Nel 2016, dopo aver trascorso qualche anno da quando mi ero infiltrato all’interno dei gruppi del terrorismo islamico che operavano nel web, scrissi, per una testata giornalistica francese, un articolo sulle mie osservazioni del fenomeno. In “Djihad – De l’autoformation à Sharia4”, tracciai, per grandi linee, il percorso di autoformazione seguito a livello individuale, da parte di soggetti che tramite i contenuti illegali e i messaggi che proliferavano in rete, si erano ben presto radicalizzati passando da un’ideologia passiva violenta all’estremismo attivo, se non dell’atto terroristico, quantomeno a quello della propaganda jihadista.
Persone apparentemente normali, per via di una radicalizzazione indipendente, in poco tempo si trasformavano in strumento attivo di un’ideologia estremista violenta.
La prima reazione dinanzi a una minaccia è quella di chiuderci in difesa, senza provare a comprenderne le ragioni e dimenticando una regola fondamentale di ogni guerra: imparare a conoscere il nemico! Probabilmente, qualche lettore starà già storcendo il naso, pensando di etichettarmi come “buonista”. Il primo pensiero di chi non è in grado di far funzionare contemporaneamente due neuroni, non si informa e si ritiene unico detentore della verità.
In questo caso è inutile stare a spiegare a chi ha già terminato di leggere l’articolo il perché quella del “buonista” è un’etichetta che non mi si addice.
La fase successiva è quella di pensare alle possibili contromisure da adottare. È normale che in questi casi, specie quando si verificano eventi drammatici come gli attentati, si pensi a una reazione forte, che spesso ci induce a generalizzare includendo nella schiera dei nemici anche coloro che fino a quel momento non sono ancora tali.
Un’idea che si fortifica e si cristallizza in particolare in frange estremiste che apparentemente si contrappongono all’estremismo islamico, allargandosi a macchia d’olio in seno a una società il cui comune sentire è dettato dall’illusionismo di chi crea nemici da abbattere allo scopo di distrarre le masse dai problemi quotidiani.
Probabilmente buona parte dei lettori, per i motivi già spiegati sopra, avrà già smesso di leggere. Non è un caso, infatti, se nel titolo ho aggiunto “In controcorrente”.
Per chi ancora invece si ostina a leggere, voglio precisare che l’illusionismo ha gioco facile in un Paese come il nostro, dove la responsabilità appartiene, prima che a chiunque altro, a chi ha gestito taluni fenomeni in maniera criminale e solo per i propri interessi, non certo per sconsiderato buonismo.
Spiegato dunque che non sono favorevole a nessuna forma di invasione incontrollata, andiamo ad analizzare insieme le conseguenze degli estremismi – apparentemente divergenti – che in realtà non soltanto hanno molto in comune, ma talvolta procedono paralleli come i binari, correndo veloci verso un unico obiettivo.
Esiste soltanto l’estremismo islamico? La risposta è no. Qualcuno potrebbe replicare sostenendo che altre forme di fanatismo non hanno le stesse conseguenze. Anche in questo caso potremmo citare diversi casi di estremismo che hanno portato soggetti appartenenti ad altra ideologia ad avvicinarsi all’Islam più radicale e violento.
Senza bisogno di scomodare la storia – rispolverando i rapporti tra il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al Husseini e Adolf Hitler, spesso sconosciuti alla maggior parte dell’opinione pubblica – è sufficiente pensare a Sascha Lemanski, propagandista neonazista, arrestato per terrorismo islamico prima che riuscisse a portare a termine un attentato contro le forze di polizia.
Unico caso? Recenti studi, come quelli pubblicati da Daveed Gartenstein-Ross e Madeleine Blackman, ci dicono che non è così. Emerson Begolly, per esempio, è un altro simpatizzante nazista della Pennsylvania, diventato jihadista dello Stato Islamico, senza che per questo avesse rinunciato alla propria fede politica.
La lista di nomi potremmo allungarla aggiungendo quelli di altri terroristi e simpatizzanti o quelli degli estremisti di altre fedi religiose – questi sì convertiti dopo aver rinunciato alla loro fede iniziale – passati alle fila del terrorismo islamico, dopo aver militato in formazioni apparentemente in contrapposizione all’ideologia jihadista.
Senza addentrarci nel neo-nazismo e islamismo militante degli studi succitati, val la pena di approfondire alcuni aspetti relativi alle comunanze e alle conseguenze delle varie forme di estremismo.
Partendo dal presupposto che qualsiasi atteggiamento radicale e intransigente contiene in sé il seme della violenza, della prevaricazione, dell’odio, non ci sarà difficile comprendere come tali fattori li possiamo riscontrare tanto nell’ideologia politica quanto nella fede religiosa, laddove nell’una o nell’altra si travalichi il senso della misura.
Altro aspetto comune, la figura di un nemico da combattere con qualsiasi mezzo. Questo fa sì che si creino legami e appartenenze di gruppo che rappresentano il fertile humus della radicalizzazione. Cosa avevano in comune Amin al Husseini e Adolf Hitler, se non l’odio verso gli ebrei?
Cos’è la radicalizzazione?
Purtroppo, ad oggi, non abbiamo ancora parametri validi per stabilire qual è il modello comportamentale che permetta una definizione riconosciuta a livello globale di questo fenomeno, nella misura in cui lo stesso rappresenti l’anticamera del terrorismo e non soltanto l’esternazione di un pensiero destinato a rimanere tale. Fattori decisivi che influenzano la condizione strategica della lotta antiterrorismo, non sono soltanto l’estremismo religioso e il separatismo etnico, ma anche il linguaggio dell’odio e la disumanizzazione del nemico. Quest’ultima, è determinante affinché in suo danno si possa compiere qualsiasi azione senza per questo provare alcuna sofferenza psicologica o morale.
Radicalizzazione fucina d’odio e violenza? Certamente sì, da qualsiasi parte si arrivi all’accettazione di quegli estremismi che mirano alla discriminazione di gruppi e al loro annientamento.
Fin quando non capiremo che soltanto una definizione riconosciuta a livello globale dei concetti di radicalizzazione e terrorismo potranno permettere una convenzione mondiale che possa vedere tutte le nazioni unite in questa grande lotta, non saremo in grado di impedire che i drammatici cambiamenti e le mutevoli situazioni strategiche in Medio Oriente portino all’espansione del terrorismo in Occidente. Con buona pace dei falso-buoni che per decenni hanno favorito la nascita di cellule nel nostro Paese e con quella di quanti ritengono che un atteggiamento radicale e intransigente rappresenti la risposta risolutiva a un fenomeno complesso che, oltre alla conoscenza, richiede l’adeguatezza delle contromisure, iniziando dal non cadere nell’errore della generalizzazione che altro non farebbe che creare comunanze e appartenenze anche laddove ad oggi non ci sarebbero, secondo il principio che il nemico del mio nemico è amico mio.
Gian J. Morici