Come sono lontani i tempi in cui guardando il film “L’ ultima minaccia”, di Brooks, qualsiasi giornalista si lasciava suggestionare dall’indimenticabile battuta di Humphrey Bogart, “È la stampa, bellezza. E tu non ci puoi fare niente. Niente!”
Mi sono spesso chiesto quanta responsabilità abbia la stampa nella creazione di falsi miti, nella creazione di pentiti che tali non sono, nella realizzazione dei più gravi depistaggi giudiziari della storia della nostra repubblica.
Uno dei casi più eclatanti, è stato quello di Vincenzo Scarantino, il falso pentito che si autoaccusò di aver partecipato all’attentato contro il giudice Paolo Borsellino in via D’Amelio, facendo condannare all’ergastolo persone innocenti.
Fin dall’inizio del suo pentimento, l’attendibilità delle sue dichiarazioni fu messa fortemente in dubbio da alcuni investigatori e magistrati, mentre altri presero per buona – come fosse Vangelo – ogni parola pronunciata da quello che poi si sarebbe rivelato l’autore del più grave depistaggio della nostra storia giudiziaria.
Senza entrare nel merito delle mirabolanti carriere costruite sui vari Scarantino (non è l’unico falso collaboratore di giustizia), penalizzando quei magistrati che avevano visto bene non credendo a ogni sua parola, è sufficiente ricordare come le stesse ritrattazioni di falsi pentiti siano state lette da alcuni magistrati come la “prova provata” della loro appartenenza all’organizzazione criminale e dell’ingerenza della stessa nella ritrattazione.
E la stampa?
La stampa, sulla scia della magistratura – quella più “Vip” – ha seguito lo stesso corso, in particolare gli organi stampa “antimafiosi” per eccellenza.
Premesso che da altre parti del mondo non esiste un ordine dei giornalisti, c’è da chiedersi chi in Italia, oltre a rilasciare i tesserini stampa, sia abilitato a rilasciare il pedigree di “antimafioso”, e se per ottenere lo stesso sia indispensabile mostrare le stimmate o sia sufficiente l’autocertificazione di possedere contatti ultraterreni, poiché pare che il possesso di entrambi i requisiti, oltre al titolo di “antimafioso”, sia prodromico alla nomina di “voce ufficiosa della Procura”.
Verrebbe da chiedersi se a tale nomina corrisponda un equo indennizzo, se dia diritto a contributi o sia soltanto un titolo “onorifico” senza compenso alcuno, se non quello di entrare nelle grazie del mondo delle toghe.
Quel mondo che il caso Palamara ha spogliato delle vesti di rispettabilità che ne coprivano le più intime vergogne.
A prescindere da ciò, la stampa – quantomeno una buona parte – è corrotta e sa di esserlo (con tale termine, a scanso di equivoci e querele, voglio indicare un qualcosa di moralmente guasto, e non certamente il venir meno al proprio dovere in cambio di denaro).
È corrotta quando occulta una verità, quando consapevolmente dà una notizia falsa, quando latita sulle grandi inchieste, quando si lascia pilotare dal potere.
Quanto è credibile oggi il giornalismo italiano?
La risposta ce la dà la graduatoria sulla libertà di stampa, che ci vede ultimi tra i paesi dell’Eurozona.
Un falso può anche essere un errore, ma quando sei perfettamente consapevole che si tratta di una falsa notizia, allora un falso è un falso senza alcuna scusante.
E questo è purtroppo ciò che spesso accade.
Mentre infatti cresce la sfiducia nei risultati ottenuti o ottenibili in un futuro non lontano rispetto la cattura – data ogni anno per imminente – di Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande latitante, anche nei mesi scorsi abbiamo assistito al battage pubblicitario sulle operazioni di polizia e sugli eccellenti risultati ottenuti in una caccia all’uomo che sembra non dover mai avere fine.
Alle operazioni di polizia, agli arresti, ai processi, ogni volta ha fatto eco il tam tam dei giornali, magnificando ogni più piccolo risultato raggiunto nella storia di una latitanza che dura ormai da quasi trent’anni e sul cui esito finale si è espressa Maria Teresa Principato, magistrato che per anni ha indagato sulla latitanza del boss, molto scettica in merito all’improbabile cattura del boss.
Titoli, titoloni, prime pagine, persino inventandosi l’arresto di “talpe” del boss latitante, come nel caso dell’arresto di due carabinieri e dell’ex sindaco di Castelvetrano, in cui le uniche “talpe”(mammiferi notoriamente non vedenti), potevano essere ben rappresentate da giornalisti tanto cechi da non essere in grado di leggere gli atti giudiziari.
Ai titoloni scoop, strombazzati Cicero pro domo sua, fanno seguito quelle false notizie che alla falsità aggiungono l’indecenza.
Come definire diversamente la diffusione di una foto che ritrae un parente dei Messina Denaro al centro tra i due (padre e figlio), indicandolo con il nome dell’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino?
È questo il “capolavoro” realizzato da Tv8 con la terza puntata di “Mappe Criminali”, le “inchieste d’assalto” condotte dal giornalista Daniele Piervincenzi, andato in onda la scorsa primavera.
Perché scriverne adesso, dopo diversi mesi?
Semplice, perché si tratta di uno sciacallaggio consapevole, senza margine d’errore.
Infatti, a distanza di tanti mesi, nonostante la diffida inviata dai legali del defunto Vaccarino affinchè venisse rimossa, o corretta, l’errata indicazione stante la quale l’uomo al centro tra i Messina Denaro sarebbe stato l’ex sindaco e non un parente dei due mafiosi, il video, già visto da una moltitudine di spettatori, dopo il 47° minuto continua a proporre la sua vergognosa alterazione della verità.
Vaccarino è morto, eppure, nonostante ciò, si sente la necessità di gettar discredito su un uomo il cui più grande accusatore fu uno pseudo pentito ritenuto inattendibile da diverse sentenze e di recente definito un “inquinatore di pozzi” e collaboratore eterodiretto.
Quel Vincenzo Calcara indicato dalla procura di Catanzaro, guidata dal procuratore Nicola Gratteri, quale teste nel processo nato dall’operazione antimafia Rinascita-Scott, che vede oltre 300 imputati.
Un abbaglio, evidentemente, al quale la stessa procura ha posto rimedio rinunciando a un teste assai discusso e discutibile.
Ma a chi fa ancora paura Vaccarino, a tal punto da volerlo screditare anche da morto?
E la stampa che in tal senso si presta, a quale scopo?
Giornalistopoli è il termine usato da Piero Sansonetti su Il Riformista, facendo riferimento allo scandalo che riguarda i giornalisti, del quale nessuno osa scrivere.
Quanta responsabilità c’è in quella stampa che ha alterato le notizie in favore di questo o quel potentato?
La vicenda Montante, la vicenda Saguto, il caso Palamara, ci offrono lo spaccato di un mondo dell’informazione fondato sulle falsità, sui favori, sulla “pax” tra frange perverse della magistratura, della politica e dell’economia.
Una “pax” che mi riporta alla mente le parole di John Milton: “Ora vedo che la pace corrompe non meno di quanto la guerra distrugga”.
E la stampa è corrotta, e lo sa…
Gian J. Morici
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