Il professore giocava a pallone, nel momento in cui lo osserviamo per la prima volta in uno spiazzo assolato. la prima istantanea immaginaria che osserviamo non farebbe proseguire nell’ascolto il più scettico tra coloro che possono dire di averlo conosciuto bene . nessuno penserebbe, sapendo l’indole che ha il professore, che tutto il destino era sottomesso alla sorte sferica a pentagoni bianchi e neri.
Per uno che di mestiere fa l’insegnante, per uno che fa di una cattedra uno scranno, riesce difficile immaginarlo in pantaloncini appresso a una sfera in più tarda età amava ripetere che il calcio era uno sport ove 22 miliardari si dilettavano a correre su un prato inutilmente e senza costrutto. da piccolo soffriva terribilmente quando veniva scelto per ultimo nella conta delle squadre. sapeva che quando c’era il pallone di mezzo i suoi compagni di gioco avrebbero sperperato l’intera giornata a correre sotto il sole infuocato che arrostiva le strade di Palermo, non ancora contaminate da macchine, soffriva anche perchè sapeva di non essere ben visto al momento delle partite. infatti se erano dispari lui non veniva nemmeno contato, doveva andar via, con un magone enorme dettato dalla frustrazione che quel giorno non si sarebbe giocato al suo gioco preferito, ovvero “a pitruliata”, consistente in un “tutti contro tutti” armati di grosse pietre, vinceva chi tornava illeso, gli altri rincasavano in rivoli di sangue.
I più le buscavano anche a casa, ovvero riscuotevano dai padri il cosiddetto “resto”. il tipico padre Palermitano, se il figlio le ha prese di santa ragione e ritorna malconcio, gli dice “un chianciri vasennò ti rugnu u riestu”, che tradotto significa “fa in modo che dalle tue sacche lacrimali non proferisca alcun liquido che nemmeno lontanamente puossi definirsi simile a pianto, qualora ciò egualmente avvenisse, mi riservo diritto di integrare lo guiderdone di umiliazione da te sì faticosamente racimolato con opportuna integrazione tratta da mia personale disponibilità legnatoria, siamo sicuri che il professore l’avrebbe raccontata così.
Già da giovane un bell’uomo, da sempre il professore aveva un’aria seria. non che non gli piacesse scherzare, beninteso, ma semplicemente il suo modo di scherzare era influenzato inesorabilmente dalla sua formazione classica, il professore non scherza, il professore celia, il professore non dice volgarità, si concede un gioco audace di parole. il professore non è distaccato dai suoi alunni e non prende le distanze. siamo tutti amici, ma in aula si fa sul serio.
Lo amavano tutti i suoi alunni e soprattutto tutte le sue alunne. il professore aveva una discreta platea femminile. non ci è dato sapere se cedette ai piaceri di una scappatella, del resto le premesse e il fattore ambientale, poteva anche concedersela. le scelte di vita lo avevano portato a una curiosa biforcazione. sposato, con un figlio, ma con un alibi comprensibile e coattivo di lontananza. la moglie e il figlio erano rimasti a Palermo. lui era stato trasferito dal Ministero della Pubblica istruzione in Sardegna.
Se in ogni uomo innamorato c’è la voglia di tornare a casa, in lui era sincera quanto quella di Ulisse. veritiero il suo desiderio di casa e terra natia, quanto stordente la sua voglia di scoprire sempre due colonne d’Ercole da superare. un cuore giovane però vuole ritornare quasi sempre per istinto in ciò che ha sapore di famiglia. i segnali esterni che potrebbero lasciarci fare scelte diverse e lontane rimangono inascoltati o fintamente disattesi. con il beneficio d’inventario ci sentiamo di dire che fu fedele, nella sua permanenza in terra lontana, anzi lo vediamo proprio struggersi per la voglia di riabbracciare i suoi cari. specie quel figlio non ancora goduto del tutto.
Come dicevamo, stava giocando a pallone con dentro di sé una strana ebbrezza. era quasi intontito. le circostanze si erano felicemente incastrate in un gioco del destino che ti fa capire che in quel preciso momento si è talmente felici da fare gli stupidi. abbracciare gli estranei per strada, ridere come un pagliaccio, cantare a squarciagola .ma il professore è stonato. e goliardico, non dimentichiamolo.
Ecco che se qualcuno lo avesse fotografato con spontaneità come piaceva a lui, senza posa in atteggiamenti naturalmente istintivi, lo avrebbe colto con un sorriso pari a quello che si ritrova nelle foto in bianco e nero, in tinta con l’atmosfera di un ospedale. ma quel giorno di cui invece possediamo le foto, l’ospedale era il posto più bello del mondo. non sono i posti ad essere tristi, sono gli animi con cui vi mettiamo piede che ne segnano i destini della nostra memoria. se sei padre da pochi secondi, le pareti bianche sono scenari e gli infermieri, sono comparse di un film che inizia e finisce a lieto fine. figuratevi come doveva sentirsi il professore, che aveva letto un percorso diverso negli occhi di suo figlio. nato quasi morto,strangolato da un cordone ombelicale che non voleva sapere di lasciarlo. il colore troppo viola e il pianto tanto atteso in quel faccino livido avrebbero dettato percorsi diversi. guardando quel fagottino che non si riconciliava col mondo dei mammiferi, aveva pensato che non era bastato, non era bastato concepirlo con una atmosfera magica e unica, la notte di natale. non era sufficiente ad assicurargli il salvacondotto a una vita da vivere, a camminare mano nella mano con lui fino alla coscienza che le dita sarebbero cresciute e avrebbero lasciato la presa.
La felicità di vederlo vivo, era ormai certezza nel sorriso di quelle foto, forzato, impaurito, ma sincero, le mani incerte che si uniscono forti attorno a quel figlio con cura e timore, il tentativo di riguadagnare le parole giuste per definire la gioia di averlo tra le braccia, il successivo pianto liberatorio, più liberatorio del solito.
Poco tempo era passato da quel settembre del 1971, quella partita resta fissata nella memoria un pò labile, alla fine di aprile del 1972. la felicità fissata da questa foto immaginaria che nessuno gli ha mai scattato, con quel colletto scomposto il corpo esile e inelegante per l’attività che non gli appartiene nel quotidiano. il professore non è uno sportivo. e questa affermazione viene subito supportata dalla legnosità dei movimenti, dalla goffaggine del gesto atletico. ma il desiderio di una parentesi di gioventù, diciamo pure di infantilismo, era forte e pulsante. verrebbe da dire che forse, giocando a pallone spensieratamente, recuperava e faceva sua per pochi istanti una fanciullezza, che ogni tanto non faticava a venir fuori.
Tra qualche giorno sarebbe tornato a Palermo. era periodo di elezioni, e aveva diritto al permesso per recarsi nel luogo ove risiedeva per assolvere al suo dovere a quei tempi parecchio più importante e solenne di quanto adesso si possa immaginare. ma c’era di più, sarebbe tornato il giorno del compleanno della moglie. avrebbe riabbracciato la sua famiglia in un momento di festa. era tutto programmato. non sussisteva possibilità di un volo diretto. bisognava fare scalo a Roma. poi alle 20.15 circa, il DC-8/43 dell’Alitalia, Aeromobile I-DWB, lo avrebbe riportato a stringere una parentesi di vita in famiglia contornata anche da un compleanno.
Forse una distrazione, un banale pensiero, un movimento più goffo della goffaggine già prevista e ampiamente descritta, in ambito pedatorio. mancavano pochissimi giorni, conto alla rovescia, giorni ormai superflui frapposti tra lui e le sue familiarità. percepì uno spostamento tanto innaturale quanto casuale del suo corpo.
Forse constatò che non sempre il film delle tua vita decide di scorrere nei momenti in cui te lo eri calcolato.
Cadde male, malissimo il professore. un dolore forte indecifrabile, pensava che faceva male sul serio, ma forse era lui che esagerava, che amplificava nei postumi immediati della caduta. non era così. l’infortunio era tale che a quei tempi per un giocatore professionista si sarebbe detto “stagione finita”.
Si valutò opportuno farlo tornare subito a casa, dopo le prime cure prestategli sul posto. i familiari pressarono affinché la data del rientro fosse il prima possibile, visto che l’incidente era stato meno banale del previsto. il professore rincasò così in anticipo. valutò che, date le sue condizioni voleva stare solo con sua moglie e suo figlio, non voleva vedere nessuno. voleva solo pensare a provare a guarire al meglio. molte delle persone che lo aspettavano non seppero della sua presenza in territorio natio, lo davano ancora insegnante a Nuoro.
Il professore aveva una strada, comune ad altre persone. una larga trazzera polverosa e vertiginosa in discesa da percorrere anche non volendo, anzi sicuramente non mettendo nemmeno un grammo di volontà, quasi di corsa tra pensieri di redenzione e timori vari. anche se in un momento particolare trovi qualcuno che condivide il tuo cammino, non ti conforta per nulla. ti fai solo alcune domande, le più strane, anche inutili del tipo: ” e domani?”. ma più di tutto resta l’amarezza di non avere pianificato anche questo. il professore non era tra quei passeggeri a bordo dell’Aeromobile I-DWB, partito alle 21.46 dall’aeroporto Roma – Fiumicino, in data 5 maggio 1972. le strade che ogni passeggero di quel volo aveva da percorrere non avevano più forme di percorrenza diverse.
Di qualsiasi forma o sostanza fosse fatta la loro strada, adesso prendeva forma e sostanza di una parete di montagna. sotto il segnale del comune destino: trovarsi tutti insieme tra le stesse pareti volanti, il vertiginoso finale che loro non sapevano essere scritto non offriva deus ex machina che intervenissero, nonostante i cartelli all’interno dell’aereo mentissero spudoratamente recando scritto “uscita di emergenza”. l’emergenza c’era e se ne accorsero in un barlume di coscienza, ma l’uscita non arrivo altrettanto sollecitamente.
Il fatto nudo e crudo sta in un numero: 115. sono le persone morte nello schianto duro e buio del volo proveniente da Roma, addosso alla parete di Montagnalonga, nomen omen, nel nome il destino, effettivamente quel costone roccioso oblungo era esteso come il suo nome. quel volo atterrò in un punto della montagna, da cui tempo dopo una croce avrebbe guardato altre persone in un’altra bara volante che decise di atterrare sul mare e spezzarsi in vari tronconi. a certe velocità, anche il mare purtroppo oppone una resistenza simile a quella di un costone di montagna. il fatto in sé deve continuare a essere racchiuso in quel numero e in tutti i nomi che contiene dentro. ognuno con la sua storia, ognuno con un motivo diverso, un amore o affetto o solitudine diversa che li avrebbero attesi all’atterraggio.
Dobbiamo attenerci ai fatti e a quel numero, anche se nelle orecchie rimbombano potenti e precise tante variabili impazzite. quelle di chi contesta che non è stata una sciagura, che l’aereo è esploso prima di arrivare alla montagna non dopo, che per anni i piloti svolgevano atterraggi a sfondo mistico, pregando tutti i santi che li aiutassero, perché l’unico modo di atterrare all’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, era passando radente a quella montagna maledetta per arrivare di faccia alla pista. che nessuno si sarebbe aspettato una sequela ti tragedie aeree e di misteri sulle loro cause sempre più crescenti: ore 0.38 del 23 dicembre 1978: anche qui una cifra nuda: 108, le persone che non fecero ritorno a casa a natale, per un aereo che si inabissò ancora da chiarire, senza nessuna intenzione di farlo davvero, le cause. tralascio altri incidenti per non tediare e per non allontanarci troppo da Punta Raisi, almeno per ciò che riguarda il nostro aneddoto. non vogliamo nemmeno soffermarci sulle tonnellate di carte che in Italia fanno da terra usata per seppellire fatti tragici. la carta è soporifera, addormenta piano piano le coscienze con righe sempre più flebili di articoli di giornale. con pagine e pagine di faldoni che prendono nomi strani: “ordinanza”, “sentenza di non luogo a procedere”, migliaia di pagine che nemmeno il giudice più coscienzioso avrebbe il coraggio di leggere per trovare il bandolo.
Perché se non fossimo qui per raccontare una storia partiremmo da due enigmi che sembrano semplici da risolvere ma non lo sono ancora. dovremmo ripartire sempre da zero, eliminare le relazioni dei periti e affidarci al buon senso? lasciare che sia l’istinto a guidarci verso la soluzione di almeno uno dei tre rompicapo proposti. Quella montagna, è spettatrice o assassina? Ha osservato qualcosa che avrebbe voluto non vedere qualora dotata di anima? Oppure ha ubbidito alla sua legge fisica di corpo solido e ha opposto resistenza a un altro corpo rivelatosi meno solido e quel che è peggio una fabbrica di corpi a sua volta?
Ma zoomiamo sul professore, perché scorrendo la lista delle vittime il suo cognome c’era.
ma come vi ho detto prima concentriamoci sui fatti nudi e crudi.
Alla prima lettura della lista delle vittime tutti i suoi amici appiccicati alla tv videro indistintamente il cognome. Chiamarono casa sua. Si sa come vanno queste cose, ognuno di quelli che apprende una notizia luttuosa da un lato non vuole darla, dall’altro sente su di sé l’onnipotenza dell’angelo della morte che quasi decide chi vive e chi no. Alcuni amici rimasero stupiti nell’apprendere che il professore era a casa, la moglie aveva risposto e aveva garantito che stava bene, altri pensarono che non ci fosse più e la moglie vedeva i fantasmi, altri che fosse impazzita.
Ma si sta raccontando una storia gustosa, per intrattenere degli ospiti che sono interessati e vogliosi di conoscere il finale, di questo racconto che spero abbiano gradito come hanno gradito la mia cena di compleanno, una storia che ho scelto tra due uguali, che per un po’ hanno avuto molto in comune. due persone infatti si salvarono da quel disastro. una era il professore, l’altra, una persona che perse l’aereo, ma ahimè rimandò soltanto il suo appuntamento di “sorte decisa per opera di velivolo”. infatti riuscì a prendere proprio l’aereo che si inabissò 6 anni dopo davanti all’aeroporto.
Il professore? si era solo rotto un piede, la sua strada di fuga da quella montagna rocciosa, aspra e impietosa, il fato gliela aveva indicata qualche giorno prima, con abbondanza di gesso. Il nome sull’elenco? Non ci piace pensare ai giochi che il destino attua nei confronti delle persone. Sì c’era un’altra persona col suo stesso cognome.
Ma a quegli amici precipitosi che chiamarono casa convinti di fare i conti con un amico scomparso, avrebbero appreso di lì a poco che lo stesso rituale si consumava probabilmente a casa della Sig.ra Zanca Giaconia Gabriella, anni 43. Più grande di lui, ma soprattutto donna. Solo il cognome li accomunava, forse nemmeno la parentela. Se si avesse il potere di cambiare le cose, anche lì, anche in altre 115 case, avremmo voluto dire che era un errore, che era tutto sbagliato. Che addirittura non era caduto niente e di lì a poco la signora Zanca Giaconia sarebbe stata a casa, ma anche altri, molti, tutti, i bimbi per primi, le mamme per seconde, ognuno nell’ordine a cui è mancato dentro una casa in cui anche adesso si piange.
Appare superfluo ai più anche sapere che quel figlio ancora adesso ringrazia quel padre sopravvissuto alla sua goffaggine, lo ringrazia delle mille gioie che gli ha dato, procurandosi quel dolore, procurato in un momento casuale, ma non casuale, quasi che gli Dei sorridessero alla sorte rinviata di un uomo così amante del mondo classico, da meritarsi una attenzione particolare da alcune divinità ormai in pensione, sostituite dal monoteismo moderno e civile.
Anche per questo, signori, mi trovo qui a brindare con voi, anche per questo, ho potuto fare mia e cara una canzone, sentita e subito oggetto di attenzione del mio cuore che recita più o meno così:
lungo il viale così lontano, la mano piccola nella grande mano e chi dei due guidava l’altro io non so dirtelo…
Essa riflette un desiderio realizzato, la voglia di sicurezza di un cucciolo d’uomo che stringe la mano al suo papà. Essa riflette qualcosa che va oltre il dolore fisico di un piede rotto, va oltre il dolore per un’assenza ormai conclamata. Va oltre tutto quello che la ragione impone all’equilibrio. Affidiamo al caso quello che non possiamo spiegare, non cerchiamo spiegazioni soprannaturali o metafisiche. La vita nelle sue concessioni o negazioni ti concede un ballo in più o in meno, solo perché sei arrivato in tempo, un minuto in più o in meno, un anticipo o un ritardo e si sarebbe negata, con tutto ciò che consegue. Ma non si può bestemmiare contro lo stesso caso che ha privato qualcuno di un compleanno o di più giorni di natale e estati insieme.
Non brindiamo signori, ricordando con rabbia e lacrime chi per un motivo o per un altro non può essere presente ai suoi cari, come tutti coloro a cui va il mio pensiero che caddero dal cielo per tornare ad esso in quel lontano giorno in cui mio padre non fu su quell’aereo.
Ad essi va il mio pensiero, come a mio padre, la cui assenza è più vicina e meno ingiusta, ma non per questo meno viva.
Non brindo a lui ma ce l’ho con me. Con il pensiero a chi non c’è. Ovunque sia.
grazie al blog: http://montagnalonga.wordpress.com
by Ettore Zanca
Caro Ettore, apprezzo molto questo tuo articolo, come tutti gli altri che hai scritto.
Ti reputo uno dei pochi giornalisti che svolge la professione in modo imparziale, narrado i fatti nella loro realtà.
Con stima.
Luciano La Piana