Alla terza su quattro puntate del caso “Yara” in onda su Sky comincio ad avere i brividi. Avevo seguito come tutti il caso, e come tutti con interesse e attenzione, ma mi mancavano molti dettagli. E ora tremo al pensiero che ancora una volta una persona possa essere stata condannata all’ergastolo senza prove sufficienti.
Il docufilm, che probabilmente vuole essere celebrativo dell’impegno con cui le forze dell’ordine hanno cercato e trovato il presunto colpevole, in realtà ottiene – almeno in me – sensazioni opposte. A fronte di una incredibile e per certi aspetti stupefacente capacità professionale e investigativa di Polizia, Carabinieri e laboratori scientifici, c’è ancora una volta un’incapacità di base di applicare metodi veramente scientifici alla ricerca della “verità”. C’è una poco opportuna celebrazione della personalità del PM, che forse poteva evitare di farsi riprendere mentre arriva in procura in canotta e motocicletta, come fosse Starsky e Hutch.
C’è un continuo mantra da parte di tutte le protagoniste femminili “anche io sono mamma”, come se questo fosse una garanzia di maggiore attenzione mentre io lo leggo come un tasso di emotività pericoloso. C’è un’ostinazione senza precedenti, giustificata con la necessità e la promessa di dare alla famiglia una risposta, ma che diventa in realtà un puntiglio professionale personale di tutte le parti in gioco, e anche l’obbligo di giustificare i soldi spesi in una caccia all’uomo durata 4 anni.
C’è un’insopportabile “fishing expedition” condotta su larga scala dalla magistratura con la catalogazione del DNA di centinaia se non migliaia di persone. E poi c’è Massimo Bossetti, un muratore di 44 anni, incensurato, con una bella famiglia. Un uomo tranquillo, mai un problema, con una sorella gentile ed educata, una madre e un padre anziani. C’è la procura che cerca pezze d’appoggio per supportare una prova debole, quella del DNA, e monta un filmato in cui si vede un camion come quello del Bossetti ripreso più volte da telecamere di sorveglianza, ma poi si scopre che era a scopo dimostrativo, che non sono riprese dello stesso camion e non ci sono prove che sia del Bossetti. C’è Bossetti che nega anche dopo mesi e mesi di isolamento di avere ucciso Yara e non riescono a farlo crollare mai.
E non parliamo di un genio del male, parliamo di un povero muratore, un uomo semplice. C’è il DNA che dice che la madre di Bossetti avrebbe avuto una storia con tale Guerinoni, e insomma gli dicono che è figlio di una poco di buono, ma lei nega, e la moglie di lui conferma che era a casa il giorno del delitto ma nessuno crede alla famiglia di Bossetti. C’è il DNA mitocondriale, che non si sa dove sia finito, visto che non si trova mai. Ci sono decine e decine di altri DNA trovati sul corpo della povera Yara che non si sa di chi siano, indice di una contaminazione evidente. Alla fine c’è una condanna all’ergastolo, in primo grado. E poi ci sono io, che spengo la televisione, e tutte le mie certezze si trasformano in dubbi e mi chiedo perché gli stessi dubbi non ce li abbia chi deve decidere della vita o della morte delle persone.