
“Cogito, ergo sum”, poi è arrivato Mark Zuckerberg con la sua felpa grigia e un’idea apparentemente innocua: “Posto, ergo sum!”
Cartesio si starà rivoltando nella tomba, probabilmente twittando indignato dal suo profilo metafisico. I grandi filosofi? Ma a cosa servono se i follower della mia tribù virtuale convalidano la mia esistenza con like, commenti e messaggini privati? La prova provata di come tutto ciò che imparammo sui banchi di scuola era perfettamente inutile.
E la farsa abbia inizio. Quel meraviglioso palcoscenico dove la nostra vita raggiunge vette di perfezione mai viste, dove ogni alba è un capolavoro degno di Facebook o Instagram e ogni piatto di pasta un’opera d’arte da condividere con l’universo.
Un caffè schiumoso decorato ad arte? Impensabile sorseggiarlo prima di avergli dedicato almeno cinque scatti da diverse angolazioni, corredati da hashtag rigorosamente incomprensibili ai non addetti ai lavori.
Chef (quasi) stellati, critici d’arte improvvisati: e gli immancabili arbitri di calcio (terreno sacro per tanti italiani), riempiono le bacheche di post con il risultato dei loro approfonditi studi in materia.
Che dire poi di giudici onniscienti ed esperti mafiologi da tastiera? Talvolta figure affette da “casalinghitudine” che sopperiscono a una professionalità mancata con fiumi di indagini e analisi giuridiche pubblicate sui propri profili.
Il mondo è bello perché è vario, e se l’arrosto brucia nel forno o la pasta si trasforma in colla per manifesti, pazienza, è una questione di priorità e la tribù aspetta con ansia il commento di “So tutto io”.
E poi c’è quel bisogno, quella tirannica urgenza di controllare. Ogni notifica è un’iniezione di dopamina digitale.
Un lavoro a tempo pieno – a volte anche sei ore al giorno di media – alle dipendenze di un algoritmo capriccioso, di colleghi (profili sconosciuti) che giudicano la qualità dei nostri selfie, mentre le riunioni si tengono in direct e le conversazioni diventano sempre più criptiche e piene di emoji dal significato ambiguo.
La sera, stremati da questa intensa giornata lavorativa virtuale, ci trasciniamo a letto, solo per dare un’ultima controllatina, non si sa mai che il mondo (o almeno i nostri follower) abbiano disperatamente bisogno di sapere cosa stiamo pensando prima di addormentarci.
“Dottore, non ce la faccio più. Sento il bisogno impellente di controllare le notifiche ogni tre minuti. Se non vedo un nuovo like entro cinque, mi assale un’ansia incontrollabile…”
“Capisco, capisco. I sintomi sono chiari. Lei soffre di una grave forma di IAD, Internet Addiction Disorder, stadio avanzato. Le prescrivo immediato riposo dai social media e le compilo il modulo per la pensione di invalidità digitale.”
Nasceranno apposite commissioni di medici per certificare la “dipendenza da post compulsivi” o per valutare la gravità del “pollice da like ipertrofico” e la “patologia coronarica da cuoricino”?
Ci sarà poi da stabilire le categorie di invalidità.
E lo zapping social, la disciplina olimpica dei nostri tempi a passare da un contenuto all’altro, alle catene di emoji, fino ad arrivare alle chat, saltellando dall’una all’altra, come verrà considerato, quale sarà il livello di gravità?
E se in questo incessante saltare da un contenuto all’altro, da una conversazione all’altra, stessimo cercando inconsciamente, un senso, una connessione autentica, una risposta alla domanda: “Sono qui? Qualcuno mi vede?”.
Forse non si arriverà alla pensione anticipata per “esaurimento da social”, ma un riconoscimento formale della IAD potrebbe portare quantomeno ad avere delle “cliniche di disintossicazione digitale”.
Certo, ci sarebbero anche i “furbetti della tastiera” che simulerebbero dipendenze per ottenere la pensione, magari postando ossessivamente “aiuto, non riesco a smettere di scrollare!” con tanto di hashtag auto-compatimento. Un sovraccarico di lavoro per i finanzieri costretti a verificare la dipendenza vera e la simulazione.
Ma in fondo, diciamocelo, chi siamo noi senza i nostri profili? Un’ombra nell’anonimato. Quindi continuiamo pure a postare, a condividere, a mettere like compulsivamente. In fondo, in questo strano circo virtuale, la nostra esistenza si misura a colpi di notifiche. E che la dipendenza abbia inizio!
Gian J. Morici
P.S. Ci sarebbe anche la categoria dei pensionati, ma vista la mia età, per pudore ho preferito ometterla, prima che la prostata mi reclamasse costringendomi ad abbandonare la tastiera.