Forse non esistono storie giuste, o non sono giuste tanto quanto le vorremmo. Ma sicuramente ci sono storie che sono più sbagliate di tante altre. Storie che il più delle volte nascono da scelte e comportamenti coerenti con la nostra personalità, dal nostro carattere. Altre volte, le nostre storie sono influenzate dall’ambiente in cui viviamo, dalle persone che ci circondano, da ciò che la nostra società ci spinge a fare.
Francesco Paolo Oreste con il suo libro “Dieci storie sbagliate più una” ci accompagna in quel mondo che fingiamo di non vedere, quasi che il volerlo ignorare ci permettesse di esorcizzarlo ed allontanarlo dalla nostra vita quotidiana.
Un mondo che con le sue storie esiste e continuerà ad esistere a prescindere dalla nostra determinazione a volerlo ignorare. Una realtà di violenza, dolore, di debolezze umane, raccontate da chi questa realtà la vive quotidianamente senza riuscire ad assuefarsi a tanta miseria umana. Un mondo raccontato da un poliziotto che senza ricorrere all’uso di preziosismi linguistici tramite i personaggi delle sue storie ci trasmette le emozioni della sua Napoli. Un libro del quale vi anticipiamo la prefazione e una nota, riportata a margine, che vi invitiamo a leggere attentamente.
Prefazione
Il canto dei vinti
C’è un canto abruzzese, rielaborato da Enrica Bonaccorti e portato al successo da Domenico Modugno. Un canto di rabbia e speranza, un grido disperato e innamorato rivolto alla terra che si ama: “Amara terra mia”.
Amara e bella la nostra terra, amaro e bello il libro di Francesco Paolo Oreste, “Il poliziotto barricadero” che ho imparato ad amare non solo per suoi scritti, ma per suoi gesti quotidiani, per la lotta politica, per il suo modo di concepire la divisa: sempre e comunque a servizio della gente. Un uomo di stato nel senso più vero.
Francesco con dieci storie sbagliate più una ci fa entrare in un mondo, il suo mondo, il nostro mondo, quello dell’Italia da fare, quello dei “Sudici” e di una realtà talvolta dimenticata, talora volutamente e artatamente ignorata.
Un libro che nasce come un’esigenza: rimettere al centro gli ultimi, con le loro debolezze, i loro affanni, la loro illegalità. Seducente il linguaggio usato, più vicino alla lingua parlata che a quella scritta, comunicativo, semplice e diretto. Uno scritto che sembra un flusso di coscienza, una voce aspra con una ritmica incalzante che stimola il nostro io. Leggendo queste pagine pare di vedere finalmente illuminate, dagli abbaglianti di un’auto, le buche di una strada solitaria in una notte solitaria. In questi fossi, in queste crepe d’asfalto Francesco s’immerge, ci fa immergere, ci fa sporcare con il fango della vita quotidiana. Con la sua scrittura, con la sua lingua fluida, ci guida, con un suono pieno e potente, nelle viscere di un hinterland dimenticato. E tutto ciò senza ergersi ad intellettuale o giudice di qualcuno/qualcosa ma con l’atteggiamento delicato di chi affianca e quasi coccola i suoi protagonisti di queste storie di confine.
L’autore con la sua penna cerca di rendere meno sola questa umanità reietta e indifesa, fatta di uomini, donne, bambini e “donne bambine”. In questo modo, per una volta, gli ultimi, i desperados di una mala Napoli, con la loro solitudine, diventano protagonisti di storie borderline, ma pur sempre protagonisti. Una sorta di canto corale degli emarginati e degli oppressi, di una maggioranza silenziosa fatta di ossa e di carne che le condizioni di vita subalterne rendono minoranza. Insomma un libro sugli ultimi che, forse, non saranno mai primi su questa terra.
Francesco parla di Napoli, della provincia di Napoli ancor più bistrattata perché periferia estrema di un mondo già periferico. Mette al centro del suo vomitare parole, la violenza dell’ambiente piuttosto che dell’anima. In questo bel libro nessun protagonista, nessun ragazzo, uomo, donna può essere considerato crudele. Anche i personaggi più inquietanti appaiono chiaramente delle vittime più che dei carnefici.
Questo scritto può essere considerato come una sorta di via Crucis con dieci stazioni più una in cui gli ultimi diventano la croce da ricordare sempre e comunque. Una sorta di via della croce laica, fatta di carne viva, di ferite, come cammino per ritrovare il sapore della legalità e della giustizia.
Francesco mette le mani nel ventre di una città molle, di una periferia malata, mettendo al primo posto i vinti, perché la bellezza degli sconfitti supera la fierezza di qualsiasi vincitore.
L’autore sceglie la via della croce laica per ritrovare quel senso di smarrimento in un paese di emigranti. Dove anche quando si resta, talvolta, si tenta di non vedere, di emigrare con gli occhi e con la mente.
Questo libro ci fa sporcare le mani, mette la giusta dose di speranza, un misto tra desiderio di farcela e tristezza, mai sconfitta.
Grazie Francesco per averci regalato queste belle pagine.
Tonino Scala
Editing a cura di Marina Indulgenza
N.B. Fatti e personaggi di questo libro sono inventati. Ma se qualcuno di essi vi è familiare, se pensate di riconoscere qualcuno o qualcosa, allora siete davanti ad una storia sbagliata. In quel caso, se è possibile cercate di essere la persona giusta al momento giusto.