Prefazione di Salvatore Nocera Bracco
In qualche passeggiata mattutina per le strade di Collearso – giusto per mantenere la finzione letteraria di questo romanzo – incontro spesso GJM per prendere un caffè: lo programmiamo quasi sempre prima, un’abitudine dinoccolata come la sua camminata di uomo qualunque, che mi costringe a rallentare, per sentirlo propormi uno dei suoi soliti argomenti che hanno a che fare con una delle sue solite “indagini-inchieste” di giornalista sui generis – fuori dagli schemi e dalla istituzionalità in cui la maggior parte della stampa “ufficiale” è impelagata – una scelta che non gli permette molti agi, ma che non lo inquadra in un sistema di poteri forti che spesso imbavagliano, e costringono a dire “altro” – alterando – e celandone altre – la “realtà” delle cronache, plasmandola ad uso e consumo delle idee e degli interessi dominanti.
E ancora passeggiamo, su e giù per la via più rappresentativa di Collearso, che comincia con un Teatro-Municipio – o viceversa, se si vuole – e sfocia in una piazzetta con Empedocle che punta in alto il suo indice, tra l’ex Archivio Notarile, ora Biblioteca comunale, e la caserma dei Carabinieri: l’apparente pacatezza di GJM mi rilassa – apparente come quella di Giorgio Ricci, il protagonista del romanzo – mentre fuma una sigaretta appena fatta con cartine e tabacco, la barba quasi sempre incolta, questa parvenza di uomo sicuro di sé, la camicia sempre sbottonata sul petto nudo, anche d’inverno, quasi a non sentirne il contatto, nudo come il suo “giornalismo”, supportato da un seguitissimo giornale on line – edito e curato dallo stesso GJM – fuori dalle regole precostituite, pervicacemente alla ricerca di una verità con la quale si può anche non essere d’accordo, ma pur sempre mai convenzionale, spesso al servizio di qualche disperato delle zone calde del mondo – Corno d’Africa, Medio Oriente – connesso a una rete di aiuti clandestini, bypassando il controllo delle “dogane” ufficiali del web – indiretta denuncia dell’immobilismo “umanitario” di molti Stati impegnati diplomaticamente a risolvere le crisi internazionali che creano, oltre che disastri fisici e ambientali, drammi e vere e proprie tragedie tra le popolazioni autoctone, costringendole a subire ogni sorta di angheria, sopruso, violenza, da parte dei loro governi e delle opposizioni armate, a fronte di un fin troppo pubblicizzato ma sterile pseudo-attivismo di molte Associazioni non governative; oppure a portare all’attenzione dell’opinione pubblica – sposandone con passione la causa – il dramma delle vittime innocenti della mafia, non sempre riconosciute dallo Stato; o ancora a mimetizzarsi tra le file internettiane del terrorismo fondamentalista, per smascherarne i progetti e tentarne una denuncia non sempre ascoltata.
Questo romanzo esprime, come in un noir mediterraneo, l’asprezza del nostro territorio, con le sue incantevoli bellezze, il fascino della sua storia e della cultura che ha prodotto, ma anche con le forti contraddizioni che lo caratterizzano, e che determinano, più o meno fatalisticamente, più o meno consapevolmente, la vita – il racconto – dei protagonisti, ognuno abbarbicato dentro le ombre individuali e sociali che questa stessa terra produce, quasi una violenza strutturale, alimentata dal gioco e dalle soverchierie degli apparati forti, più o meno pubblici, più o meno legali.
Abilità narrativa e il coraggio di esporsi, esattamente come il protagonista, Giorgio Ricci, che sembra ricalcare esperienze reali, vissute in prima persona dall’autore. Ma si ha l’impressione che il vissuto autobiografico sia molto più semplicemente l’amplificazione di fatti – resi verosimili – recuperati in anni di osservazioni, inchieste giornalistiche, prese di posizioni a volte anche dure, e spesso anche rischiose, di un pazzo, di un avventato pazzo al quale non verrebbe istintivamente di dar credito. Ma è davvero difficile non immedesimarsi con questa pazzia, con questa avventatezza, scorrendo la scrittura fluida di questo libro. E anzi, la sensazione che se ne prova, alla fine, non è proprio piacevole: c’è chi tiene gli occhi chiusi sul suo quotidiano, per quieto vivere, per indolenza, per trarne gli utili vantaggi di una vita, di una storia mediocre e sempre scritta da altri; e c’è invece chi – per cause spesso non volute, inaspettate e drammatiche, destabilizzanti – gli occhi è stato costretti ad aprirli, scoprendo con amarezza che è stato anche il suo atteggiamento finora passivo, a mantenere le contraddizioni di una terra che ancora non sa, o non vuole, emanciparsi.
Salvatore Nocera Bracco
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