Nell’omicidio di Alatri, che rischia per la Ciociaria di rimanere nella storia allo stesso modo dello schiaffo di Anagni e del delitto di Sora, molte concause contribuiscono a renderlo simbolico e significativo per tutta la nostra vita sociale di italiani.
La provincia italiana, da Garlasco a Perugia a Pietro Maso, a Yara a Sarah Scazzi, ha già dato parecchi esempi di disagio giovanile, culturale, economico, che sfociano in delitti assurdi. Qui però ci sono altri fattori ad aggiungersi. Terribili e significativi.
C’è il branco, prima di tutto. Quella massa informe di esseri umani in cui i neuroni invece di moltiplicarsi si spengono, quell’unione di forze con regole rigide che non consente al singolo individuo di ragionare, di chiedersi se sia giusto quello che sta facendo, se sia corretto che la propria morale venga accantonata per adottare una morale collettiva che spesso è la morale del più forte, in cui l’esercizio della violenza è spesso il cemento del branco stesso.
Nel delitto di Alatri ci sono dieci, venti, forse trenta giovani che si accaniscono su un ragazzo, e nessuno di loro ha un vero motivo per ammazzarlo, se non l’appartenenza al branco.
C’è il ritrovo, la discoteca, con i suoi buttafuori. Da sempre un ritrovo di branchi, più o meno alla moda, che da posto di svago e rimorchio si è trasformato negli anni duemila in un luogo senza regole in cui alcool, droga, mignotteggio e violenza la fanno da padrone. E attenzione: non parlo dei peggiori bar di Caracas, parlo di luoghi dove vanno i nostri figli, spesso a contatto con adulti e con persone che di civile hanno poco. Sono bombe ad orologeria pronte ad esplodere per un nonnulla. C’è un genitore. Un padre che ha evidentemente rinunciato da subito al diritto/dovere di educare un figlio, ad insegnare le basi della convivenza civile: non rubare, non uccidere, non desiderare la donna d’altri. Lo diceva un romanzo di fantascienza, la Bibbia, già tremila anni fa e sono regole ancora valide. Invece questo padre, emulo dei boss mafiosi che vediamo in tv, incita alla violenza, forse ne fa parte, forse semplicemente se ne fotte, ma è lì, e non impedisce che un ragazzo venga ammazzato.
Si può chiamare padre? C’è la droga. E l’alcool. Forse non pensavamo di aver per sempre sterminato la piaga della tossicodipendenza, ma ci eravamo illusi che l’eroina fosse la cosa peggiore che poteva accadere, e invece no. Negli anni duemila fiumi di cocaina, di pasticche di vario genere, fino alle bibite energetiche, agli “shottini” si riversano nelle vene dei nostri figli, e ne condizionano il presente e il futuro, e in qualche caso questo futuro lo stroncano sul nascere. C’è la magistratura. Che rilascia dopo ventiquattro ore uno che hanno trovato con TRECENTO dosi di cocaina, CENTOCINQUANTA di crack e SEICENTO di hashish, perché “era consumo di gruppo, uno che qualche anno fa girava con cinque chili di hashish.
Penso a Stefano Cucchi, massacrato da chi ancora non si sa per qualche bustina di cannabis, e invece a questi personaggi che fermati con TRECENTO dosi di cocaina, il giorno dopo ammazzano un ragazzo in discoteca per un banale diverbio. E poi ci siamo noi. In questo caso loro: i passanti, i buttafuori, gli altri presenti in discoteca. Noi che spesso ce ne fottiamo di quello che ci succede intorno e che preferiamo girare la testa dall’altra parte. I ventinovemila abitanti di Alatri, che poi siamo i sessanta milioni di italiani, che di fronte ad un brutale pestaggio pensano che non sia affare loro.
Alatri, oggi, è la Caporetto della civiltà italiana.
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