Tra non molto saranno trascorsi otto anni. Otto lunghi ed inutili anni, da quando, l’8 gennaio del 2005, firmavo una denuncia avente per oggetto le condizioni nelle quali erano costretti a vivere alcuni ragazzi ospiti di una comunità agrigentina. Condizioni igienico-sanitarie assai allarmanti, vessazioni, violenze.
Quella firma in calce alla denuncia, seguiva di un giorno un’altra firma per me assai importante. Quella della cessazione di un rapporto di “tirocinio” presso la comunità in questione, terminato il quale avrei iniziato a lavorare come “educatore”. Purtroppo – e dico “purtroppo” con la consapevolezza di chi sa quanto importante sia un lavoro e quanto difficile sia il rinunciarci -, nel corso di detto periodo mi ero accorto di ciò che accadeva all’interno della struttura destinata all’accoglienza di minori. E questo non mi permetteva di tacere o di girare lo sguardo da tutt’altra parte. Quel senso del dovere che a volte ci dice che le cose non vanno così per come dovrebbero andare secondo i desideri di giustizia e secondo taluni principi insiti in ognuno di noi, mi portava a distanza di pochissimi giorni a contattare l’ufficio del Ministero Antidiscriminazione. Alcuni dei ragazzi ospiti della struttura erano infatti minori extracomunitari. Il 18 febbraio del 2005 venivo contattato telefonicamente dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio dei Ministri. A quel primo contatto telefonico ne seguirono altri, nel corso dei quali narrai le vicende che riguardavano i minori extracomunitari e alcuni aspetti preoccupanti che emergevano da quanto avevo appreso da alcuni di loro.
Ma se da parte dei funzionari che mi avevano contattato da Roma c’era la precisa volontà di capire cosa accadeva in quella struttura, altrettanto non potrei dire per chi ad Agrigento seguì la vicenda, che – forse per inefficienza o per aver sottovalutato gli aspetti relativi alle dinamiche che interessano il fenomeno dell’immigrazione clandestina – in data 26 luglio del 2005 (sei mesi esatti), frettolosamente chiedeva l’archiviazione della mia denuncia.
“Se l’attività d’indagine si fosse svolta con l’ausilio di idonei mezzi e con l’acquisizione di notizie da parte dei soggetti interessati – scrivevo successivamente al giudice -, sono certo che sarebbero emersi riscontri a quanto da me dichiarato, atti a comprovare i reati commessi. Chiedo pertanto di voler rigettare la richiesta di archiviazione e ordinare un proseguo delle indagini, opponendomi e richiedendo l’eventuale riapertura delle indagini qualora il procedimento fosse stato già archiviato”. Un’insistenza che poteva costarmi cara visto il fatto che un’accusa di calunnia poteva essere mossa nei miei confronti, forse anche d’ufficio.
A confortare le mie scelte, la solidarietà espressami telefonicamente da parte di due funzionari dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio dei Ministri che, nel continuare a seguire la vicenda per aspetti diversi da quelli denunciati ad Agrigento, si dissero “sconcertati” per quello che era avvenuto.
Alla mia opposizione non fece seguito alcuna risposta o denuncia nei miei confronti. C’è a chi basta dimostrare il proprio potere e, forse con compiaciuta vergogna (si scusi l’ossimoro), lo fa con quel silenzio che pone al riparo del dibattimento all’interno delle aule giudiziarie, dal quale potrebbero emergere fatti che difficilmente andrebbero poi ignorati. Con buona pace di tutti, i minori continuarono a vivere la loro triste esperienza – in maniera un po’ più umana di quanto non lo fosse prima delle mia denuncia – e io avevo perso la speranza di un lavoro, colpevole del fatto che avevo denunciato vicende sulle quali non si poteva e non si doveva tacere.
La storia, per la quale non mi sono mai pentito delle mie scelte, proseguì per altri aspetti grazie a quanti a Roma non lasciarono cadere nel vuoto le miei parole.
Parecchio tempo dopo, quando tutto era già finito, un quotidiano regionale titolava “Gli extracomunitari vanno a Milano. Gli inquirenti indagano”. Se non si trattasse di vicende tanto serie verrebbe da ridere. Così come nel caso del piano di Gheddafi di trasformare Lampedusa in un inferno, denunciato dall’allora ministro degli esteri Frattini sul finire del mese di agosto del 2011, dopo più di cinque mesi da quando il 7 marzo sulle pagine di questo giornale pubblicavamo la notizia di come Gheddafi avesse intenzione di mandare in Europa migliaia di fuggiaschi che dalla Libia volevano raggiungere la Tunisia e che gli stessi erano stati arrestati dalle forze filogovernative per essere imbarcati e ‘spediti‘ sulle nostre coste (leggi l’articolo).
“Se il governo italiano realmente non sapeva nulla – scrivevo nell’agosto del 2011 – , verrebbe da chiedersi a cosa servono quegli apparati governativi classificati come intelligence, se non sono in grado di apprendere notizie pubblicate persino da un piccolo giornale come il nostro.” Ancora continuo a chiedermelo.
Non pensavo che a quasi otto anni di distanza dalla mia denuncia, sarei dovuto tornare a parlare di immigrazione in termini di criminalità organizzata internazionale anche nella mia città. Un fenomeno le cui manifestazioni non sfuggono neppure ai cittadini comuni (prostituzione, droga, lavoro nero ecc), ma il cui disegno transnazionale è molto più complesso e pericoloso.
La tratta umana, della quale restano vittime oltre venti milioni di persone al mondo, è il primo collettore di ricavi illegali da destinare al traffico di droga, con un volume d’affari di 34 miliardi di dollari l’anno. Prostituzione, droga, lavoro nero, ma anche traffico di organi e terrorismo, sono le molteplici sfaccettature di questo fenomeno, per comprendere meglio il quale, voglio raccontarvi la storia di Rita, Faith, Amina e Carmelo. Rita, è il vero nome di battesimo della responsabile di una comunità alloggio che ha sede nella provincia di Agrigento. Faith, Amina e Carmelo, sono i tre nomi di fantasia che utilizzerò per indicare una giovane mamma nigeriana (Faith) e i suoi due figli (Amina e Carmelo), vissuti per pochissimo tempo in un comune della provincia di Agrigento. La storia è terribilmente vera.
È la sera del 31 agosto del 2009, quando Rita si vede presentare alla porta della comunità alloggio della quale è responsabile, la giovane nigeriana Faith, accompagnata da un’amica. Con Faith, c’è Amina, una bella bimba di circa un anno che non appena vede Rita le va incontro con le sue braccine tese come volesse abbracciarla. Forse, come nel mondo animale, anche gli esseri umani si fiutano e si riconoscono. E Amina, nel fiutare Rita, capisce subito che non deve aver paura. Capisce che Rita è lì per loro. Faith, con una bimba di un anno e in gravidanza da cinque mesi, soffre di asma bronchiale ed è lì perché indigente. In quella comunità sa che troverà un tetto, da mangiare, chi si prenderà cura di lei, di sua figlia e del nascituro.
Dal suo paese, dove aveva conosciuto un bel ragazzo figlio di una famiglia benestante che sarebbe poi diventato il padre dei suoi figli, Faith era stata costretta a fuggire, visto che la famiglia di lui, contraria a quel legame, aveva decretato la morte di lei e dei figli che aveva concepito con il loro rampollo.
Attraversata la Spagna era giunta in Italia in pessime condizioni di salute. Ma adesso, quel viaggio e tutto il resto erano solo un brutto ricordo. La sua famiglia, facendosi finanziare la fuga della figlia da chi aveva promesso lavoro e documenti alla giovani nigeriana, l’aveva messa in salvo. Faith aveva però presto compreso come dietro a cotanti benefattori si celasse il vero volto di una struttura criminale che opera al livello transnazionale, della quale chi scrive, in quel lontano 2005, ne aveva denunciato il funzionamento.
Il 1° dicembre del 2009 Faith dà alla luce un bel maschietto. Carmelo (chiama con un nome italiano il figlio nato nel nostro paese) è un bellissimo bimbo. A differenza di Amina, la quale non possiede documenti d’identità e non è mai stata registrata da nessuna parte (“merce” ottima per la tratta, la prostituzione o il mercato degli organi), Carmelo ha un’identità ufficiale.
La ragazza, felice dell’arrivo del suo bambino, partecipa il lieto evento alla propria famiglia e al papà dei suoi figli. Commette il primo errore. Dopo essere stata così scaltra da non voler mai utilizzare un telefonino con una sim intestata a lei, per evitare che qualcuno potesse tentare di rintracciarla, non resiste alla tentazione di comunicare la nascita del bambino. Ai primi di gennaio riceve una telefonata. Qualcuno minaccia di morte i suoi familiari in Nigeria.
Chi ha pagato il suo viaggio verso la vita e la libertà non può permettersi il lusso di perdere così la propria merce.
Il 10 gennaio, Faith, in ospedale, finge di essere una mamma violenta e inidonea. Rita, meravigliata di questi comportamenti, rassicura i rappresentanti delle forze dell’ordine dicendo loro che Faith in realtà è un’ottima mamma, affettuosa e amorevole verso i figli. Il piccolo Carmelo, viene così affidato a Rita, fino a quandola mamma non tornerà in comunità.
Faith intanto continua a ricevere telefonate. Un giorno arriva così quella telefonata tanto temuta. In Nigeria, uccidono la sua sorellina di soli sette anni. I debiti si pagano e Faith non ha pagato. Per chi commercia in corpi vivi o in pezzi degli stessi l’età non fa differenza.
Le telefonate continuano ad arrivare. Un giorno, alla comunità di Rita, arriva un giovane nigeriano. Ben vestito, fine, parla in italiano. È accompagnato da un suo connazionale. Dice di essere il compagno di Faith, il papà dei bambini. Ma Rita, che alla giovane nigeriana e ai bambini si è affezionata, guarda con diffidenza quell’uomo. Se vuol incontrare Faith deve dargli un suo documento d’identità. Il giovane, che afferma di aver dimenticato i documenti, le dice che tornerà l’indomani. Rita, ritenendo di aver ben compreso cosa si celasse dietro il bel volto del ragazzo, gli fa comunque presente che Faith è ammalata. Soffre di asma bronchiale, ha bisogno di cure.
Quella stessa notte Faith, evidentemente costretta a seguito di ricatti su possibili rappresaglie nei confronti della sua famiglia i Nigeria, cala dalla finestra i propri indumenti che vengono messi in auto dai due nigeriani, i quali aspettano poi pazientemente l’indomani. Eh sì, serve pazienza, non si può rinunciare alla “merce” per non aver aspettato poche ore.
Il mattino successivo, la ragazza, facendo finta di scendere per raccogliere i panni caduti dal balcone, fugge con i bambini dalla comunità alloggio. A Rita non resta altro da fare che denunciarne l’allontanamento. Non passano che un paio di giorni, quando Rita riceve la telefonata di Faith. Una telefonata tutt’altro che rassicurante, visto che Faith le dice che l’uomo si sta portando via i suoi figli. Faith non voleva andare sul marciapiede. Faith non voleva essere quella che viene definita (cancellandone la dignità, ma cancellandola persino come persona) una “puttana di colore”.
Mentre Faith insegue l’uomo che le ha portato via i figli, Rita per telefono le urla di guardarsi intorno, di rivolgersi al primo poliziotto che vede, di passarglielo subito al telefono. Rita, dopo la prima telefonata, è già corsa in questura a portare le foto dei due bambini. Adesso sa che l’unica possibilità è quella di far bloccare l’uomo prima che faccia perdere le proprie tracce. Faith parla poco l’italiano. Ecco perché Rita chiede che fermi subito un poliziotto e che glielo passi al telefono.
Faith, mentre insegue l’uomo che ha con sé i suoi due figli, dice a Rita che non c’è nessun poliziotto nelle vicinanze. “C’è solo un carabiniere”. Faith non capisce ancora che carabiniere o poliziotto che sia è la stessa cosa. È il suo angelo in divisa che ascolta quello che le dice un altro angelo custode di nome Rita.
Alla stazione Termini di Roma vengono liberati due bambini e viene arrestato un bastardo. Amina non è finita venduta come piccola schiava del sesso e chi volesse un “operaio nero in nero”, ancora per parecchi anni non potrà fare affidamento su Carmelo. Quello che è più importante, che i pezzi di Amina e Carmelo non siano finiti nel banco macelleria di una delle tante strutture specializzate in trapianti, che comprano all’ingrosso frattaglie umane.
La storia purtroppo non ha un lieto fine. I due bambini si trovano oggi in una comunità del nord Italia (il Comune agrigentino non si è mai interessato della vicenda, il cui costo è gravato sulle spalle di Rita), dove la nostra Faith, che continua a star male, non trova lavoro né qualcuno come Rita che se ne prenda cura.
Se tra le tante migliaia di vittime dell’indifferenza della nostra società e delle istituzioni, che quotidianamente incontrate lungo i viali, sui marciapiedi dei nostri centri storici, nelle periferie delle città, ne vedete una che soffre d’asma e usa farmaci spray beta-agonisti, non chiamatela “puttana”…
Potrebbe essere lei, o un’altra come lei, vittima di quelle organizzazioni dedite alla tratta umana. Durante la mia breve esperienza di “tirocinante educatore”, rimasi colpito dal fatto che la maggior parte dei giovani extracomunitari dei quali ci saremmo dovuti prendere cura, ogniqualvolta tentavano di allontanarsi dalla comunità, al loro ritorno perché “catturati” (così titolavano i giornali quando gli educatori, senza alcun riconoscimento giuridico che li autorizzasse si sguinzagliavano in giro per le strade trovando e riportando nell’isola felice quei poveri disgraziati) avevano la necessità di avvisare un loro zio. Uno zio che aveva quasi sempre lo stesso numero di telefono.
Doveva essere una famiglia molto prolifica quella dello “zio”, visto che i “nipoti” venivano da diversi paesi, come Tunisia, Marocco, Libia, Egitto e altri ancora.
Il tutto, sotto gli occhi di chi li accompagnava a telefonare dal telefono pubblico installato all’interno della struttura. Operatori distratti che, a differenza di chi denunciò quanto accadeva, continuano a mantenere il loro posto di lavoro.
Ad onor del vero, in particolare uno di loro, giusto quello che in mia presenza non aveva mai commesso nulla che gli potesse essere addebitato, dopo anni di lavoro rassegnò le proprie dimissioni. Lo incontrai per caso a distanza di molto tempo. Faceva un lavoro considerato da molti umile, ma aveva il viso sereno ed era sorridente.
Mi ringraziò. Non gli chiesi mai perché mi avesse ringraziato. Anche i ragazzi che ho conosciuto in quella comunità quando mi vedono sorridono e mi salutano: “Ciao professore”- chiamano così gli educatori. Forse quella dell’ “insegnamento” non era la mia aspirazione professionale e sarà per questo che non ho rimpianti…
Gian J. Morici
ha del coraggio a scrivere in questo modo.