È il titolo del libro del giornalista d’inchiesta Marco Bova, che analizza i 28 anni di latitanza di Matteo Messina Denaro – l’ultimo dei “corleonesi” – ricostruendo gli intrecci affaristici, le connivenze, e gli “errori” che hanno permesso a “Diabolik” (Matteo Messina Denaro) di rimanere uccel di bosco per tutto questo tempo.
Una lunga storia di depistaggi e piste colpevolmente abbandonate che per la prima volta vedono messo in discussione il modus operandi dei “cacciatori” del figlioccio di Totò Riina, impegnati in una guerra intestina scaturita da gelosie interne, senza esclusione di colpi bassi contro chi lavorava alla cattura del latitante, lasciandosi dietro vittime e fallimenti investigativi, nonostante i continui proclami dell’imminente cattura del criminale e il fiume di denaro speso inutilmente.
Fallimenti investigativi che secondo l’autore sono anche il risultato di una fitta
coltre di sovrapposizioni tra strutture investigative, procure, forze dell’ordine e qualche magistrato compiacente come emerge dalla riproduzione inedita di una intercettazione.
E se da un lato i depistaggi e gli ostacoli a chi conduceva onestamente le indagini, ha comportato una lunga serie di fallimenti, dall’altro si sarebbe rivelato una panacea per una fitta lista di personaggi che ne hanno comunque beneficiato in termini di carriera.
C’è chi infatti dopo aver indagato investigatori e magistrati impegnati nella caccia al latitante – nonostante tali brillanti attività approdate nel nulla – si è ritrovato ad essere “promosso” con prestigioso incarico nel cuore pulsante dell’antimafia togata.
Eh sì, accade anche questo.
“Tra «covi caldi» e «cerchi che si stringono» – scrive nella sua recensione Enrico Bellavia, caporedattore centrale del settimanale “L’Espresso” – le cronache riattizzano periodicamente l’attenzione su un latitante che riesce a farla franca da 28 anni, avendo contro, sulla carta, praticamente tutti: polizia, carabinieri, finanza, perfino i forestali. E, naturalmente gli 007 che fissano pure sostanziose taglie che alimentano un indotto della ricerca già di suo consistente. Mettere d’accordo tutti i cacciatori è il primo problema, per evitare sovrapposizioni. È accaduto anche che nella foga di spiare le mosse dei sodali dell’imprendibile i finanzieri abbiano sorvegliato dei poliziotti e poliziotti e carabinieri si siano trovati in contemporanea sullo stesso teatro di osservazione.
Per il resto, cimici che smettono di funzionare, che i familiari di Messina Denaro rintracciano con provvidenziali bonifiche, talpe che soffiano dettagli salvifici, punteggiano interi paragrafi di questa «corsa avvelenata».
Nel suo lavoro, Bova ricostruisce con l’aiuto del protagonista, morto nel maggio scorso, il carteggio epistolare intrattenuto tra Alessio, alias Matteo Messina Denaro e Svetonio, lo pseudonimo affibbiato dal latitante all’ex sindaco della sua città, Castelvetrano, il professore Antonino Vaccarino, infiltrato dai servizi con l’obiettivo della cattura ma poi inspiegabilmente bruciato.
Una delle vittime incruente, almeno tante quante quelle lasciate per strada con il piombo, del sistema Messina Denaro. Capace di stritolare e annichilire gli avversari anche con l’arma della legalità, vera o presunta”.
E alle “vittime incruente” – per sua fortuna ancora in vita – si può ascrivere Carlo Pulici, il finanziere che per anni collaborò alle indagini condotte dal pm, poi procuratore aggiunto, Teresa Principato, fin quando nel 2015 venne denunciato per molestie (denuncia poi archiviata) e punito con l’allontanamento dal suo ufficio dalla procura di Palermo guidata da Franco Lo Voi.
Una vicenda che ha visto coinvolti la stessa Principato e l’allora procuratore di Trapani Marcello Viola, triturati con accuse infondate, così come quelle a Pulici che lo hanno visto cinque volte assolto.
Magistrati e investigatori impietosamente triturati in un gioco al massacro che sembra più colpire chiunque dia la caccia al latitante che non quanti ne hanno favorito la latitanza.
Ma anche un gioco sporco di mani leste capaci di trafugare il computer di Pulici dalla stanza della Principato per far sparire anni di indagini su Messina Denaro.
Pulici per la prima volta racconta il suo punto di vista in un’intervista a Marco Bova.
Un racconto inquietante che apre a tantissimi interrogativi non soltanto sulle vicende che hanno personalmente travolto il finanziere, e con lui i due magistrati, ma anche su come così vennero ostacolate le indagini sulla massoneria trapanese e le protezioni eccellenti di cui gode Matteo Messina Denaro.
Il libro, tra i tanti inediti, contiene anche un elenco di massoni a oggi ignoti all’opinione pubblica.
Una serie di inediti destinati a fare discutere a lungo, dall’ultima intervista a Vaccarino per arrivare alla storia inedita sulla disputa giudiziaria più grave degli ultimi anni sulla caccia a Matteo Messina Denaro.
Piste estere, piste colpevolmente affossate, ufficiali demansionati, fonti e indagini bruciate, che contribuiscono a spiegare il perché sia stata improficua la lunghissima caccia al latitante più ricercato del mondo.
La sconcertante scomparsa dei dispositivi di Pulici, custoditi all’interno dell’ufficio della pm Teresa Principato, è stata denunciata dall’avvocato Antonio Ingroia alla Procura di Caltanissetta, per “gravi omissioni” della Procura di Palermo.
Secondo l’avvocato, infatti, i pm palermitani avrebbero dovuto trasmettere l’inchiesta ai colleghi nisseni, anziché trattenerla e archiviarla a modello 45, cioè i fascicoli privi di notizia di reato.
La vicenda si va a intersecare al subdolo gioco delle piste (che potevano portare alla cattura di Messina Denaro) svelato in un capitolo del libro; piste via via affossate, fatte cadere o abbandonate e nel quale per certi versi rientra anche la vicenda sin qui rimasta inedita per il modo in cui viene raccontata da Antonio Vaccarino che a Bova ha rilasciato la sua ultima intervista prima di morire di Covid in carcere.
Mentre infatti era in corso la caccia a Provenzano, si era tentata l’opportunità di afferrare Matteo tramite l’ex sindaco.
Questa vicenda è svelata in modo inedito con verbali e interviste che nella loro contraddizione mettono a nudo una parte ancora oscura degli anni legati alle stragi degli anni 90.
Questo libro, arricchito dalla prefazione dell’inviato di Report, Paolo Mondani, narra di una mafia in evoluzione, anzi già trasformatasi in una Cosa Nuova, dei suoi legami con la massoneria e con i «salotti buoni», di cui Matteo Messina Denaro, erede della mafia rozza e brutale dei corleonesi, ne è il simbolo.
Una mafia che lo Stato non riesce e a volte non vuole comprendere. Un latitante che lo Stato non sa o non vuole arrestare.
“Matteo Messina Denaro, latitante di Stato” di Marco Bova per la collana inchieste di Ponte alle Grazie, da domani sarà in vendita in tutte le librerie e disponibile qui su Amazon.
Un libro da leggere per chi non si accontenta di proclami sull’imminente cattura di “Diabolik”, ma vuol capire il perché sia stata possibile, per quasi trenta anni, la latitanza del boss che è stato tra i mandanti della strage di Capaci e di quella di via D’Amelio.
Marco Bova (Erice, 1989) è giornalista freelance e videomaker, collaboratore di AGI (Agenzia Italia) e il Fattoquotidiano.it per cui segue cronaca e approfondimenti dalla Sicilia occidentale.
Autore e regista di documentari ha pubblicato su numerose testate italiane e internazionali.