A definire così l’esito dello stupro usato come mezzo di guerra, Lauren Wolfe, direttore del Progetto Under Siege, che documenta l’incidenza di un fenomeno che in Siria ha raggiunto proporzioni catastrofiche.
Un disastro umanitario che a due anni dall’inizio della guerra pone seri interrogativi in merito alle possibilità di recupero post-conflitto.
Centinaia di migliaia di siriani sono fuggiti nei paesi vicini per sfuggire alla violenza. Una violenza che va al di là del conflitto tra fazioni armate.
Stando ai rapporti dell’International Rescue Committee, il sistema sanitario siriano è stato decimato ed è da tempo in atto una sistematica campagna per limitare l’accesso alle cure salvavita attraverso il bombardamento strategico e la chiusura forzata di strutture mediche. A questo si aggiungono i casi d’intimidazione, tortura e uccisione mirata di medici la cui unica colpa è quella di curare i feriti.
Caratteristica significativa e inquietante della guerra in Siria, lo stupro utilizzato come mezzo di guerra e che secondo indagini sui rifugiati in Giordania e Libano sarebbe tra le prime ragioni che hanno spinto i civili siriani ad abbandonare il paese.
“Molte donne e ragazze sono state aggredite in pubblico o nelle loro case, soprattutto da uomini armati. Questi stupri, a volte commessi da più autori, si verificano spesso di fronte a membri della famiglia “, afferma il rapporto. L’IRC ha anche citato casi di aggressioni in cui le donne e le ragazze sono state rapite, violentate, torturate e uccise.
Alla violenza si aggiungono i problemi culturali che vedono nello stupro il disonore per chi lo ha subito e per le famiglie. Le violenze subite vengono spesso taciute dalle vittime per timore di ritorsioni da parte dei loro assalitori, ma anche per timore di essere uccise dagli stessi membri della famiglia “oppressi dalla vergogna”.
Donne e ragazze stuprate, bambini sconvolti dalla violenza subita dalle proprie famiglie, saranno l’emblema di un paese che nei prossimi anni, a prescindere dalla fine del conflitto, dovrà fare i conti con il suo tessuto sociale e civile in brandelli, la sua base economica e le infrastrutture devastate e la popolazione sparsa in tutta la regione.
Se è pur vero quanto affermato dall’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) che in Turchia il personale specializzato è a disposizione per i profughi siriani e che i campi sono attrezzati e possono garantire condizioni di sopravvivenza accettabili, altrettanto vero è che manca il supporto professionale in adeguate condizioni di rispetto della privacy che permettano alle donne di parlare delle loro esperienze di violenze sessuali, perpetuando una cultura del silenzio che ostacola gravemente gli sforzi per affrontarlo.
L’UNFPA ha già formato operatori sanitari turchi per la gestione clinica dello stupro, tra cui la contraccezione d’emergenza, la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, e la raccolta di prove forensi, ma le questioni culturali, le barriere linguistiche e le difficoltà ad incontrare gli operatori in ambienti protetti, rendono assai difficile il ricorso delle vittime al supporto medico-psicologico e legale.
Donne e guerra
Un binomio che vede le donne, oltre che vittime delle violenze, anche protagoniste coraggiose dell’informazione.
È questo il caso di Jenan Moussa, reporter di guerra con sede a Dubai, Emirati Arabi Uniti, che a soli 29 anni ha già calcato i terreni più duri e pericolosi del mondo (Siria, Mali, ecc.). A parlare di Siria, dove è stata tre volte in un paio di mesi, è la giovane giornalista nel corso di un’intervista pubblicata dal sito “Integrales Productions”.
In Siria per un reportage di guerra realizzato per Al Aan TV, una televisione con sede a Dubai, Jenan Moussa narra delle sue esperienze in un paese sconvolto dagli eventi bellici. Dall’inferno vissuto nel mese di agosto sotto i pesanti bombardamenti dell’artiglieria dell’esercito del regime, al mese di dicembre, quando i bombardamenti diminuirono ma si fece più pesante la catastrofe umanitaria.
Centinaia di persone in coda dinanzi le panetterie di Aleppo, detriti lungo le strade, mancanza di medicine, cibo, ecc, per arrivare al lento miglioramento delle condizioni di vita in alcune città siriane e alla risposta delle forze ribelli alle milizie del regime.
Jenan – a proposito delle donne in Siria – narra di una brigata femminile della città di Aleppo. Donne velate, e impegnate nella lotta armata. Donne che – precisa la giornalista – non appartengono al gruppo chiamato” al-Jabhat Nosrass “(un movimento islamista, ndr.). Si tratta di 21 donne che fanno parte dell’ASL (libero esercito siriano) che operano presso alcuni posti di blocco all’ingresso di Aleppo, effettuando controlli e perquisizioni e, a volte, eseguendo anche interrogatori.
Donne che combattono accanto ai loro uomini, a volte con ruoli di comando, e che non hanno difficoltà a farsi rispettare come leader.
Non meno interessante il ruolo dei cristiani nella rivolta, che – a differenza di quanto sostenuto da fonti governative – si sentono ideologicamente vicini alla rivoluzione, ma in genere preferiscono rimanere anonimi e non si preoccupano di svolgere un servizio militare attivo.
L’ultima domanda rivolta alla giornalista, riguarda il rischio che corrono gli operatori dell’informazione in un paese sconvolto dalla guerra come la Siria.
“Fare la giornalista in Siria è ovviamente un rischio in sé – afferma Jenan Moussa – La Siria resta uno dei posti più pericolosi al mondo per lavorare. Molti colleghi sono stati rapiti, alcuni hanno perso la vita. E quando si arriva all’interno del paese che vi sentiti soli e siete consapevoli di giocare con il vostro destino. Un 50% di possibilità di tornare indietro e un 50% di restare lì per sempre… Il rischio è enorme. Personalmente, sono riuscita ad far fronte a molte situazioni complicate, e sono fiduciosa che questa possibilità continui a sorridermi…”.
Donne vittime, donne soldato e donne che con coraggio affrontano ogni rischio pur di continuare a svolgere la propria attività professionale, libere da condizionamenti e da facili poltrone redazionali…
Donne e guerra…
Gian J. Morici
Un’altra notizia importantissima da dare é che, in realtà, benché vengano ignorate da tutti, ci sono delle fonti di informazioni istituzionali che stanno provando a far conoscere al mondo il reale stato delle cose in Siria: E’ il caso di Mohammad Shahid Amin Khan, presidente dell’International Commission Of Human Rights (IHRC), che ha più volte affermato pubblicamente che tutto ciò che dicono i media occidentali e arabi sugli avvenimenti in Siria é una grossa menzogna, frutto della grande cospirazione americana e della Nato contro il governo siriano di Assad, un governo a loro non congeniale, che vogliono soverchiare anche a costo di uccidere migliaia e migliaia di incolpevoli civili.