Ha gli occhi sorridenti e il sorriso stampato sulle labbra di una donna le cui scelte di coraggio ed il destino gli hanno cambiato la vita per sempre, ma che allo stesso tempo, ha imparato a conviverci continuando a lottare ogni giorno con grande dignità.
Ho incontrato Piera Aiello un sabato sera di ottobre, in una località segreta, perché dopo oltre 22 anni è ancora una donna costretta a vivere nell’ombra. A guardarla sembra una donna normale. Mi viene incontro, seguita dai suoi angeli custodi e stringendomi la mano si presenta “piacere, Piera Aiello”, almeno per questa occasione, perché da anni non è più il suo nome, ragioni di sicurezza perchè la mafia non dimentica mai. Gli è stata assegnata un’altra identità, un altro nome, ma lei ci tiene subito a precisare, “Piera lo ero prima di conoscere Paolo Borsellino”, o meglio zio Paolo come mi piace ricordarlo, ma interiormente mi sento sempre Piera Aiello e lo sarò per sempre”.
Poi alza le spalle e dice “la mia è una storia semplice” così definisce la sua vita Piera. Ha 45 anni e ancora oggi per molti è semplicemente la cognata di Rita Atria. La sua è una storia fatta di coraggio, di speranza, di voglia di cambiamento, una speranza che ha stampata sulla sua faccia, anche se, interiormente porta i segni indelebili delle ferite frutto delle sue scelte che il tempo non è riuscito a rimarginare, e forse, mai ci riuscirà.
“Spesso
sono stati altri a raccontare la mia storia”, dice Piera, “oggi voglio farlo io”. Vive lontano dalla Sicilia in una località protetta e con un’altra identità, con un altro nome, con un’altra storia scritta da altri, ma spesso il suo accento siciliano la tradisce, è una traccia indelebile del suo passato, un filo con la sua terra che si impone di non spezzare.
Non è una donna che si concede spesso ai taccuini o alle telecamere, ama parlare ai ragazzi delle scuole di tutta Italia, perché dice “mi danno la forza di andare avanti”. Ha deciso di farlo, ha deciso di raccontarsi, di mettere a nudo le sue fragilità e allo stesso tempo la sua grinta ed il suo coraggio, nonostante tutto.
Si accomoda su una sedia pronta, a rispondere alle mie domande e registrare l’intervista. Mi chiede solo di non essere ripresa in volto. Poi sorride ancora, quasi a volersi giustificare quella richiesta e aggiunge “purtroppo è così” e si accende una sigaretta.
Le sue scelte gli hanno cambiato la vita per sempre, forse quando le ha fatte nemmeno le immaginava, ma lei semplicemente risponde “ è vero, ma lo rifarei di nuovo, nonostante tutto”. Quando decide di testimoniare, ai giudice inizia a raccontare la sua storia partendo da lontano, da quando aveva 14 anni. Riesce a farlo perché dice “ho sempre avuto un vizio, quello di scrivere tutto su dei diari segreti. Appuntavo ogni cosa, le persone che incontravo, i luoghi che frequentavo, fatti e circostanze e questo mi ha consentito di ricostruire la storia della mafia della valle del belice.”
Figlia di una famiglia che ha sempre campato di pane e giustizia. “Grazie al lavoro di mio padre” dice, ”abbiamo conosciuto gente di legge ligia al dovere, uomini con la schiena dritta come il giudice Rocco Chinnici e il grande Antonino Caponnetto. Ho sempre vissuto in una famiglia che della legalità ne ha fatto una bandiera”, poi si ferma, cambia espressione e aggiunge, “poi, ho conosciuto la persona sbagliata della mia vita, Nicola Atria e suo padre Vito Atria, anzi don Vito, un uomo rispettato in paese, un mafioso, l’uomo che mi ha scelto come sua nuora”.
“La famiglia Atria è una famiglia mafiosa di Partanna in provincia di Trapani e don Vito era un uomo senza scrupoli e violento, un mafioso”. “Un giorno”, racconta Piera, “ha buttato in piscina la moglie, che non sapeva nuotare, solo perché aveva chiesto di uscire di casa per andare a comprare dei gelati assieme a me ed ai suoi figli, ma lui, don Vito gli è lo ha proibito e alle protesta della moglie l’ha spinta in piscina, pur sapendo che non sapeva nuotare. Solo l’intervento del figlio è riuscito a non farla annegare. Gli ho chiesto perché? E lui semplicemente mi ha risposto, le cose o si fanno bene o non si fanno”. Questo era don Vito Atria, “un mafioso, un uomo che faceva rubare degli animali e poi li faceva ritrovare”.
Nelle foto che la ritraggono nel giorno del suo matrimonio è una ragazza senza sorriso Piera, non ha scelto lei l’uomo da sposare, non ha scelto l’uomo con il quale dividere un’intera vita. “Mi è stato imposto, non potevo rifiutarmi, sapevo bene chi era Vito Atria, ma sapevo anche che non avevo altra scelta. Non potevo nemmeno dirlo a mio padre, avrei messo in serio pericolo la sua vita e allora, in silenzio ho accettato le scelte di altri”.
Gli chiedo quale era il suo rapporto con Rita, sua cognata. Gli si illuminano improvvisamente gli occhi, diventano lucidi, per la prima volta gli si spezza la voce, poi dice “ Quando ho conosciuto Rita avevo 14 anni e lei 6, siamo cresciuti insieme. La testimonianza di Rita è stata fondamentale, ha parlato degli intrecci tra mafia e politica a Partanna. Della sua scelta di testimoniare sono stata accusata da mia suocera, sostiene che sia stata io a convincerla a fare quella scelta, ma non è andata così. Dopo che io ho deciso di testimoniare ed sono stata trasferita a Roma per primi 40 giorni sono rimasta chiusa in un monolocale, da sola, privata della libertà. Per questo cercavo di dissuadere Rita, per evitare di fare quella vita, ma lei insisteva. Aveva deciso di testimoniare una notte quando subisce un attentato, alcuni uomini bussano alla porta della casa dove vive con la madre e lei capisce che quelle persone erano andate lì per ucciderla. L’indomani mattina va da mio padre, che con una fiat 126 la accompagna in procura a Sciacca.
Rita era una ragazza cresciuta in una famiglia mafiosa, aveva 17 anni quando si è uccisa. La sue era solo un’età anagrafica, ragionava e pensava da donna ultraquarantenne, più di quanto lo fossi io che ero sette anni più grande di lei.
“Sono una poliziotta mancata” continua Piera, “nonostante mio marito fosse contrario, ho fatto, a sue insaputa il concorso in polizia. Quando lo ha scoperto mi ha picchiata pur di convincermi a non farlo, ma quando si è reso conto della mia caparbietà mi ha detto che in fondo uno sbirro in famiglia poteva fare comodo ed io gli risposi che la prima persona che avrei arrestato sarebbe stato lui”.
(continua)