A passeggiare tra le dune di una spiaggia antica, si incontrano i resti di qualche divinità, assisa dove ora va lambendo il mare i suoi piedi nudi di creta, e i pavimenti nitidi per lo sfarzo della semplicità.
Si cammina in un’unica macchia violacea. Così è il tempo, oggi, un solo colore, interrotto da qualche ombrellone aperto, turchese e bianco, che il cielo riflette di grigio. Il mare ha solo un movimento profondo, è spaventosa la sua unica, continua onda che sul limite della terra sfiata disillusa.
Così risuona, in una scala discendente fino al suono più grave, l’insieme delle considerazioni di questi ultimi mesi. La sola cosa che mi attraeva, ora, era il mare. Questa passeggiata senza fine, interrotta dai resti della villa romana, ovunque sono i romani, con i loro resti ruvidi, con il marchio dell’antichità per eccellenza. Mi siedo sul pavimento dove camminò una qualche Claudia, o Clodia, o Giulia, non so e guardo l’orizzonte. Qui c’era una storia, non dissimile dalla mia. Le persone si svegliavano e addormentavano accanto al mare, che prima era più lontano, certamente. Portici e colonne in mattone, e la testa di Giano, collocata su un’erma fragile e mangiata dal sale. Ora io, mi sentivo custodito da questa faccia dallo sguardo cieco, dalla sua attitudine seria e riflessiva che senza alcuna enfasi controllava il passaggio verso l’infinito, tra cielo e mare. Le mie porte, invece, apparivano sconquassate, mezzo divelte, e il vento vi penetrava senza riguardo, con quel fragore senza complimenti, quello squasso confuso di forze prepotenti, inarrestabili
Non lontano sorgevano i magazzini e le banchine per l’attracco delle navi. E il dio le vedeva arrivare, ne controllava il passaggio, e assieme osservava il volto di chi a sua volta percepiva l’annuncio dell’arrivo e della partenza, qualche donna, qualche servitore, qualche sogno incarnato.
Ora io, tutti i giorni, coprivo quel percorso. E se c’era il sospetto di tempesta, me ne uscivo ancora più precipitosamente di casa, per arrivare a quel luogo scavato nella sabbia, togliermi le scarpe e calpestare pavimenti musivi e sostare in ambienti decorati con motivi floreali, e sentirmi avvinto. Come questo giorno qui, che non può tramontare, che deve aspettare.
Al mattino avevo congedato mia figlia, che era venuta nel mio nascondiglio, a piangere. A dire che le avevo rovinato la vita, che non avrei dovuto prendere da solo quella decisione. Che ora camminava guardandosi le spalle, che per vedermi aveva dovuto chiedere un permesso, che l’avevano scortata in gran segreto, e che non era sicura che per causa mia qualcosa di definitivo potesse accadere nella sua vita. Non lo escludevo neanche io, ma c’era un tipo di morte che le mie spalle non potevano reggere. Sapevo tutto ed era come se non servisse a niente.
La bella faccia classica di Giano, meno bella di quella che era custodita in un grande museo dove mi avevano portato da bambino, più bella di quella che sormontava le palazzine di un certo quartiere, fatte d’un materiale grigio, falso, con lineamenti volgari, era lì protesa verso il piatto ora immobile e indistinguibile in cui si mescolavano il cielo e il mare. Ancora basso il cielo, ma mi piaceva. Com’era basso il mio umore, a pensare che mia figlia poteva subire un danno per causa mia. La mia famiglia mi aveva detto di no. Ed io avevo continuato per la mia strada. Ora loro mi avevano ripudiato, per evitare rappresaglie. C’erano state parole definitive tra di noi, e disperate. Mi mancava mia moglie. Non la nostra quotidianità, di giorno, tra recriminazioni, litigi, paura, delusione. Mi mancavano le notti, le ultime notti prima dell’addio. Prima di disconoscermi, di chiedere il divorzio, che la assolveva agli occhi degli altri.
E poi era arrivata mia figlia. Nel mio nascondiglio. Non mi sembrava una cosa buona. Mi sembrava che la rete incerta in cui mi avevano avvolto, avesse di colpo ceduto una maglia.
Ora passeggiavo, a casa leggevo le carte del processo, mi preparavo. Potevo decidere diversamente? Ero ancora in mezzo al guado? Potevo rimanere immobile? Mi sembrava impossibile non seguire il movimento del mondo, attraversare, guardare un ostacolo e riconoscerlo, cercare una porta, non per fuggire, ma per accedere, in questo giro infinito. Non ruota forse all’orizzonte una curva nel cielo che segue la curva del mare?
Così mi stacco da questi mosaici, la cultura che li ha ideati mi ha fornito i testi che alimentano la mia coscienza, la separazione dalla mia famiglia, dal corpo caldo di mia moglie che era in definitiva la mia casa. Cammino tra queste sdraie solitarie, ombrelloni aperti in una attesa tristissima, ora che non c’è promessa di sole.
Lo sguardo del dio mi giro a cercarlo. Oggi, per la prima volta, avverto il bisogno di sentire che mi segue, che mi valuta. Sono a un passo dall’acqua, fredda come il mare di Bering, e forse dello stesso colore. Di solito torno indietro, ma oggi non posso. Siamo pochi su questa spiaggia, e la scorta ha voluto seguirmi, come fa ogni giorno. Ora vedranno che proseguo, e non gli piacerà. Ma non posso tornare indietro. Così ho detto a mia figlia, a mia moglie.
Sul tavolo ho lasciato le carte processuali in ordine. So quel che devo fare, quel che devo decidere. E’ forse chiaro per tutti. C’è anche la lettera che mi hanno fatto recapitare: tu prendi la tua decisione, noi la nostra.
Tra un’ora sarò in aula. Ancora due passi, taglio per la salita sabbiosa, siamo vicini alla strada. Lascio che la scorta mi raggiunga, stanno già chiamando la macchina. C’è una porta che conosco e che voglio attraversare. E’ quella della giustizia, la più giusta che posso. Mi giro a guardare il mare e le nuvole gravide sulla villa romana. Poi salgo in macchina.
Durante il tragitto non penso al processo, penso a domani, al mio risveglio lento, ad un altro giorno senza sole, la radio è accesa e recitano le previsioni del tempo, ora comincia anche a piovere, il finestrino si macchia di qualche goccia pesante che subito evapora. Non penso agli avvocati e alle loro lunghe tirate, alcuni strillano, alcuni recitano, alcuni parlano che non si capisce niente, qualcuno vuol rigirare la realtà, per gli avvocati, pure i morti sembrano prossimi alla resurrezione, una marea di morti dal freddo pronti a venire a testimoniare nei loro lindi abiti funerari.
Penso a domani, a quando mi vestirò per uscire, a quando dirò alla scorta che non voglio essere seguito. Penso alle mie scarpe che affondano nella sabbia, alla libertà che provo di fronte al mare, a quanto amo la vita, a quanto desidero coricarmi con mia moglie.
Arriviamo davanti al tribunale, e penso che non mi ero mai reso conto di quanto sia triste e malinconica la legge. E’ un agguato continuo alle crepe dell’uomo. E la costruzione che la accoglie è così immensa, così spaventosa, mentre vorrei un dibattimento in una piccola stanza, in un luogo comune, perché è comune farsi del male.
Allora noi entriamo con i nostri paramenti. Non sento nulla, non provo nulla, voglio ascoltare i fatti, emettere la sentenza. Li voglio vedere in volto quando mentono. Voglio sentire la verità, ma non mi è quasi mai capitato di udirla pronunciare. Sfilano ancora oggi alcuni testimoni. Si confondono di fronte al microfono, non capiscono le domande. Io sono stanco. Della loro e della mia umanità. Sono stanco di non essere fermo, mi tremano le mani da qualche giorno, e bevo, la sera bevo. Non guardo verso la gente, tengo la testa china. La loro vitalità, il movimento continuo in cui si producono, mi riempie di pena. Entrano gli accusati, qualcuno è vestito come ad uno di quei matrimoni o battesimi affollati, in cui tutti si annoiano alla cerimonia religiosa e non pensano che al pranzo, e sudano nei loro abiti troppo azzurri, o troppo neri, gesticolano muovendo mani e polsi carichi di un oro vistoso. Mani che un giorno qualcuno ha guidato nel segno della croce. Ma sono pensieri oziosi, si sono ripetuti spesso durante le udienze, non ne ho che fastidio.
Quando tutto sarà finito, penso ci sarà un’altra vittima, e per quella non pagheranno nessun dazio. La mia vita è andata in frantumi.
Allora finalmente alzo lo sguardo verso il grande accusato. Ecco qual è il punto. Che lui non è colpevole. Non per questa accusa. E’ colpevole di molto altro. Per cosa lo sto giudicando? E’ facile, è tutto contro di lui, ma tutti mentono. Perché vogliono liberarsene, indubbiamente, perché ne verrà un altro peggiore. E vogliono liberarsi di me, attraverso di lui. Lo sappiamo entrambi. E non ci siamo mai guardati, e poco parlati. Parlavano gli avvocati. Però è lì, e dietro di lui viene una schiera di vittime. Mi sembra, nei momenti di minore lucidità, di vederle accanto alla sua sedia che gli fanno la guardia. E’ il motore indifferente di una serie di cause che hanno per effetto rovina, disperazione, morte, e che per lui si sono tradotte solo in logica degli affari, del potere, del denaro, dell’esistenza nel suo mondo. Nessuno dei due si può salvare, neppure se io faccio il mio dovere, e lo assolvo. Anzi, per arrivare a giustificare la sua eliminazione per vie cruente, si alzerà una polvere rossa che vedrà altre vittime, altre allegre pistolettate in mezzo alla gente. Sono nel guado, in un guado puzzolente. Comunque sia, né io né lui ci salveremo. Un andante con moto verso il precipizio, e sia il giudice che l’accusato vi rotolano avvinghiati stretti. Sorrido. Poi finalmente guardo il pubblico. La sala è piena, perché oggi si darà il verdetto. Guardo distrattamente e qualcosa nel pubblico mi consola, ma non so cosa e non ci penso. L’ultimo testimone che un avvocato voleva ascoltare è una bomba gettata nella folla. Una donna giovane, che potrebbe avere l’età di mia figlia. Istintivamente risquadro nell’aula, e la vedo. C’è mia figlia. Nascondo le mani, perché ricominciano a tremarmi. La testimone si siede, balbetta le sue generalità, e non guarda che la sua borsetta. Osservo l’accusato, e lui non guarda che le sue mani. La donna è la madre di un ragazzino. Racconta bene tutti i fatti, con una voce chiara, esile, acuta, sorgiva. Suo figlio era un bambino disabile, perché nascendo, diceva, lo hanno un po’ soffocato. L’avvocato precisa la patologia del bambino. Il bambino è strano, dicono tutti, e lo isolano, lo prendono in giro. E così, impedito a condividere giochi e allegria, il bambino comincia a rubare. E nasconde le sue piccole cose in un vallone, dove poi lo trovano. La donna è bionda, delicata, con grandi occhi celesti, fermi e pietosi.
-Lo hanno inseguito, lo hanno colpito con le pietre, lo hanno ucciso. Dicevano che aveva rubato in casa di quest’uomo qui- e indica con il mento l’accusato.- Dicevano che erano stati i ragazzi. E poi si è scoperto che non era vero niente. Che era solo perché è figlio a mio marito, che è solo per uno sgarbo. Che nel vallone ce l’hanno portato dopo. E per farmi stare zitta mi hanno pure detto: non ti abbiamo fatto un favore a togliertelo?-
Quella storia la conoscevo, c’erano tutti i resoconti dei carabinieri che l’avevano trovato.
-Chi le ha detto questo?- chiede allora l’avvocato.
L’accusato sta con la testa bassa, poi la alza e incrocia lo sguardo della donna. Da come la guarda io so che non è colpevole. Far fuori quel bambino e usarlo contro di lui fa parte della grande manovra. Ma conosco tanti suoi delitti che in sede processuale non si è mai riusciti a dimostrare. Ora si possono pareggiare i conti. E in teoria non dovrei farlo. Ma non ho più tempo, e per lui è meglio così, lo sto quasi proteggendo, mi dico.
Allora mi ritiro. Tutto il drappello esce. Sono tutti convinti che è colpevole, sono pieni di rabbia, per le minacce che hanno ricevuto, per la paura che li soffoca. Lui è un colpevole, e in qualche misura, quanti di noi non lo sono? La mia scelta non aveva spinto mia figlia a prendere atto che i suoi valori non avevano tenuto? Non aveva posto me di fronte alla consapevolezza di essere pronto a non tener conto di procedure, leggi, giustizia, a contrapporle un mio ragionamento fuorviante? Si, forse niente di paragonabile, ma mi sembrava che non fossimo diversi ora. Dovevo procedere, un volto mi spingeva in avanti ed un altro mi costringeva a guardarmi dentro. Avevo ascoltato tutti i pareri, avevo persino insinuato il dubbio inserendo nei discorsi mezze verità, mezze intuizioni. Niente, erano tutti d’accordo, bisognava togliere quel tipo dalla circolazione, visti gli articoli bla, bla, bla. Io non ero più me stesso, e questo non era poco. In aula, in quei lunghi mesi a cui era seguita la mia segregazione, la perdita della mia vita, del mio passato, di una parte della mia identità, avevo assistito a quella mostruosa messinscena: quell’uomo lo avevano messo nelle nostre mani, noi eravamo le loro lavandaie. Eppure, ora lui, dopo, loro. Quello che mi facevano era terribile, morivo e rinascevo. Questo rappresentava un inizio. Entrai in aula, e proferii la mia sentenza. Dopo, la sola cosa che mi interessava era scorgere di nuovo la testa di mia figlia. Ma non la vidi.
Subito, spogliandomi della toga, riprendendo il mio cappotto, e la borsa, transumando velocemente, protetto dalla scorta, verso l’auto, penso che c’è ancora domani, e che sarei andato a camminare in spiaggia. Immagino i miei passi, e le nubi, e il sole in esilio, e la calma di cui ho bisogno, una specie di anestesia provvisoria. Non voglio pensare che la mia notte sarà solitaria, che la scorta sarà fuori della porta, che io berrò per dormire. E che devo abituarmi all’idea che ho fatto un errore giusto. I ragazzi brevemente si congratulano con me, qualcosa la dicono ora, sull’accusato, perché la vita di quell’uomo ha gettato un’ombra sull’esistenza di tutti. Ma io fantastico con dolore sulla vita che non ho più, piagnucolo su di me, su un uomo perso.
Ora è mattino. Sono pronto. Ho chiesto di essere lasciato solo. Per uscire sono quasi scappato. Per quando se ne accorgeranno, sarò di ritorno. Raggiungo il mare. Mi incammino. Non è un giorno grigio. C’è il sole. E’ forte, ed ha un calore rapido, incostante, per via del vento. Non c’è che poca gente. Posso pensare di essere libero, di essere nuovo. Di vedere la spiaggia per la prima volta, di avere una meta. Sui parapetti, verso l’interno, si intravede una torretta d’avvistamento in cemento, costruita con i materiali recuperati dell’antica villa, verso cui vado, come ogni giorno. C’è un criptoportico e lo percorro. Al mezzo mi fermo, ascolto il vento che si insinua nelle finestrelle.
Al fondo una delle facce di Giano mi scruta. Cerco di raggiungerlo e di guardare verso l’infinito, verso il mondo nuovo. Forse è ancora il vento, forse è un sibilo. Forse sono io che cado. Qualcuno arriverà, sanno che vengo qui. Raggiungo la statua, faccio molta fatica, il dio vede chi mi uccide, e scruta il mio nuovo inizio. Sono i suoi occhi una porta. Doveva essere così, meglio rimanere solo, ho qualcosa anch’io da scontare. E mentre resto seduto ai piedi dell’erma, aspiro il profumo del sale, e guardo lontano, verso la fine del mio passaggio. Mi sembra davvero ora che non ci sia confine tra l’acqua e la terra. Mi sembra ora, questo, l’inizio.