La Francia è soltanto uno dei tanti esempi, l’ultimo in ordine di tempo, di come il fenomeno di cellule dormienti legate al terrorismo islamico, e più in generale a quello internazionale, sia una realtà sottovalutata e, forse, artatamente taciuta.
Ne scrissi subito dopo l’attentato di Boston evidenziando come non potesse essere il gesto di un folle né di due fratelli che agivano in assoluta solitudine. Ipotesi, quelle mie, che presto trovarono conferme e riscontri nelle dichiarazioni di uno degli attentatori, nelle analisi delle agenzie di intelligence, nel materiale adoperato dai terroristi, nella conclusione delle indagini e nella successiva identificazione di appartenenti ad una rete terroristica che operava su tutto il territorio statunitense e su quello canadese.
Ma era necessario che si verificasse l’attentato di Boston per scoprire l’esistenza di una rete ben organizzata in grado di colpire in qualsiasi momento gli Stati Uniti? In teoria no. I segnali e i precedenti c’erano tutti: dal progetto del 2006 dell’attentato alla borsa di Toronto a quello che mirava a colpire il Primo Ministro canadese, che portarono alla scoperta di un altro progetto che aveva come bersaglio le linee ferroviarie del paese, rifacendosi a quanto avvenuto a Londra e Madrid, per arrivare al fallito attentato del 2010 a New York e a quello, fortunatamente fallito, in danno dell’aereo della Delta Northwest Airline.
Cellule sparse in tutto il mondo, attendevano soltanto un ordine. Un breve ordine che poteva essere diramato con un semplice tweet o con un messaggio lanciato attraverso altri social network o, ancora, grazie ad una pagina web che indicasse bersagli, date, modalità e informazioni su come costruire una piccola ma micidiale bomba da utilizzare al momento opportuno.
Alle cellule ben organizzate, che possono contare su appoggi esterni per la fornitura di armi o coperture, si era aggiunto il cosiddetto terrorismo “fai da te”. Cittadini che per ragioni diverse si lasciano influenzare dai “cattivi maestri” dell’estremismo religioso, trasformati in potenziali ordigni letali in grado il più delle volte di sfuggire alle attenzioni degli investigatori.
Gruppi composti da pochi elementi, che in comune hanno imam dediti alla propaganda del fondamentalismo religioso tramite internet. Soggetti che si lasciano facilmente irretire da ex mujaheddin divenuti imam abbracciando la jihad da chi interpreta in maniera perversa il Corano. Una sorta di versione delle università telematiche, con la differenza che questi “maestri” non formano avvocati, ingegneri o professori, bensì terroristi. Il sistema non è però molto diverso. Indicazioni date via web, materiale informativo al quale si può facilmente attingere, “maestri” che tengono lezione tramite canali You Tube o grazie a collegamenti Skype.
Questa realtà è da anni in forte crescita ma il mondo occidentale sembra pericolosamente sottovalutare. Eppure, nel mirino dei terroristi ci sono le più grandi città americane seguite da Inghilterra, Francia e altre nazioni europee. Esiste anche un elenco dei bersagli da colpire, pubblicato da una rivista online, strumento dell’organizzazione terroristica, che indica anche il momento e le modalità, dando preziose indicazioni a chiunque volesse costruire da sé un’autobomba.
I due fratelli dell’attentato alla maratona di Boston erano ceceni, ma avrebbero potuto essere francesi, tedeschi o italiani, come nel caso di un siciliano convertitosi all’Islam radicale che anni addietro mise un rudimentale ordigno esplosivo alla base di un monumento archeologico nella valle dei templi di Agrigento. Un episodio sottovalutato ma che avrebbe meritato un’attenta riflessione. Si contano molte organizzazioni che fanno proseliti con i nuovi strumenti di comunicazione, come nel caso dei social network, ma che si avvalgono anche di uomini pronti a spostarsi da un capo all’altro del mondo per organizzare cellule ben addestrate e strutturate in modo tale da poter agevolare l’ingresso e l’inserimento di altri terroristi che a volte arrivano sotto le false spoglie di migranti che fuggono da guerre e carestie.
Intorno al 2005, quando presentai alla locale Procura un dettagliato esposto in materia di maltrattamento di minori ed altro, al quale fece seguito una nota portata a conoscenza di ben altre istituzioni, ebbi modo di approfondire gli aspetti legati al fenomeno dell’immigrazione.
Avevo scoperto l’esistenza di due diverse organizzazioni dedite al traffico di esseri umani, una delle quali avrebbe dovuto attirare particolarmente l’attenzione degli organi inquirenti. Purtroppo la procura locale archiviò prontamente il caso che soltanto grazie ad altri organi venne seguito per aspetti diversi da quelli relativi al maltrattamento dei minori e agli eventuali reati commessi nella circostanza. Peccato, gli inquirenti si erano lasciati sfuggire due possibilità. La prima, quella di portare alla luce il malaffare degli illeciti e delle irregolarità nella gestione dell’accoglienza dei migranti, così come ha fatto Repubblica con un inchiesta giornalistica lo scorso maggio; la seconda, certamente più importante, quella di far luce sulle organizzazioni criminali che gestiscono la tratta umana e sui contatti con il terrorismo internazionale. Ma sono trascorsi gli anni e ancora oggi, in quella desolata landa del Sud Italia, o forse del Nord Africa, si preferisce tenere gli inquirenti impegnati a perseguire gli autori di reati minori legati ad una clandestinità spesso non voluta. Cambiano i vertici dei dicasteri competenti, ma non cambiano le strategie o pseudo tali. Che c’entri qualcosa il Gattopardo e quel suo “tutto cambia affinchè nulla cambi”? Forse sì, vista la località geografica della landa e i personaggi – più o meno noti – che continuano a calcare la polvere delle vie di gattopardiana memoria.
Nell’aprile del 2013, l’indagine diretta dal sostituto procuratore di Bari Renato Nitti, porta alla scoperta di una cellula di matrice islamista con base in Italia (Puglia, Lombardia e Sicilia) e in Belgio, in stretto contatto con il terrorismo internazionale, documentando “la diffusa attività di proselitismo e di indottrinamento di nuovi affiliati, anche con documenti audio-video incitanti alla jihad e ad azioni suicide in occidente e nelle ‘zone di guerra’.
Tra gli arrestati, con l’accusa di associazione di terrorismo internazionale e istigazione all’odio razziale, anche l’ex imam di Andria. La cellula terroristica, era anche caratterizzata da un acceso antisemitismo. Un argomento che tratteremo presto poiché i due fenomeni sono strettamente correlati e paradossalmente ha dei punti in comune con un certo estremismo politico, in teoria acerrimo nemico, con il quale sembra quasi sia stata sancita una sorta di tregua che andrebbe meglio analizzata.
Per il momento limitiamoci a quegli imam che interpretano in maniera perversa il Corano e ai loro allievi.
La nuova frontiera del terrore sembra essere l’Africa occidentale, interessata da un costante aumento di presenze legate al terrorismo internazionale. Un fenomeno alimentato dalla fede nel fondamentalismo islamico che ha trovato nelle gesta di Al Qaeda, e nelle strutture collegate, i mezzi per diffondere il terrore in tutto il continente africano contando sull’adesione di migliaia di giovani facilmente impressionabili e pronti ad abbracciare la jihad. In un territorio sconvolto da ribellioni dovute al malessere delle popolazioni locali, dopo aver abbattuto i regimi dittatoriali che da anni – se non da decenni – governavano quei paesi, si è assistito al disinteresse da parte di quelle nazioni che avevano condannato giustamente le dittature favorendo così l’insediamento di terroristi terrorismo provenienti dal Medio Oriente. Le stesse nazioni che una volta raggiunto l’obiettivo di rompere discutibili alleanze militari ed economiche, abbandonarono a sé stessi quei popoli in nome dei cui diritti si erano anche fatte le guerre.
Emblematico il caso della Libia, dove nelle mani dei terroristi potrebbero essere finite sia le armi provenienti dall’arsenale segreto della CIA individuato nel Midwest Depot, sia quelle che Gheddafi ordinò di mettere a disposizione dei cittadini, nella vana speranza che il popolo le usasse per difendere il regime, e che oggi vediamo sparse da Timbuctu alla Nigeria. Armi micidiali e sofisticate come i missili anticarro e quelli terra aria, oltre agli immancabili AK-47, compreso quelli di ultima generazione.
Miseria e abbandono dei minori, permettono ai Mallams africani (studiosi islamici) di farsi “consegnare” gli adolescenti con la scusa di spiegare loro la fede islamica. Nessuna legge dà indicazioni sulle qualità e sulla conoscenza della dottrina che i Mallams devono possedere per essere considerati tali, di conseguenza chiunque può improvvisarsi e definirsi un Mallams.
Sevizie, violenze sessuali e altri abusi e forme di sfruttamento da parte dei Mallams, fanno di questi adolescenti degli “arrabbiati” con il mondo. Una precondizione necessaria per chi dovrà trasformarli in perfette macchine per seminare morte e terrore.
Al-Shabaab, AQIM, BH, Ansaru et al, Boko Haram, sono soltanto alcune delle sigle alle quali aderiscono combattenti di tutto il mondo. Una guerra senza confini che va dai sunniti in perenne scontro con gli sciiti appoggiati da Teheran; alla Siria dove accanto (ma spesso in lotta contro) la popolazione che si ribella ad Assad ci sono appartenenti alle formazioni islamiche più fondamentaliste contrapposte ai combattenti inviati da Teheran in soccorso di Assad; ai Mujaheddin delle stragi in Iraq, per arrivare al Mali e alla Nigeria. Al di sopra di tutte le organizzazioni, quella considerata, e forse a ragion veduta, la più temibile: Al Qaida!
Bosnia-Erzegovina
Del fenomeno tanto complesso e radicato che ha portato alla nascita di mini Stati sharia (ad esempio in Bosnia con Gornja Maoča e Novi Pazar), abbiamo già scritto in passato, narrando della rete nata fin dai tempi della guerra dei Balcani (1992/95), quando molti paesi islamici offrirono ai bosniaci assistenza finanziaria e militare, inviando migliaia di guerriglieri mujaheddin a combattere e contrastare le ambizioni espansionistiche della Serbia di Slobodan Milosevic e conclusasi con l’Accordo di pace di Dayton del 1995, che pose fine ai combattimenti. Finita la guerra, molti jihadisti non lasciarono la Bosnia e grazie ai copiosi finanziamenti ottenuti dal governo saudita, con la costruzione di centri di educazione religiosa, promossero l’Islam, anche nelle sue forme più estreme ed intolleranti.
L’Arabia Saudita, nonostante le prove del coinvolgimento in operazioni di finanziamento e di supporto logistico a militanti islamici radicali, ha sempre negato ogni addebito.
Ricondurre il fenomeno terroristico alle dimensioni o alle motivazioni delle singole organizzazioni eversive sarebbe un errore. Le passate esperienze avrebbero da tempo dovuto far comprendere agli operatori del settore, come esistano delle vere e proprie centrali del terrore che vanno ben al di là della fede o delle rivendicazioni dei singoli gruppi, i quali si trovano ad unire le sinergie per combattere un nemico comune o trarne profitto, come nel caso della criminalità organizzata. Prova ne siano le alleanze tra gruppi ultranazionalisti albanesi kosovari, wahabiti serbi e bosniaci e i rapporti degli stessi con il crimine organizzato.
Per meglio comprendere quanto siano importanti i Balcani, basta pensare al fatto che la mente che partorì gli attacchi del 11 Settembre e alcuni tra i dirottatori e i piloti, combattevano nei Balcani negli anni novanta.
Dei sette personaggi chiave dell’11 Settembre, almeno cinque avevano combattuto o erano stati presenti, in Bosnia negli anni novanta. Lo stesso rapporto della commissione dell’11 Settembre riferisce la presenza di Khalid Sheikh Mohammed, Khalid al Mihdhar, Nawaf al Hazmi in Bosnia. La presenza di Bin al Shibh risulta invece dalle dichiarazioni della sposa di un mujaheddin bosniaco, Regina Kreis alias Doris Gluck, interrogata dai servizi tedeschi; un punto sul quale la commissione dell’11 Settembre aveva taciuto. Della presenza di Mohamed Atta si sa grazie a un medico militare francese, Patrick Barriot, testimone al processo contro Milosevic nel 2005, che ha riferito l’informazione a sua volta ricavata dai servizi francesi, tramite un dossier governativo bosniaco proveniente da Banja Luka.
Tra il 1992-1995 Khalid Sheikh Mohammed si trovava in Bosnia. Combatteva nelle file del battaglione d’élite El Mujahid, guadagnandosi la cittadinanza bosniaca. KSM aveva lavorato anche per “Egypitska Pomoc”, una Ngo egiziana operante in Zenica, Bosnia e nel 1995 ne era poi diventato il direttore. .
Nel 1993, Bin Laden aveva incaricato al Zawahiri per l’organizzazione delle operazioni nei Balcani. Nel 1994, al Zawahiri si era stabilito in Bulgaria da dove coordinava le attività finanziarie e operative in Bosnia e Balcani.
Dalla metà del 1991 al 1996 le Ngo collegate a Bin Laden avevano riversato miliardi di dollari in Bosnia per i rifornimenti di armi.
Bosnia-DOBOJ, xx/yy/2008 The Philadelphia Enquirer – Un ex combattente di al Qaeda accusa una Ngo saudita. –
Per anni l’Arabia Saudita ha decisamente negato di aver finanziato e supportato logisticamente gli islamisti militanti che attaccavano obiettivi occidentali. Ma quella affermazione oggi è contrastata da quella di un ex combattente mujaheddin operativo di al Qaeda, che ha testimoniato davanti al tribunale internazionale dell’Onu per i crimini di Guerra, riferendo che la sua unità era finanziata dalla Ngo “Saudi High Commission for Relief of Bosnia and Herzegovina”. Ali Ahmed Ali Hamad, ex guerrigliero di alQaeda, ha confermato tutto all’organo di informazione “The Inquirer” in una intervista in Doboj, nel centro dei Balcani.
Le dichiarazioni di Hamad durante il processo, sono state accurate e confermate davanti la corte dell’Onu. Egli afferma che la Saudi High Commission, un’agenzia del governo saudita, e altre Ngo islamiche, supportate da al Qaeda hanno guidato unità operative, che hanno commesso atrocità inaudite.
Particolarmente interessante il legame tra gruppi fondamentalisti islamici che operano in territorio bosniaco e la città di Vienna. La sede principale dei wahhabiti bosniaci è Vienna. Molti di coloro che vivono a Gornja Maoča Sangiaccato, in particolare nella città di Novi Pazar hanno collegamenti con i wahhabiti bosniaci di Vienna.
Ismar Mesinovic, è morto credendo di essere un martire del jihad in Siria, verso la fine del Gennaio 2014.
Faceva l’imbianchino, con casa a Longarone. Forse ha portato il figlio con sé, in Teslic, roccaforte del wahabismo, con Zenica, Zepce, Kalesija, Travnik, Bugojno, Zavidovici, Maglaj, Tesanj, Brcko, Sarajevo, Mostar, Konjic, Jablanica, Sanski Most, Doboj e Istok. Cercava l’Islam, spiega la cugina Dada Mesinovic. Ismar era a Belluno dal 2009, il padre era morto nella guerra in Bosnia e lui era fuggito dalla sua patria durante la pulizia etnica dei serbi. Frequentava la moschea di Trento e secondo alcune indiscrezioni probabilmente anche il centro islamico di Gardolo. L’Imam è un medico.
Anche Mirsad Bektašević (classe 1987), alias Maximus, divenuto cittadino svedese nel 2005 voleva morire da martire in Saraievo, ma fu arrestato, prima di farsi esplodere, con una cintura contenente 20 chili di esplosivo. Fu condannato a più di 18 anni di prigione, scontati in Svezia, frequentando la moschea Bellevue in Gothenburg. Anche lui orfano di padre, era emigrato in Svezia con la madre per evitare l’assedio di Saraievo, ma vi tornò per morire da martire, senza riuscirci.
Anche Arid Uka (classe 1990), addetto aeroportuale, il 2 marzo del 2011 sparò, uccidendoli, contro due militari americani che si preparavano a partire per l’Afghanistan. Il giovane era nato in Kosovo, Kosovska Mitrovica, suo padre è un imam. Mentre sparava ai soldati gridava che Allah è grande, come gli avevano insegnato a “scuola” di religione, in Bosnia.
Nel 2007, tre fratelli, albanesi di Macedonia, organizzarono un piano per entrare nella base militare americana di Fort Dix e fare una strage. I tre fratelli Dritan Duka, Shain Duka e Eljvir Duka, tutti poco più che ventenni, con piccoli precedenti, con Mohamad Ibrahim Shnewer (22), un palestinese che guidava taxi e Serdar Tatar, un turco pizzaiolo, volevano uccidere quanti più americani possibile; Agron Abdullahu, kosovaro, era il fornitore delle armi e lavorava in un market in New Jersey. Tutti gli imputati sono musulmani dalla nascita. Nella cella di Abdullahu, in Philadelphia, gli agenti troveranno una incisione raffigurante un mitragliatore kalashnikov AK-47 che spara sulle lettere “FBI” e diversi graffiti che inneggiano al movimento di liberazione kosovaro Uck.
Proprio all’Uck si erano rivolti, due giornalisti del Mirror, nel Dicembre del 2003, facendosi passare per terroristi dell’Ira, che volevano comprare dell’esplosivo. Il loro intermediario era stato un trafficante di armi. Fu raggiunto un accordo tra i finti terroristi dell’I.r.a. e Hulji (musulmano addestrato nei campi per terroristi) per acquistare del Semtex. Hulji aveva preteso a garanzia del buon fine dell’operazione un deposito “umano” e l’equivalente di 7.500 sterline, in euro. Allora Dominic Hipkins, uno dei due finti terroristi, fu trattenuto. Il giornalista restò prigioniero, dinanzi alla residenza diplomatica britannica in Pristina fino a scambio avvenuto, per quattro giorni.
Ma i reduci della guerra di Bosnia e Kosovo non sono rimasti tutti nei Balcani. Nell’Agosto del 2008, a Bologna, è stata sgominata una cellula di Al Qaida che addestrava kamikaze per l’Afghanistan. Tra i cinque arrestati c’era anche un reduce delle milizie bosniache di Allah: quelli addestrati a morire, nel nome del profeta. Per la cellula terroristica, secondo quanto è emerso, l’Italia era una scuola dove imparare a morire in azioni terroristiche estreme in Irak e Afghanistan. Il capo è il tunisino Khalil Jarraya: il «colonnello». Catturato a Faenza, Jarraya, 39 anni, era sposato con una bosniaca e faceva l’imam. Predicava a modo suo, come i suoi colleghi che nel 2010, vengono sorpresi dalle forze di sicurezza bosniache durante l’operazione Luce, contro l’estremismo islamico radicatosi nel cuore dei Balcani, in Gornja Maoča . Qui venti famiglie – poco più di cento persone – vivono secondo i dettami di una delle correnti islamiche più radicali, il wahabismo sunnita, applicando il Corano alla lettera. Qui non esiste lo Stato. Niente telefoni, televisione, mezzi di comunicazione in quel luogo, totalmente isolato dalla realtà, dove vive una comunità che riconosce solo il Corano, la Sharia. Tra gli arrestati ci sarebbe anche il leader del villaggio, Nusret Imamovic, l’imam. Secondo gli ufficiali della polizia federale, che come detto tenevano da tempo sotto osservazione il villaggio, è possibile che Gornja Maoča fosse una vera e propria palestra per estremisti, un campo d’addestramento per preparare i combattenti ad attaccare obiettivi occidentali. Due anni più tardi, nell’ottobre del 2011, Mevlid Jasarevic, giovane wahhabita, passando da Gornja Maoča , si porta dinanzi alla ambasciata americana contro la quale spara 105 colpi di kalashnikov ak47. Verrà arrestato dopo circa un’ora. Durante la cattura, gli vengono rinvenute due granate, nelle tasche del giaccone, forse voleva farsi saltare in aria con la polizia, ma viene fermato prima. Riscuoterà la solidarietà dei suoi maestri e dei suoi compagni nel Sangiaccato in Novi Pazar – Serbia.
Qui, nel 2008 quindici membri del movimento religioso islamico Wahabita erano già stati arrestati con l’accusa di terrorismo e possesso illegale di armi. Il wahabita, Senad Ramovic, rimase feriti nella sparatoria. Molti mujaheddin erano rimasti in Bosnia dopo la guerra, diventando mentori e imam nelle madrasse bosniache e nei campi di addestramento frequentati dai giovani di Bosnia. Ma Senad Ramovic, non ha fatto la guerra, ha fatto il bandito. Nel 1999 aveva trafficato, schiavizzato e costretto alla prostituzione una cinquantina di lucciole. Le donne, tutte dell’est, erano segregate, seviziate e torturate in ogni modo. Gli sfruttatori, tra cui i fratelli Samir e Senad Ramovic, erano stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata all’induzione e allo sfruttamento della prostituzione. Dopo questa esperienza Ramovic vide la luce, quella di Allah, e si convertì!
Dall’Africa ai Balcani, dall’Europa agli Stati Uniti, la bandiera del terrore porta le insegne di un’Islam radicale, fondamentalista e violento. Cosa hanno in comune i terroristi? Spesso si tratta di soggetti naturalizzati in nazioni diverse da quelle di provenienza. Oppure, figli o nipoti di immigrati che, a volte, emarginati nel paese nel quale vivono, trovano nella jihad la ragione della rivalsa, la vendetta verso un occidente che non capiscono e che non capisce loro. Allievi di un cattivo maestro.
Sono i nuovi predicatori, i cattivi maestri dalla pelle chiara, che la morte di Ismar Mesinovic aveva portato prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica. Ma si tratta anche di figure ben descritte dall’autore dei libri “Madrasse” e “Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa”, Antonio Evangelista, funzionario di polizia, esperto di terrorismo religioso, che già 5 anni fa affrontò una tema che soltanto oggi ottiene l’attenzione, seppur ancora non adeguata, da parte dei grandi media.
Quello che descrive Evangelista riguarda alcuni cattivi maestri, che hanno accolto e trasformato gli orfani di guerra, manipolandoli per scopi inconfessabili.
“L’estremismo islamico che ha piantato le sue radici nei Balcani, in Kosovo, in Bosnia, è strisciato fino a noi e si nasconde nelle pieghe purulente di una crisi morale e sociale divenuta il primo alleato del radicalismo religioso islamico. È nato così un ceppo islamico europeo – dice Evangelista nel suo libro – i cui appartenenti hanno i capelli biondi, gli occhi azzurri, sono alti e si confondono con le popolazioni che li ospitano. Sperimentano la convivenza con il nemico e cercano nuovi alleati”.
Il motivo ispiratore del libro ” MADRASSE. Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa”, trae origine dalle rovine delle recenti guerre balcaniche e si concentra sulla sorte degli orfani di guerra, proprio come il nostro imbianchino di Belluno. Tra questi animi confusi, personaggi privi di scrupoli, individuano i futuri “martiri”.
Il libro di Antonio Evangelista, per lungo tempo testimone attento e scrupoloso delle guerre balcaniche, nella parte iniziale, fornisce uno scenario storico particolarmente interessante, per dimostrare che l’incitamento alla “guerra santa ” e la predicazione basata sull’interpretazione perversa del Corano, affondano le radici nel passato. Illustra le tecniche e le procedure per plagiare e ridurre all’obbedienza assoluta. A quella trama, a quei personaggi e ambienti, la vicenda dell’imbianchino bosniaco di Belluno fa da eco, impietoso e foriero di peggiori e maggiori tragedie.
Durante la lettura, prende forma la vicenda umana della vittima innocente. Ciò che emerge è tragico, crudele, certamente sconosciuto al grande pubblico, ma vero, perché questo e altro avviene nelle così dette “guerre civili”, che civili non lo sono affatto, anzi. Quanto descritto nel libro, rappresenta la famosa ” punta dell’ iceberg”. Gli avvenimenti bellici che accompagnano il protagonista Gjorgje Kastrati si sono realmente verificati e la tragedia di Belluno ne è una triste riprova, specifica e impietosa. Si scopre così una disponibilità psicologica, una volontà nell’apprendimento, una sopportazione dei sacrifici e del dolore fisico del futuro martire, che è strumentale alla necessaria determinazione per offrirsi al “martirio”.
“Madrasse” dunque non è un libro di pura fantasia. E’ un documento sul terrorismo di oggi e sui personaggi che lo ispirano, lo organizzano, lo guidano, lo esaltano attraverso alcune verità e molte menzogne. La conclusione, geniale, nulla toglie alla preoccupazione dell’allarme che Madrasse sottolinea e rilancia.
“Madrasse”, nel suo insieme, indica al mondo occidentale un nemico preparato e determinato, ma sembra anche formulare una domanda: esiste la consapevolezza che sarà sempre più difficile riconoscere gli avversari, i “terroristi suicidi bianchi”, i nostri vicini di casa: imbianchini, pizzaioli, tassisti, idraulici, muratori.
I cattivi maestri, confidano e usano quelle esperienze di scacco, di sudditanza, di umiliazione, di frustrazione, di “oggettivizzazione”, vissute da molti “martiri”, che in questo modo costruiscono il loro riscatto, mietendo vittime innocenti, loro per primi. Su queste giovani menti, plasmabili e suggestibili, questo tipo di insegnamento ha un effetto devastante, rendendo il comportamento violento una condotta appresa, codificata e ritualizzata, tutt’altro che socialmente disapprovata.
Così nasce nella mente dello scrittore, Gjorgje Kastrati, divenuto in Madrassa per “Adem Suliman”, del quale Evangelista racconta la tragica storia, simbolo e a testimone di questo orribile divenire.
“Gjorgje è un orfano di guerra, giunto nella scuola coranica quando è ancora bambino. La madre è morta vittima dello stupro bellico: il padre è caduto in guerra. Dopo tanto girovagare per ospedali, fondazioni e associazioni di vario genere, finisce per strada, sporco, solo, preda di cani e ratti a contendersi con questi qualche misero avanzo di pane o di carne. Ma un giorno incontra il maestro, che lo raccoglie come una cosa abbandonata per terra, trascurata da tutti…un bambino senza famiglia in cerca di affetto, di aiuto, di calore umano…in Bosnia, nella madrassa di Zenica, nell’animo, Adem cova l’inferno… si nutre la rabbia e la frustrazione del futuro martire…sino a farla esplodere, nel momento giusto, nel posto giusto.
Utilizzando una sua esperienza e ricorrendo allo strumento narrativo, Evangelista informa il lettore, “su un fenomeno silenzioso, che impone a ogni europeo un’attenzione severa a ciò che si sta muovendo nei Balcani in particolare”.
E questo è solo uno degli innegabili meriti del suo lavoro. Cattivi maestri che operano nelle Madrasse, nel web o nelle carceri, come dimostra l’arresto di Mehdi Nemmouche, cittadino francese, autore della strage al museo ebraico di Bruxelles, che ha ricordato ai francesi Mohamed Merah, che nel marzo 2012 uccise tre paracadutisti e tre bambini ebrei con il loro insegnante, mentre qualche giornalista più attento di altri, finalmente si accorgeva di come internet, i social network e l’area dei Balcani, rappresentino il denominatore comune del terrorismo islamico. Mohamed Merah aveva infatti un profilo Facebook e poco prima della strage si era recato in Bosnia-Erzegovina per assistere a una delle tante lezioni di Mohammed Seifuddin Civcije.
E mentre sto scrivendo questo articolo, ricordando l’accurata descrizione dei “cattivi maestri” fatta da Evangelista nei suoi libri, il pensiero mi porta alla rivista portavoce dell’organizzazione terroristica, reperibile in rete in formato Pdf, che invita gli estremisti islamici a compiere attentati spiegano loro come realizzare esplosivi in casa, dando precise indicazioni sui bersagli da colpire e il momento in cui farlo. Un brivido mi corre lungo la schiena…
Gian J. Morici