Solo Totò avrebbe saputo dare il giusto tono al detto napoletano “ccà nisciuno è fesso”, declamato in una sua celebre battuta. Di Antonio de Curtis ce ne era uno solo e non possiamo dire a nome di tutti gli italiani che nisciuno è fesso. Certamente i fessi ci sono, eccome se ci sono, ma non tutti gli italiani sono fessi. Che la mancata nomina di Marcello Viola alla Procura di Roma sia stata opera di chi in siciliano viene definito “tragediaturi” (chi mette zizzania muovendo accuse inesistenti o costruendo creando inesistenti scandali) lo hanno capito pure le pietre. Resta invece da individuare chi – non tanto il perché che è ormai chiaro – mise in moto una macchina del fango partendo da un’indagine e che servì invece a solo bloccare la nomina di un magistrato, evidentemente “scomodo”, ai vertici della procura capitolina. Forse non per nulla il pm Luigi Spina, all’epoca consigliere del Csm, intercettato nel corso dell’inchiesta di Perugia, dice a Palamara: “L’unico che non è ricattabile è Viola Marcello”.
La fuga di notizie. Le talpe non sono al Csm
A chiarire come la fuga di notizie che “affondò” la nomina di Viola vada ricercata altrove e non al Csm, è l’articolo di Giacomo Amadori dal titolo “Gli scoop telecomandati su Palamara per scegliere il procuratore di Roma”, pubblicato da “La Verità”.
Amadori ricostruisce in maniera dettagliata come le notizie vennero pubblicate dalla stampa prima ancora che il Csm venisse portato a conoscenza dei dettagli dell’inchiesta perugina, distruggendo l’indagine sulla presunta corruzione di Palamara. Tra il 27 e il 28 maggio 2019, circolava la notizia che “La Verità” e “Il Fatto Quotidiano” stavano per pubblicare la storia dell’esposto presentato due mesi prima al Csm dal pm romano Stefano Fava contro l’ex capo Giuseppe Pignatone. Solo dopo la fuga di notizie gli inquirenti umbri inviarono un cd al Csm con le intercettazioni dell’hotel Champagne, considerando evidentemente le trattative per la nomina del procuratore di Roma di Marcello Viola inquinate da illeciti disciplinari.
A raccontare come il Csm non fosse ancora a conoscenza di nulla in merito alle indagini di Perugia, è stato il segretario generale del Csm Paola Piraccini, che ascoltata in procura a Perugia su richiesta dei legali di Palamara ha riferito che il 29 maggio, mentre si trovava a Catania con il presidente al Csm David Ermini, venne da questi avvertita delle prime pagine dedicate dai quotidiani al caso Palamara, e che i due rientrarono a Roma. Il plico inviato dagli inquirenti al Csm, la Piraccini lo ritirò la sera del 30 maggio.
“Su questo non c’è il minimo dubbio, le carte di cui hanno parlato i giornali il 29 e il 30 maggio noi le abbiamo ricevute e le ho ritirate io personalmente il 30 alle ore 19 e non c’erano captazioni del trojan che sono arrivate successivamente” spiega la Piraccini. Il procuratore Luigi De Ficchy aveva infatti informato il Csm dell’iscrizione per corruzione di tre magistrati finiti sul registro degli indagati alcuni mesi prima soltanto dopo la fuga di notizie, riferendo soltanto lo stato del procedimento, “indagini preliminari”, e l’annotazione di pg della Guardia di Finanza di Roma che ha dato origine al procedimento. Al 30 maggio sera, dunque, queste erano le uniche notizie in possesso del Csm.
“Repubblica” e “Il Corriere della sera”
Come hanno fatto “La Repubblica” e “Il Corriere della sera” il 28 maggio, prima che la procura di Perugia comunicasse al Csm, a pubblicare articoli dai quali sembravano già essere a conoscenza delle vicende dell’hotel Champagne, legando l’inchiesta sulla presunta corruzione dei magistrati – ancora coperta da segreto istruttorio – e facendo riferimento alla nomina del procuratore di Roma e a trattative e cordate che riguardavano il Csm ma anche i palazzi della politica?
Mentre le carte non sono ancora arrivate al Csm, sul Corriere esce la prima notizia che riguarda la nomina di Marcello Viola a capo della procura di Roma: «Durante questa inchiesta sono venuti alla luce incontri allo stesso Palamara con politici e magistrati che sarebbero serviti a gestire la partita per portare alla guida alla Procura Romana l’attuale procuratore generale di Firenze Marcello Viola». Nessun riferimento al fatto che non c’è un solo incontro al quale Viola abbia preso parte, nessuna telefonata intercorsa tra Viola e Palamara o altri per spingere in direzione della sua nomina. Men che meno, all’intercettazione nel corso della quale il pm Luigi Spina dice a Palamara che “l’unico che non è ricattabile è Viola Marcello”.
“E la Repubblica? – scrive Amadori – Rivela che ci sono «quattro nomi iscritti al registro degli indagati dell’inchiesta sulla corruzione e le nomina Csm». E aggiunge: «La storia dunque cammina». O forse deve camminare. E in fretta per far saltare la nomina di Viola, il candidato procuratore in pectore”.
Si brucia così la nomina di Viola e si gettano ombre sinistre sull’esposto presentato contro l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Chi diede notizie coperte da segreto istruttorio alla stampa, visto che nessuna possibile talpa del Csm ne era a conoscenza? “A questo punto – scrive Amadori – il cerino resta in mano ai magistrati di Perugia, a quelli di Roma che stanno condividendo informazioni con i colleghi umbri e alla polizia giudiziaria, in questo caso gli uomini del Gico della Guardia di Finanza”.
La Guardia di Finanza
A questo proposito è interessante leggere l’articolo comparso qualche giorno fa su “Il Riformista” a firma di Paolo Comi, dal titolo “PALAMARA LA FINANZA MENTI’ SUL TROJAN ECCO LE PROVE”.
“La Guardia di Finanza – scrive Comi – era a conoscenza che Luca Palamara avrebbe incontrato Cosimo Ferri la sera del 8 maggio dello scorso anno. Non ci sarebbe stata alcuna “casualità”. La circostanza, clamorosa, sarebbe stata” occultata” dal Gico della capitale, che ha svolto l’indagine nei confronti dell’ex presidente dell’Anm, ai magistrati di Perugia titolari del fascicolo”.
Stando alla ricostruzione di Comi, il Gico, secondo la versione ufficiale, avrebbe ascoltato, e trascritto il giorno dopo la conversazione delle ore 19:13 dell’8 maggio del 2019 con la quale Palamara e Ferri decidevano di incontrarsi.
L’ascolto illegale di un parlamentare dovuto solo a una sfortunata casualità. “Ci sono però due conversazioni, precedenti all’incontro – scrive Comi – che fanno venir meno la ‘casualità’ dell’ascolto. La prima è del 7 maggio 2019 alle ore 23:19. La seconda, classificata ‘importante’ dal maggiore del Gico Di Bella, è dell’8 maggio 2019, ore 15:27: ‘Palamara al telefono…. si vedranno nei pressi del Csm con Antonio, Cosimo e lui (la persona al telefono)’, scrive il militare a poche ore dall’incontro. Anche la finanza era dunque ormai certa dell’incontro con Ferri. Ma il Gico, nell’informativa del 17 maggio, non indica le due conversazioni chiave e, di conseguenza, non dice quando siano state trascritte.
Ne viene scelta solo una terza, dell’8 maggio 2019 alle ore 19:13, trascritta il giorno dopo, quindi successivamente all’incontro. La finanza sapeva e dunque ha mentito? Perché ha usato il trojan pur consapevole di compiere un’azione illegale, in violazione dell’ordine dei pm? Domande legittime. Che però nessuno ha fatto. Perché nessuno le ha fatte? Perché nessuno chiarisce?”. Domande destinate a rimanere senza risposta.
Palermo – Un’indagine della Finanza, un computer scomparso e due magistrati indagati con l’inverosimile accusa di aver favorito la mafia
A condurre le indagini, ancora una volta, è la Guardia di Finanza. nel mirino due magistrati che danno la caccia a Matteo Messina Denaro (Maria Teresa Principato e Marcello Viola) e un appuntato della finanza (Calogero Pulici, assistente della Principato).
I due magistrati, che collaborano tra loro, verranno poi accusati di violazione del segreto d’ufficio con l’aggravante di aver favorito la mafia, avendo ostacolato la Dda di Palermo svolgendo le loro indagini. Può sembrare una barzelletta, ma accade anche questo. Un’indagine – quella di Viola e della Principato – bruciata. E in molti, sostengono che i due se così non fosse stato sarebbero arrivati alla cattura del boss, attualmente ancora latitante.
Viola e la Principato verranno poi riconosciuti innocenti. Pulici subisce sette processi che si concludono con sette assoluzioni. Ma intanto una “manina” fa sparire dall’interno della procura di Palermo i supporti informatici – di proprietà del Pulici – che contenevano tutti i file delle indagini che riguardavano la latitanza di Matteo Messina Denaro. Una vicenda che risale al 2015. Un mistero che sembra destinato a rimanere tale. Chi trafugò i file con le indagini sulla latitanza del boss?
Se lo è chiesto anche Giuseppe Ciminnisi, coordinatore nazionale dei familiari delle vittime di mafia dell’associazione “I cittadini contro le mafie e la corruzione”, che ha scritto una lettera aperta al procuratore di Palermo Francesco Lo Voi affinchè venga avviata un’indagine mirata a scoprire l’autore o gli autori del “furto”. In attesa di un improbabile esito positivo di un’eventuale – quanto improbabile anch’essa – indagine, ricostruiamo alcuni aspetti dell’inchiesta condotta dai finanzieri di Palermo sui due magistrati e sul loro stesso collega.
2015 – Cieli della Sicilia. Su un elicottero della Guardia di Finanza si trovano Maria Teresa Principato e Marcello Viola, rispettivamente ex procuratore aggiunto di Palermo e procuratore capo di Trapani. Con loro il colonnello Francesco Mazzotta e Calogero Pulici, appuntato della Guardia di Finanza.
I quattro si conosco bene. Pulici è l’assistente della Principato, il colonnello, suo superiore, conosce l’appuntato e i due magistrati, tanto da frequentarli anche in altre occasioni, ed è consapevole del fatto che stanno svolgendo insieme delle indagini. Non può non esserlo, visto che in elicottero non ci si incontra per caso, né si usa il mezzo per le gite domenicali fuori porta.
Lo si evince anche dalle conversazioni che lo stesso colonnello Mazzotta ha con l’appuntato Pulici, dall’interesse mostrato dal primo affinchè anche la Finanza abbia un ruolo, dal timore poi palesato che proprio le fiamme gialle ne vengano tagliate fuori poiché viene meno la fiducia riposta.
Qualcosa improvvisamente cambia. La Finanza viene “messa alla porta” e parte l’inchiesta sui due magistrati e l’appuntato. A condurla sono gli uomini dello stesso Mazzotta. Se Mazzotta avesse ritenuto che stessero commettendo un reato, non avrebbe dovuto riferirne all’Autorità Giudiziaria prima ancora che gli venisse affidata un’indagine? E invece no, non lo aveva fatto. Evidentemente era consapevole che nelle attività svolte dai tre, alle quali lui stesso prende parte – quantomeno nella circostanza del volo in elicottero – non si ravvisava alcuna irregolarità. Il colonnello, nonostante frequentasse i due magistrati anche nel corso di incontri non istituzionali, nonostante i rapporti con Pulici e le conversazioni intercorse con i tre – durante le quali certamente non si parlava soltanto del piacevole clima siciliano – conduce le indagini, evitando però ogni riferimento ai rapporti intrattenuti con gli indagati.
Forse, per ragioni di opportunità, avrebbe fatto meglio a dichiararli e lasciare che fossero altri a condurre un’indagine dagli aspetti assai singolari che vedeva sul banco degli imputati coloro i quali davano la caccia a Matteo Messina Denaro. Un’inchiesta finita con un flop clamoroso, ma questo non impedì a qualche magistrato di essere promosso.
Le ragioni di opportunità
Le ragioni di opportunità sono però quelle che a volte si scontrano con altre ragioni, anche legittime. Non è forse legittima l’aspirazione di un magistrato a ottenere la nomina a capo di una procura di prima linea che conduce importanti indagini, come quelle sulle stragi del ’92? Aspirazioni legittime, per carità, ma che talvolta potrebbero apparire inopportune. Come nel caso delle candidature alla prossima nomina ai vertici della procura di Caltanissetta, che vedono in corsa Salvatore De Luca, aggiunto della procura di Palermo, vicino all’attuale procuratore Francesco Lo Voi, con il quale condivide l’appartenenza alla corrente di Magistratura Indipendente.
De Luca, in magistratura dall’83, già a capo della procura di Barcellona, da sei anni è procuratore aggiunto di Palermo. Un magistrato che ha dunque titoli e anzianità che gli permettono legittimamente di aspirare a dirigere la procura nissena.
La sua esperienza da procuratore aggiunto alla direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano è un biglietto da visita indiscutibile. Non va infatti dimenticato che importanti inchieste sulla mafia palermitana portano la sua firma, come nel caso di Cupola 2.0.
De Luca, a seguito delle due inchieste da lui condotte e che in sei mesi portarono a individuare e arrestare i componenti della nuova Commissione Provinciale, spiegò come la forza di Cosa nostra sia il controllo del territorio in stretta alleanza con “i colletti bianchi”.
Eh sì, quegli stessi “colletti bianchi” che talvolta si ritrovano anche negli scandali e nelle indagini che riguardano i magistrati. Come nel caso di recenti inchieste che hanno riguardato proprio la magistratura palermitana e che hanno messo in luce rapporti tra magistrati, tra magistrati e colletti bianchi, un comitato d’affari che ben poco aveva a che vedere con la giustizia e perfino indagini indirizzate a togliere di mezzo qualche giornalista scomodo.
Ma se non fosse stato per quello “stronzo” di Pino Maniaci (così definiva la Saguto il giornalista che per primo portò avanti un’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia) si sarebbe arrivati all’indagine e alle condanne pronunciate dai giudici di Caltanissetta?
Caltanissetta ha infatti competenza sulle indagini che coinvolgono i magistrati di Palermo. È opportuno che a dirigere una procura con quelle competenze sia un magistrato che legittimamente aspira al ruolo, ma ha lavorato fianco a fianco con colleghi sui quali domani potrebbe dover indagare? Nessun dubbio sulle qualità morali del procuratore aggiunto De Luca, né sul fatto che condurrebbe serenamente le indagini, ma per ragioni di opportunità potrebbe trovarsi nelle condizioni di doversi poi astenere nel caso che gli indagati siano coloro con i quali fino a ieri erano i colleghi con cui lavorava negli stessi uffici.
Forse, più che affidarsi alle ragioni di opportunità, sarebbe il caso di regolamentare un vulnus che agli occhi dei cittadini rischia di far perdere ancor più fiducia nella magistratura.
Gian J. Morici
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