Sarà presentata il 25 gennaio alle ore 18 all’Atelier Bligny (Reggio Emilia), la mostra “Partigiani e Resistenti: i geni dell’antifascimo”, frutto di oltre un anno di raccolta di testimonianze in Francia e in Belgio. Un progetto, approvato e finanziato dalla Consulta per gli emiliano-romagnoli nel mondo, che ha visto coinvolti le Associazioni Fratellanza Reggiana di Parigi (capofila), Emilia-Romagna di Parigi e di Liegi ma anche il Laboratorio di storia delle migrazioni presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, l’ANPI Parigi e le Associazioni Jardins Numériques (Parigi) e Leonardo Da Vinci (Liegi).
Molto è già stato fatto in termini di ricerca storica sulla Resistenza nei singoli paesi, ma è ancora sottovalutato il ruolo che hanno avuto i migranti in un periodo che ha rappresentato le fondamenta della democrazia moderna. E’ proprio questa lacuna che il progetto “i geni dell’antifascismo” ha inteso iniziare a colmare, attaverso la raccolta di testimonianze – in forma audio, video e foto – di partigiani e resistenti che hanno ruotato intorno all’associazione Fratellanza reggiana di Argenteuil (Francia) e nella zona di Liegi/Genk (Belgio). La ricerca si è concentrata su persone che hanno vissuto in prima linea o in retroguardia la Resistenza all’estero e sui discendenti (figli/e, nipoti) per capire in cosa consiste l’eredità intellettuale ed etica lasciata alle generazioni seguenti. Oltre ad essere italiano di seconda o terza generazione, il fatto di aver avuto un genitore, un nonno, una nonna antifascisti ha lasciato tracce nel nostro modo di pensare e di concepire la società? Significativi in merito i risultati nei due Stati considerati in quanto mentre in Francia l’eredità è prevalentementemente etica e politica (la trasmissione della lingua e delle tradizioni italiane per molti discendenti sono una “ricostruzione” successiva), in Belgio è piuttosto il contrario, una sorta di tacita trasmissione di valori che è stata veicolata dall’italianità: figli e nipoti parlano perfettamente italiano e partecipano alla vita della comunità, pur sapendo molto poco di un periodo che i protagonisti hanno voluto dimenticare.
In tutto sono state intervistate 20 persone, equamente divise tra la Francia e il Belgio, decine di ore di registrazione riunite per ora in una ventina di “ritratti”, anche incrociati, dalla regista Chiara Zappalà e qualche centinaio di fotografie di Veronica Mecchia, di cui una quarantina solo stampate per questa prima mostra. Le interviste, concordate con il comitato scientifico diretto da Antonio Canovi, sono state condotte in loco dalle presidenti delle associazioni emiliano-romagnole (Simone Iemmi Cheneau, di Fratellanza reggiana, che fa parte anche dei testimoni, e Patrizia Molteni, del’Associazione Emilia-Romagna) o da un giovano storico, Valerio Timperi, vice-presidente dell’ANPI di Parigi.
Da subito si è sentita l’esigenza di privilegiare i racconti legandoli alle immagini. In questo sia Veronica Mecchia che Chiara Zappalà si sono rivelate discrete ma attente alla persona che avevano di fronte. Le foto, fatte in analogico (e non in digitale) non sono mai primissimi piani e sono stampate in formato volutamente ridotto perché lo spettatore si avvicini alla foto e quindi alla persona e alla storia che ha in sé. Veronica coglie i personaggi mentre parlano, mentre mostrano delle foto, mentre guardano o indicano un luogo, in altre parole fissa in un’immagine ferma il racconto, i gesti e le espressioni di quel racconto. Per chi conosce i testimoni, non c’è che dire: le foto sono autentiche e sincere. Lo stesso si dica di Chiara Zappalà, che ha filmato spesso a camera fissa ma tenendo conto dei cambiamenti della luce (bellissima in questo senso l’intervista a Gaby Crouin Simonazzi), dei momenti di tristezza, a volte di pianto, e di quelli orgoglio. Immagini chiare e nette che al montaggio la regista fa dialogare tra di loro (Ines e Gaby unite da Rino della Negra, uno dei 23 fucilati della tristemente nota Affiche Rouge; Mirella Ugolini e Giuliana Castellani intorno a Gina Pifferi, grande resistente reggiana, e alla Fratellanza di Argenteuil).
La lettura storica, che incrocerà i racconti con gli eventi, è ancora da fare proprio perché quello che interessava maggiormente è il divenire del racconto e della memoria, poco importa se luoghi e date o pezzi interi della storia sono riveduti e corretti a posteriori, quello che conta è il racconto, il suo valore “parabolico”, di messaggio etico e morale.
Anche i luoghi sono stati accuratamente scelti per restituire quello sguardo spaziale (oltre che temporale) della memoria partigiana migrante: gli interni ed esterni delle case (alcuni identici a quelli che si erano lasciati alle spalle in italia, come l’atelier del padre di Simone Iemmi), ma anche i luoghi di ritrovo come la sede dei garibaldini a Parigi, a pochi metri da dove abitava Gina Pifferi, i quartieri come Mazagran a Argenteuil o luoghi simbolici: i “terril” in Belgio, delle specie di montagne create dalle miniere in cui lavoravano gli italiani, visibili nelle panoramiche filmate da Chiara Zappalà, la stazione di transito di Drancy, da cui partivano i deportati verso la Germania.
Dopo l’Atelier di Bligny di Reggio Emilia, la mostra andrà ad Argenteuil e Parigi in febbraio-marzo e a Liegi in Aprile.