C’è, a Palermo, un’arteria stradale che costeggia il mare.
Sembra srotolarsi dal Monte Pellegrino fino all’antico porto.
Dritta, la vedi inabissarsi in un sottopasso.
In superficie, quel tratto di via ha l’aspetto di una piazza circolare.
Al suo centro, uno strano obelisco d’acciaio arrugginito.
La chiamano “Piazza XIII Vittime”, ma se chiedi a qualcuno perché si chiami così non avrai alcuna risposta: i palermitani non conoscono i perché dietro ai nomi delle vie.
Son certo di questo, altrimenti mai avrebbero titolato una delle strade storiche della città – la via Lincoln – ad un signore americano condottiero delle truppe del Nord nella vittoria contro quelle sudiste. Insomma, come fare una statua al leader secessionista del Nord Italia, Umberto Bossi, nella centrale piazza Politeama…
Le “XIII Vittime” ricordate dalla toponomastica erano state fucilate dalle truppe dei Borboni in uno dei numerosi tentativi di insurrezione contro l’oppressore.
Era il 14 aprile del 1860.
La libertà, quel giorno, aveva pagato il prezzo del suo Risorgimento…
Fu proprio transitando in auto per quella piazza che mia figlia mi pose la domanda:
“Papà, cos’è quello strano pezzo di ferro arrugginito?”
Scostai, per un momento, lo sguardo dal parabrezza e portai gli occhi in quella direzione.
L’informe obelisco di ferro, consunto dal tempo, svettava su un cielo primaverile.
“È un monumento” risposi senza troppo riflettere. Ma la nuova domanda era già nell’aria…
“C’è scritto… AI CADUTI NELLA LOTTA CONTRO LA MAFIA…”.
La voce bambina scandiva le lettere di quella iscrizione stemperandole nell’abitacolo.
“Sì. È scritto proprio così…”.
Presi tempo prevedendo la successiva domanda.
“Non capisco, papà, cosa vuol dire quella scritta?”
Il suo viso si compose con le belle sopracciglia a formare l’aria corrucciata che adoravo.
“Con quel monumento si ricordano i morti per un’idea…” dissi con poca convinzione.
“Continuo a non capire… Si ricordano gli eroi con il ferro arrugginito?”
Non mi diede tempo di formulare una risposta perché, subito, mi incalzò.
“E, poi, cos’è la MAFIA? E perché bisogna morire per combatterla?”
Le domande erano un precipitato alchemico in purezza di altre infinite domande.
“Difficile risponderti, amore mio… È difficile rispondere in assoluto… Come dire? Dovrei raccontarti la storia della tua città negli ultimi trent’anni… Ben prima che tu fossi nata e che dalla nuvoletta, dalla quale scendevi, avessi deciso di atterrare proprio qui, in mezzo a noi, scegliendo me come tuo papà…”
Il suo invito si accompagnò con la luce negli occhi che ormai era divenuta il faro della mia anima, soprattutto quando l’anima si perdeva tra le nebbie delle cose incomprensibili.
“Puoi sempre provarci… Tu sei un giudice… Se non lo sai fare tu, chi altri saprebbe farlo?”
Provai a prendere tempo e acconciare una risposta ironicamente adatta ad una bambina.
“Avresti preferito che al posto di quel totem arrugginito avessero messo un ciclopico doppio cheeseburger ed una fontana di Coca Cola?”
Il suo sguardo severo mi inchiodò.
“Non voglio che scherzi su queste cose. Sono troppo importanti…”
Cercai di attutire il giusto rimbrotto con un sorriso che riuniva ammissione di colpevolezza e richiesta di perdono.
È proprio vero che la saggezza è negli occhi attenti di un bambino.
“Beh… Amore mio, scherzo perché il sorriso è la monetina che metti nel salvadenaio dei tuoi sentimenti. È quel risparmio che ti permette di pensare che un bel futuro vi sarà…
Dovrei raccontarti cose che una bimba di nove anni difficilmente potrebbe comprendere e che i bimbi in generale non dovrebbero conoscere. I bambini, amore mio, devono stare lontani dalle miserie e dalle follie degli adulti…”
La vidi nuovamente pensosa e riflessiva.
“Non mi fai grande abbastanza per capire? Sbagli! Papà, sono in grado di capire se solo mi spieghi perché mai si debba morire per difendere qualcosa. E, allora, cos’è la MAFIA?”
La mia mente andò lontana, in un luogo dove probabilmente risiedono tutte le idee.
Uno spazio in forma di limbo dove aleggiano i pensieri degli umani mai risolti nel tempo.
L’anima, errante in quello spazio, non si curò di quella stanziale che continuava a guidare.
Ruotai per tre volte attorno alla piazza delle XIII Vittime in modo meccanico fino a quando la mia piccola passeggera non mi riportò bruscamente alla guida cosciente.
“Papà! È la terza volta che giri in tondo!”
Già… dove fuggivano i pensieri, la memoria e il senso cosciente delle cose quando il vortice dei ricordi li attraeva irresistibilmente?
Cos’era quella specie di cortocircuito che ti faceva volare alla velocità della luce riportandoti nello stesso luogo e nel tempo già vissuti?
Per un attimo ero ritornato davanti all’ingresso secondario della morgue del Policlinico.
Era la sera del 23 maggio del 1992 ed io ero lì, pietrificato davanti a quella porta.
Pietrificato.
Fino a quando un abbraccio empatico non aveva vinto le mie paure portandomi dentro e mostrandomi la più violenta ed incomprensibile tra le follie umane.
Quella notte avevo provato il disorientamento che fa implodere l’anima in mille frammenti ancora oggi non ricomposti dal passare del tempo.
“Ed allora vuoi spiegarmi cos’è la MAFIA? E perché bisogna morire per combatterla?”
“Vuoi davvero saperlo?” interloquii, riportando i miei pensieri al presente.
“Voglio anche sapere perché si è ricordati con un pezzo di ferro arrugginito…”
Sorrisi, come se per quell’ultima domanda potessi avere già bella e pronta una risposta.
“Non è quello il monumento che li ricorda. Anzi, quello strano “coso” è stato costruito proprio per un fine contrario. Per far sì che nessuno più abbia voglia di morire per un’idea che tutti vedono brutta ed arrugginita.
Ti porterò a vedere ciò che è l’esatto contrario di questo monolite orribile ed inanimato.
Qualcosa che ricorda un uomo ed un’idea con la forza e la magnificenza della natura…”
Cambiai la direzione dell’auto interrompendo l’involontaria giostra attorno alla piazza che disorientava la memoria collettiva insultando il sacrificio dei martiri di un’idea.
Raggiunsi la via Notarbartolo e posteggiai nei pressi.
Invitai, quindi, la mia piccola a seguirmi.
Mano nella mano e passo dopo passo ci avvicinammo all’albero Falcone.
“L’albero che vedi rappresenta, meglio di ogni altro monumento, un uomo e un’idea.
Lo chiamano l’albero Falcone dal nome del giudice che qui abitava e che fu ucciso insieme alla moglie e agli uomini che lo proteggevano.
Ricordare le vite spezzate con qualcosa che racconti la forza della vita è vera saggezza.
Dimentica quel brutto monumento che hai visto…”
“Lo dimenticherò. Ma tu dovrai adesso spiegarmi chi era Falcone e perché venne ucciso…”
Le domande dei bambini non chiedono delle certezze giudiziarie o storiche dei grandi.
Esigono risposte che possano stare agevolmente tra i giocattoli…
Presi tempo. Trassi un lungo respiro. Lasciai andare lo sguardo dal basso verso l’alto sul fusto nodoso e scolpito del ficus.
“Giovanni Falcone era un uomo che cercava la Verità e la Giustizia…”
“La mia maestra dice che Gesù fu messo in croce perché cercava le stesse cose…”
Incrociammo i nostri pensieri e gli sguardi alla sommità dell’albero.
“Ma sarebbe un errore paragonare un uomo al Redentore. Anzi, sai cosa diceva, scherzando, Giovanni Falcone di quelli che facevano il suo stesso lavoro?”
“Cosa diceva?”
“Diceva che molti di loro pensavano di avere vinto il concorso per diventare Dio…”
“Beh… giudicare gli uomini ti fa sentire molto simile ad una divinità. Non è forse così?”
Restammo un attimo in silenzio. Poi scossi la testa per dissentire da quell’idea.
“Amore mio, i giudici valutano i fatti e a quelli devono attenersi. Nulla di divino…”
“E, allora, Giovanni Falcone era un valutatore dei fatti?”
Valutatore… Bella definizione che un esperto giurista avrebbe rifiutato…
“Brava! Lui era un grande valutatore dei fatti. Forse il più grande valutatore dei fatti che la tua terra abbia mai avuto… Lui era il migliore a mettere insieme luoghi, date, circostanze, parole dette, situazioni e tutto quanto potesse essere utile a ricostruire i fatti…”
“Non capisco, papà… se era il migliore perché l’hanno ucciso?”
“Perché coloro che commettono azioni malvagie non vogliono essere scoperti…”
“Comincio a capire… scoprendo i fatti lui riusciva a scoprire i colpevoli…”
“Brava! Esattamente così! Lui aveva un metodo di lavoro ed era infaticabile…”
“Come in classe mia. Ho una compagna bravissima e tutti vogliono essere come lei…”
Quella interlocuzione mi lasciò perplesso. Fissai a lungo lo sguardo tra i tanti fogli appesi alla corteccia dell’albero. In ognuno una frase di ricordo e di speranza.
“Vedi, bambina mia, non sarei un buon papà se ti dicessi che tutto attorno a te funziona come quello che vedi accadere nella tua classe…”
“Come funziona allora?”
“Beh… accade che, se sei molto bravo, metti tanti cattivi in prigione. Ma, allo stesso tempo, dimostri che altri prima di te non hanno saputo o voluto farlo. E questi altri, invece di ammirarti per il grande lavoro che fai, cominciano ad odiarti per il ridicolo del quale li ricopri”
“Un attimo, papà… mi stai dicendo che quell’uomo era odiato dai suoi stessi colleghi?”
“Non tutti. Molti di loro. Quelli che fino a quei giorni avevano sonnecchiato o finto di non vedere le grandi ingiustizie e le violenze nelle quali la tua città era precipitata…”
“L’ingiustizia e la violenza? È questo il significato della parola MAFIA? È questo il senso di quella scritta sul ferro arrugginito al centro della piazza?”
“Amore mio… la risposta che cerchi è assai complicata e in molti ancora oggi la cercano…”
“Però ci siamo vicini…”
Mi incalzò sollecitando la mia nuova meditazione.
Provai a consegnarle una risposta da mettere tra i giocattoli…
“Potrei risponderti che ingiustizia e violenza sono solo una parte del significato di quella brutta parola. Diciamo che quella parola nasconde un modo di pensare e di vivere che porta il mondo intero alla ingiustizia e alla violenza…”
“Fuochino…” disse come se inseguissimo una caccia al tesoro dei pensieri.
“Sì… fuocherello… perché la prima MAFIA è quella negatività che porta a distruggere tutto. Quella che combattiamo dentro di noi allorché diciamo a noi stessi: “Tu hai fatto qualcosa di buono? Ebbene, io la farò migliore della tua…”
I suoi begli occhi neri sorrisero come per dire che la verità si avvicinava.
Lasciai la sua mano e la invitai a porla sopra la corteccia di quell’albero.
Si tramanda che il contatto con le piante ci avvicini all’antica saggezza della terra.
Fu in quell’attimo che il suo viso si illuminò con la luce del finale intuito.
“Ho compreso! La MAFIA è la distruzione di ciò che di buono gli altri fanno…”
“Sì, amore, sei molto vicina alla Verità…”
Una Verità scolpita su un grande albero e non sul ferro arrugginito.
Lorenzo Matassa