonna, appartenente a una famiglia borghese della quale facevano parte anche magistrati, nubile fino all’età di 37 anni, per non rimanere da sola si unisce a Giuseppe Badalamenti, fratello di Tano Badalamenti.
Un’unione contrastata dai familiari di mia nonna, poiché la famiglia Badalamenti certamente non era all’altezza di quella loro.
Da questa unione nascerà mio padre, Silvio Badalamenti.
Fu mio nonno a registrarlo all’anagrafe ed a dargli, all’insaputa del genero, il nome Silvio – che non è un nome tradizionale per i Badalamenti – nel tentativo, o forse nel presagio, di escludere il bambino dal destino mafioso di quella famiglia.
Quando mio padre aveva 12 anni, suo padre muore di malattia.
Questo fa sì che mio padre – che caratterialmente somigliava più alla famiglia materna che non a quella paterna – cresca lontano dai Badalamenti. Studia al Gonzaga, si laurea, e ha un impostazione mentale, valoriale e comportamentale completamente diversa.
Vive lontano da questi parenti.
Trova un lavoro onesto”.
Sì, Silvio Badalamenti era il responsabile di una filiale di esattoria.
Secondo la Corte di Cassazione, però, si sarebbe trattato di una filiale dei cugini Salvo, noti mafiosi legati – anche da interessi economici – a Gaetano Badalamenti.
Il fatto che Silvio fosse il responsabile di una loro filiale, sicuramente non poteva che alimentare dubbi sul rapporto con gli altri parenti, lasciando ipotizzare che andasse al di là del rapporto tra consanguinei.
È proprio questa una delle ragioni ostative al riconoscimento di Silvio Badalamenti quale vittima innocente di mafia.
Ma stanno veramente così le cose?
“Quello che dice quest’ultima sentenza di Cassazione con la quale si stabilisce che mio padre lavorava per l’esattoria dei Salvo non è vero!
È una menzogna facilmente dimostrabile.
Mio padre – afferma Maria Badalamenti – lavorava per la Sari, una società di Firenze che era in competizione con la Satris dei Salvo”.
La voce della donna è un misto di rabbia, angoscia, dolore.
Ma come si può credere a ciò che afferma una persona che potrebbe avere interesse a raccontare una storia diversa da quella reale?
“Quello che io sto dicendo lo posso provare. Anzi, le invio immediatamente i documenti che lo dimostrano”.
In effetti ricevo subito un’attestazione di servizio dalla quale si evince come Silvio Badalamenti lavorasse per la Sari come collettore di diverse esattorie comunali già a far data dal 1977.
Perché dunque la sentenza di Cassazione riporta che Silvio Badalamenti lavorava per i Salvo?
Un errore confondendo la Sari – la società fiorentina – con la Satris dei Salvo?
Luci ed ombre.
Ciò, però, non dimostra che non vi fosse un rapporto tra zio e nipote, ovvero tra Silvio Badalamenti e il boss don Tano.
Come ben ricorda la Cassazione, per il riconoscimento dello status di vittima innocente di mafia è necessario che la vittima fosse estranea alle commissione di atti criminali o ambienti delinquenziali, questo già secondo la legge del 1990.
Misure ancor più restrittive vengono varate nel 2008, quando la normativa prevede che per i legami di parentela familiari esiste una presunzione assoluta di non estraneità all’ambiente criminale, muovendo quindi dal presupposto della sicura inclusione di tali soggetti tra i destinatari della legge e con un’ottica ancora più rigorista.
“Mio padre è cresciuto lontano dai Badalamenti.
Don Tano Badalamenti era potentissimo e tutti lo volevano al loro fianco, ma non mio padre, il quale quando si sposa (1972) come testimoni di nozze non ha i Badalamenti, ma tre uomini delle Istituzioni.
Don Tano non era neanche invitato al matrimonio”.
Si potrebbe obiettare che il matrimonio avviene in un periodo in cui il boss Badalamenti viene inviato al soggiorno obbligato presso Macherio, in provincia di Milano, arrestato successivamente e rinviato a giudizio poi per altre gravi accuse.
“È vero – prosegue Maria – ma né prima, e neppure dopo, Gaetano Badalamenti prese parte ad eventi della nostra vita. Anche questo posso dimostrarlo.
Mio padre nel 1983, proprio quando la guerra di mafia imperversava, fece una scelta diversa da quella dei Badalamenti che erano tutti fuggiti, ritenendo di non avere nulla da temere per la sua persona e per la sua famiglia, poiché estraneo alla consorteria mafiosa ed a qualsivoglia fatto di mafia.
Un errore fatale partendo da presupposto che quella guerra di mafia non poteva riguardare chi con la mafia non aveva nulla a che vedere.
Continua ad andare in ufficio e a lavorare come aveva sempre fatto, fin quando il 2 giugno viene ucciso.
Al processo Omega a Trapani – nel quale si tratta anche l’omicidio di mio padre – parlano i pentiti Sinacori, Giacalone, Brusca e Patti, che subirà anche la condanna proprio per questo omicidio.
Tutti e quattro i pentiti dicono che non avevano mai visto questo Silvio Badalamenti di cui non conoscevano nemmeno l’esistenza.
Questi pentiti dicono anche che mio padre era estraneo a fatti di mafia.
Ancora più preciso fu Buscetta, che nel corso del processo per l’omicidio di Impastato – che non era Peppino Impastato – e di tale Natale Badalamenti, disse che l’omicidio di mio padre fece scalpore, proprio perché Silvio Badalamenti era un bravo ragazzo e non c’entrava assolutamente niente con le vicende di mafia.
Ma soprattutto – nel corso del processo Omega – lo dicono i carabinieri che fecero le indagini.
Fu proprio un ufficiale dei carabinieri a dichiarare che aveva chiesto al giudice Giovanni Falcone chi fosse Silvio Badalamenti, aggiungendo che Falcone aveva risposto che era un galantuomo che avrebbe pagato il fatto di chiamarsi Badalamenti.
Lo stesso Falcone – secondo la testimonianza dell’ufficiale – avrebbe detto a mio padre di lasciare la Sicilia perché a causa del cognome stava rischiando molto.
Nello stesso processo c’è una relazione del giudice Paolo Borsellino, che a seguito delle indagini svolte sostiene che Silvio Badalamenti è innocente, un padre di famiglia che faceva una vita regolare”.
Di questi e altri aspetti torneremo a scrivere nei prossimi articoli.
Quello che invece non possiamo lasciare in sospeso è quanto dichiarato da Maria Badalamenti rispetto le ripercussioni che sta subendo dopo aver denunciato soggetti con un passato – e a suo dire con un presente – di uomini legati a Cosa Nostra.
Maria, la mamma e la sorella, decidono di vendere un terreno coltivato ad uliveto.
Tre ettari di uliveto che varrebbero diverse decine di migliaia di euro – se non oltre centomila euro –, che nonostante in vendita per 15mila euro non trovano alcun compratore.
Come mai?
La risposta la dà Maria Badalamenti (che in passato ha anche presentato denunce all’Autorità Giudiziaria) la quale proprio di recente ha saputo di una probabile acquirente alla quale è stato suggerito di star lontana da quella proprietà.
“È cosa nostra”, le avrebbe detto chi parlando di Cosa Nostra sa ciò di cui parla.
“E anche questo – afferma Maria Badalamenti – posso dimostrarlo!”
Posso dimostrarlo! Due parole che fanno correre un brivido lungo la schiena.
Eh sì, un conto sono le parole, un altro i fatti dimostrabili, e su questo Maria Badalamenti sembra non mentire.
Altro non fosse, per i documenti che prontamente ha iniziato fin da subito ad inviarmi.
Perché dunque nessuno vuol chiedersi cosa stia succedendo?
C’è il sole in Sicilia, tanto sole, e con il sole anche tante ombre.
Tre donne sole che provano a cancellare le ombre che riguardano il loro congiunto.
Ma davvero le ombre riguardano Silvio Badalamenti?
È davvero normale che non si trovino acquirenti per un terreno che vale sei o sette volte più di quello che chiedono?
E la mafia, dove sta?
Difficile pensare di poterla trovare in casa di tre donne che lottano ogni giorno per sopravvivere; che lottano per restituire dignità a un uomo ucciso a soli 38 anni.
Non mi chiedo perché Silvio Badalamenti non lasciò la Sicilia – così come pare avesse suggerito Giovanni Falcone -, il motivo ce lo ha detto Maria: non temeva una guerra di mafia rispetto la quale lui era estraneo!
Le domande sono ben altre, alle quali è più difficile dare una risposta.
Cosa ha fatto di male una persona per nascere in un posto come questo?
Cosa ha fatto di male per ritrovarsi ad avere un nome così pesante da portarlo prima a morire e poi a dover subire le ombre che si allungano sulla sua memoria?
C’è anche chi sostiene che se è stato ucciso è perché era mafioso.
Partendo dallo stesso principio dovremmo quindi chiederci se Riina, Provenzano, Calò, i Messina Denaro e tanti altri che non sono stati assassinati, non siano stati vittime di ingiuste accuse nei loro confronti?
Strano posto questa terra di Sicilia, dove ogni cosa è d’ombra, e come l’ombra non ha consistenza.
Intanto, Maria continua a denunciare quelli che sostiene siano i mafiosi del suo paese.
L’uliveto rimane invenduto.
Guarda la foto di suo padre.
Mi invita a guardarla anch’io.
La voce le si fa un po’ più roca.
Forse ricaccia indietro una lacrima.
E lo Stato, dov’è? Cosa fa?
Ombra tra le ombre…