Tempo di elezioni. Tempo di scelte, per ora ancora solo di candidati. Scelte che moltissimi hanno fatto di sé stessi (poi, magari, racconteranno di essere stati “forzati” dagli amici e di aver ceduto per senso di responsabilità verso la società, la Patria, i posteri).
Ho già espresso l’angoscia di un voto che sarò, saremo chiamati a dare secondo una legge contorta, balorda e della tentazione di pronunziare la storica frase “ce sputasse vossia”.
Intanto, però senza troppa difficoltà una scelta si può cominciare a darla. Quella dei personaggi, dei gruppi, dei partiti (ammesso che ne esistano) da non votare. Non per fare la concorrenza a Rosy Bindi, che ci vuole imporre, pena l’accusa di un qualche diabolico “concorso esterno”, di considerare alcuni candidati non candidati, perché “impresentabili”. Nomi di persone che, invece sono eleggibili e figureranno nelle liste. Ma, noi come elettori, oltre che scelte in positivo che dovremo pur fare, abbiamo pieno diritto di cominciare a farne delle nostre “in negativo”, per poter poi procedere “per esclusione”.
Come al solito, se dobbiamo definire efficacemente delle categorie con una parola, con una parola sola, dobbiamo far ricorso, anziché alla lingua “corretta” dell’Accademia della Crusca, ai dialetti, al gergo, che, tra gli spropositi, contengono termini splendidi per efficacia ineguagliabile.
C’è nel dialetto siciliano una parola del cui significato ho chiesto conferma all’amico Salvo Fleres (che è di Catania, dove, secondo Sciascia, si parla il vero dialetto siciliano). Salvo me ne ha data una bellissima, ampia spiegazione che mi indurrà a ricorrere spesso a questo insostituibile termine. “Tragediatore”.
“Tragediatore” è chi provoca guai, chi fa sì che da ogni cosa possa scaturire una tragedia, mestando per scatenare odio e diffidenza. Non è un menagramo: e non è e non vuole apparire un pessimista, è un architetto di malanni, un interpetre attivo del catastrofico. Fleres, naturalmente, è stato più preciso e splendidamente efficace.
Ci sono tra i candidati, o candidati alla candidatura, molti “Tragediatori”.
Definirei così, anzitutto, i professionisti, gli sciacalli, gli eroi dell’Antimafia. I magistrati in fregola per i sogni di un salto in Parlamento, che sono dediti all’archeologia giudiziaria, che pretendono di poter far piazza pulita di avversari o potenziali avversari scoprendo, in base a “rivelazioni di pentiti” ed altri “rilevanti indizi” che questi ultimi sono coinvolti nell’omicidio di Giulio Cesare e nella strage di Portella della Ginestra.
“La politica si fa indagando” pare che sia il loro motto. E intanto, indagano facendo politica. Se la candidatura non riescono ad arraffarla, fanno, magari, una retata preelettorale. A futura memoria.
Ma ci sono “Tragediatori” d’altro genere, magari “laici” di molti altri generi. Che, senza indagare scoprono che siamo tutti delle povere marionette nelle mani di poteri occulti, di interessi colossali che governano la globalizzazione, sono, al pari dei togati, patiti delle dietrologie. Capaci di non vedere quel che hanno ad un palmo dal naso, ma che giurano di sapere, di interessi, di sentire l’odore di quel che c’è dietro le più astruse e le più semplici cose. E così creano il marcio, il putrido dove ancora non c’è.
Sono singoli personaggi, ma sono anche gruppi, partiti (se così possono chiamarsi). La Sinistra Italiana, quel che ne rimane, i suoi residuati, la sua melma è “Tragediatora” per eccellenza. E riesce benissimo in questo suo ruolo.
Votare dei “tragediatori”? Credo che non vorrebbero farlo nemmeno altri “tragediatori”. Figurarsi se possa farlo della gente normale e per bene.
C’è poi, attivissima in questi giorni, un’altra categoria, definibile con un termine che, invece, appartiene alla lingua italiana, ma poi, da questa quasi dimenticato, è passato nel linguaggio dialettale-gergale, grazie a Pasolini: accattone. Accattone era il soprannome di uno di quei ragazzi di borgata. Oggi il termine è più noto in questa sua accezione (non lontana da quello originale) che nel linguaggio colto, che sta, del resto, come tale, cadendo in disuso.
Filologia a parte, ci sono in questi giorni accattoni in quantità che si danno un gran da fare.
Questa categoria è assai più variegata e complicata di quella dei “tragediatori”. Anzitutto ci sono molti “tragediatori” che, al contempo, sono anche accattoni. E viceversa.
Ma ci sono accattoni ed accattoni. Ce ne sono di semplicemente ridicoli, ma anche di geniali, spregiudicati e capaci di ottenere quel che vanno mendicando, “Il Foglio” di ieri o dell’altro ieri ha tessuto le lodi delle capacità di un maestro accattone giocoliere delle leggi elettorali e, come tale, generoso (con prospettive di profitto) verso altri accattoni ed accattone.
Ci sono accattoni privi di fantasia, ma anche di quelli che ne hanno in sovrabbondanza. Accattoni millantatori di patrimoni ideali immaginari (una volta c’erano i mendicanti di cui si diceva fossero nobili decaduti).
E, come è noto, capita talvolta con gli accattoni di strada, che magari, viene fuori che sotto il pagliericcio nascondono somme inimmaginabili. E come questi ultimi, certi accattoni magari abili nel loro mestiere, ma petulanti e, francamente, sgradevoli, stupiscono per la loro reticenza ad andarsene in pensione. Come uomini (e donne!) politici e come accattoni. Capita con tutte le professioni.
Con tanti accattoni di candidature qualcuno si domanderà perché non costituiscono un partito degli accattoni, dell’accattonaggio.
Osservazione giusta, ma un po’ ingenua.
Perché, così non sarebbero più degli accattoni veri e propri, non avrebbero più nemmeno la probabilità di un “terno al lotto”, di una generosa (e pelosa) propina di qualche gran signore (!?!?).
Del resto un partito dell’accattonaggio elettorale non sarebbe poi una gran novità.
Quando Pannella nel 1988 decise che il Partito Radicale gli andava stretto e volle scioglierlo con la formula della “castità elettorale” dei radicali “in quanto tali”, tortuosamente gettò le basi di un accattonaggio elettorale collettivo. Che di fatto fu esercitato e sfruttato con buon lucro assieme alla millanteria di un inesistente (perché anch’esso da tempo sperperato sul tavolo verde) patrimonio morale e politico.
Ma è meglio parlar d’altro e, magari chiuderla così. Del resto la questione filologica, il significato di quelle parole è di per sé cosa interessante. E tutti faremmo bene a pensarci un po’ sopra.
Mauro Mellini