Finalmente un’inchiesta condotta da Repubblica.it porta alla ribalta gli illeciti e le irregolarità nella gestione dell’accoglienza dei migranti che dopo aver rischiato la vita per abbandonare il proprio paese alla ricerca di un futuro migliore, passano dalle mani dei mercanti di uomini a quelle di chi sulla loro pelle lucra offrendo “accoglienza”.
Un business che va dalla mancata erogazione del “pocket money”, la paga giornaliera ai richiedenti asilo, allo sfruttamento del personale addetto ai servizi. “È quanto emerge da un rapporto riservato rimasto nei cassetti, o meglio, nei computer perché si tratta di file Excel, del ministero dell’Interno, mai reso pubblico, di cui Repubblica.it è entrata in possesso” – riporta l’articolo del noto quotidiano che narra della “presenza di armi bianche, di scarafaggi nei container, mancanza di docce e di acqua calda, servizi igienici in comune per uomini e donne, lavandini otturati, rubinetti e vetri rotti, pulizia scarsa, bambini senza assistenza pediatrica. Sono alcuni degli esiti di un doppio monitoraggio che le organizzazioni del progetto Praesidium, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, l’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), Save The Children e la Croce Rossa hanno realizzato nel corso del 2013 su 18 centri italiani, nove Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e nove Centri di identificazione e di espulsione (Cie), su mandato ispettivo del Viminale”.
Affari illeciti per milioni di euro che lo Stato ha da sempre in qualche modo coperto, nonostante non fossero mancate denunce circostanziate che avrebbero dovuto quantomeno portare a severi controlli per evitare che la tratta umana continuasse anche dopo gli sbarchi. Invece, come troppo spesso accade, complicità politiche e anche a livello istituzionale con chi avrebbe avuto il dovere di indagare ed impedire gli illeciti, hanno fatto sì che sulla pelle di tanti poveri disgraziati a lucrare non fossero soltanto scafisti e criminali d’ogni sorta ma anche “benefattori” con tanto di giacca e cravatta e spesso elogiati ed accolti dalle autorità come fossero stati esempi da seguire.
Intorno la metà del 2000 mi trovai a prestare la mia opera nella qualità di educatore presso un centro per minori al quale era affidata anche l’accoglienza di minori extracomunitari giunti da noi clandestinamente e non accompagnati da adulti.
Un impegno che durò circa un mese, poiché più che il compito di rieducare i ragazzi ospiti mi resi immediatamente conto di come in verità ci venisse affidato quello di guardie penitenziarie senza che ne avessimo titolo e capacità e senza, soprattutto, che vi fossero condannati da un tribunale su cui vigilare. A chi dirigeva la struttura importava poco o nulla dei ragazzi che ne erano ospiti. Quello che contava era che stessero buoni, dessero poco fastidio e che non si allontanassero dalla comunità. Certo, un ragazzo che si allontanava rappresentava una perdita economica considerato che lo Stato pagava lautamente la permanenza degli “ospiti”. La conseguenza fu il rassegnare le dimissioni e presentare un dettagliato esposto presso la locale Procura narrando di come vivessero i minori in questione all’interno della comunità e documentando lo stato igienico-sanitario dei luoghi.
A nulla servirono le numerose fotografie scattate all’interno dei locali che dimostravano come i ragazzi fossero costretti ad andare a dormire indossando giubbotti e berretti di lana nonostante i locali fossero provvisti di riscaldamento. Che forse il famigerato “freddo siciliano”, specie considerato che eravamo in collina, fosse tale da rendere insufficienti i riscaldamenti? Perché il gas si pagava, a dimostrarlo c’erano le fatture… Inutile evidenziare come la notte gli ospiti venissero rinchiusi in immobili in alcuni dei quali non era presente neppure un educatore (o carceriere?). Sbarrare le uscite chiudendo a chiave anche quelle di sicurezza costava certamente meno che pagare qualcuno che vigilasse. E se fosse scoppiato un incendio? Pace all’anima loro, del resto ne muoino tanti durante il viaggio… Affinchè non potessero fuggire, gli ospiti della comunità la sera venivano privati anche delle scarpe. E con le stesse, anche di ogni diritto. Basti pensare a una dozzina di ragazzi extracomunitari arrivati un paio di giorno prima del Natale, che, come per miracolo, essendo stati “folgorati sulla via di Damasco”, da musulmani nell’arco di poche ore divennero cristiani e parteciparono “volentieri” agli incontri con i vertici della Chiesa e alle messe natalizie.
I pranzi “luculliani” serviti nella comunità venivano preparati da personale che, prestando servizio sostitutivo civile, non caricavano di ulteriori costi la struttura. Autentici chef del “non avevo mai cucinato prima”, ultimo best seller tra i ricettari culinari… Ma tanto che importava? Se avevano superato i viaggi nel deserto, le traversate e le violenze, poteva forse ucciderli un piatto di pasta in bianco scotta e senza sale? Certamente no. Né poteva morire un ragazzo che con una gamba gonfia a seguito di una lesione venne visitato da un medico solo tre giorni dopo, quando essendone io venuto a conoscenza mi recai in direzione minacciando di denunciare il fatto se immediatamente non si fosse provveduto a far visitare il giovane immigrato. E se – come mi fu riferito – tra gli ospiti c’era qualcuno di loro affetto da patologie infettive, gli altri non erano dotati di anticorpi sufficienti ad evitare il contagio? Un paio di casi di epatite virale (e uno di AIDS morto dopo aver lasciato la struttura antecedentemente al mio ingresso nella stessa), non sembravano turbare la quotidianità e il sonno degli operatori che pure vivevano a stretto contatto con gli ospiti.
I controlli c’erano. Già, ma chissà come mai mi ero accorto che il giorno prima che arrivasse una visita, la comunità era in fermento. Grandi pulizie di primavera (anche se si era a dicembre), ragazzi ben curati e vestiti, cucine in ordine e menù da ristorante menzionato dalla Guida Michelin… Questo e tanto altro ancora accadeva in quella comunità, così come presumibilmente nelle altre. A leggere l’inchiesta di Repubblica mi torna in mente quello che succedeva allora. La Procura all’epoca archiviò in tempo record l’esposto che avevo presentato. Del ricorso all’opposizione che prontamente presentai, non ebbi nessuna notizia. Né tantomeno qualcuno mi denunciò per calunnia, cosa che sarebbe stata normalissima se non ci fosse stato il rischio di vedersi presentare in un aula di tribunale testimoni e prove. Senza aggiungere che della vicenda era stato portato a conoscenza l’UNAR e l’Ufficio di Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’archiviazione dell’esposto non mancò di suscitare lo sdegno dei funzionari di quest’ultimo, i quali, avendo copia della denuncia e relativa documentazione allegata, non trovavano alcuna spiegazione alle ragioni che avevano indotto gli inquirenti ad archiviare il caso. Spiegazioni che neppure io trovavo, o che forse preferivo non trovare, visto che non avrei potuto dimostrare i miei sospetti e avrei rischiato soltanto di pagare per aver detto quello che appariva chiaro agli occhi di tutti. Da allora cos’è cambiato? Molte cose sono cambiate. Io persi il lavoro a seguito delle mie spontanee dimissioni (del resto non avrei potuto far altro che dimettermi dopo aver presentato una denuncia contro i responsabili della comunità). Qualche senatore della Repubblica oggi non è più tale. I nomi degli ospiti della comunità, di qualche educatore e di qualcuno dei vertici della direzione non saranno sicuramente più gli stessi. Per il resto, basta leggere l’inchiesta di “Repubblica” per rendersi conto che la situazione è rimasta tale e quale…
E oggi come allora, lo Stato continua a coprire le nefandezze che spesso (non sempre) si nascondono dietro la faccia pulita della solidarietà e dell’accoglienza. Dovrei forse meravigliarmi di un dossier che giace nei cassetti del Viminale? Se si andasse a cercare bene, in qualche altro cassetto potrebbe giacere una vecchia denuncia presentata circa dieci anni fa…
Gian J. Morici