“Caselli fa poi proprie le perplessità di Don Ciotti sulla vendita all’asta dei beni sequestrati alla mafia… Il rischio è che tornino alla stessa mafia attraverso dei prestanomi… In questi casi fare cassa può essere pericoloso. Ci vuole un’antimafia sociale”.
Queste parole pronunziava una delle icone dell’Antimafia, Caselli, già procuratore a Palermo, e già “particolarmente impegnato” ad incriminare Andreotti, nel 2011, quando il Governo Berlusconi, nella legge finanziaria introdusse una norma che consentiva la vendita all’asta dei beni confiscati alla mafia. Da parte sua Don Ciotti, di cui qualcuno ha oggi sottolineato, con ingiustificata meraviglia, il silenzio di fronte allo scandalo della “Sezione Misure di prevenzione” di Palermo, nello stesso periodo esprimeva la sua riprovazione per questa “manomissione” dei beni suddetti con una espressione che oggi può apparire equivoca o troppo sincera: “… i beni sequestrati alla mafia sono cosa nostra”.
Nessuno allora avrebbe osato ipotizzare che Don Ciotti volesse fare dell’umorismo nero. Concordare con Caselli nell’idea di un’”Antimafia sociale” (terreni dissodati da cooperative di ex drogati, uso di fabbricati per sedi di comitati di quartieri antimafia etc. etc.) era pressoché d’obbligo o, quanto meno, sicuramente prudente.
Ma invece dell’”Antimafia sociale” ci siamo ritrovati l’”Antimafia famigliare” di assai più sicuro e consistente rendimento.
Queste considerazioni sulla voracità di un’Antimafia ben decisa a succedere alla Mafia nel possesso dei beni in un modo o nell’altro “acquisiti” ed in un modo o nell’altro da “trasmettere” dall’una all’altra è stato naturale richiamarle alla memoria ora che sta venendo al pettine la vera natura ed i veri intendimenti di molti, troppi accaniti sostenitori di confische per “probabile mafiosità” dei proprietari e imprenditori.
Ed è oggi, poi, più facilmente comprensibile perché solo qualche anno fa poteva essere così “temuta” la vendita all’asta di tali beni, che avrebbe, certo, potuto comportare manipolazioni e “turbative”, ma che di sicuro avrebbe interrotto il banchetto dei famigliari ed amici di famiglia degli imperterriti sequestratori.
Ma oramai sarebbe ora di tirare le somme, di fare i conti del costo ingentissimo di queste operazioni, della crisi che ha determinato in tutta la gestione del credito in Sicilia ed altrove, dello sperpero del disfacimento di imprese sequestrate per “presunte” appartenenze ad altrettanto presunti mafiosi.
E poi sarebbe ora di fare i conti in tasca a questi “operatori” della “lotta” alla mafia, dei loro congiunti ed amici e prestanomi, il conto delle parcelle faraoniche e delle vendite, come si dice a Roma, “scapicollate”, per pochi soldi, di beni sottratti alla loro naturale funzione economica. Magari per un “uso sociale”, che “socialmente” ci è costato quanto avrebbe potuto dare vita a larghe fette dell’economia di intere Regioni.
Ma questi signori vogliono continuare antimafiosamente a rubare. Solo a rubare.
Mauro Mellini – www.giustiziagiusta.info