Riccardo è un ragazzo pulito, una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta, una faccia da autocensurato, troppo da dire, troppo poco da riuscire a esternare davvero. Quella faccia da onesto e quella vocina timida sono un inganno planetario. A lui basta mettersi un cappello che non riesce a contenere quei capelli biondo cenere, dono della famiglia paterna siciliana di origine, un paio di occhiali che nascondano degli occhi verde-castano fortemente meteoropatici, che subiscono cambiamento sul passare delle stagioni.
Sta rubando, sta compiendo sacrilegio, sta proibendo a se stesso quello che il suo cuore gli ha detto che deve assolutamente fare. Forse è così che riesce a comunicare, visto che scrive una canzone per ogni emozione forte che prova. Solo per una non è riuscito a scriverla. Il suicidio di suo padre. Anima tormentata, fragile. Si è ammazzato nella maniera meno credibile. Se un pesce annegasse non ci crederebbe nessuno. Il padre di Riccardo nuotava, aveva nel mare una protesi. Anzi, il mare era la sua camera iperbarica di sopravvivenza. Per la precisione il padre di Riccardo ha avuto una dispersione. Non si è trovato più. Ma i testimoni affermano che da quella roccia ci si è buttato ed è sparito tra i flutti. E il mare, dicono i pescatori del molo che lo guardavano da riva con deferenza quel giorno non dava scampo. Lo hanno cercato, il non trovarlo ha alimentato leggende. Riccardo non crede ai fantasmi. Suo padre riposa fuori da quel mare. È il corpo che è incastrato da qualche parte.
È difficile per un figlio accettare una morte così. I padri muoiono per morte naturale o per incidenti sul lavoro. Ma il lavoro sembrava non riuscire a rivolere accanto un uomo che scivolava in una depressione lenta e ondivaga, un avvilimento a forma di verme, che con lentezza lo ha portato a buttarsi quel giorno di freddo inverno che non concede sconti manco se scaldi il cuore versandoci sopra cioccolato bollente. Riccardo non sa che cosa davvero gli ha lasciato suo padre. Era ancora piccolo quando è morto, lui stava ancora cercando di capire il senso dell’andarsene. Non sapeva come mai alcune persone non erano più nel suo raggio visivo, si era fatta qualche idea ma nulla di veramente logico, un processo che filasse liscio e coerente non c’era.
Qualche cosa la mette insieme, ogni tanto la madre gli ricorda con malinconie e rabbia che certi suoi modi o atteggiamenti sono propri di “quel disgraziato di tuo padre”. Ma lo dice con orgoglio rassegnato, di chi sa che certe correnti magiche non lasciano mai davvero chi si è amato da solo. Riccardo ha composto il puzzle di suo padre con le varie immagini che ognuno gli ha descritto. A un certo punto ha voluto anche incontrare tutti i vecchi amici paterni. Il risultato è stato un ritratto coloratissimo ma confusionario. In più ognuna delle persone che ha amato il padre ha di fatto inoltrato domanda per essere padre putativo di Riccardo.
Ha scritto canzoni su tutto, ogni tanto va dalla madre, dalla fidanzata che ne sopporta i silenzi e prende la sua chitarra e canta. Canta di tristezze, di piccole gioie, della serenità che gli porta il mare nonostante per lui sia un assassino che non gli ha dato indietro un corpo a cui ha diritto. Canta dell’amore senza retorica, della fatica che si fa a tenere unite le famiglie quando il cuore è grande ma il portafoglio piccolo.
La madre quasi giocoforza lo ha iscritto al conservatorio. Riccardo conduce una doppia vita, la mattina disciplinato studente, il pomeriggio idem, la sera suona e canta con la sua band. Vecchi compagni di classe che hanno fatto carriere diverse, avvocato, medico, ingegnere e lui che per ora si guadagna da vivere così.
Lui non canta cover, tutti pezzi suoi, si è già fatta una buona dose di fans, ma niente x factor o roba simile.
Che poi non è vero che non canta cover, due cantautori italiani sono nel suo repertorio. Uno lo chiama l’innominato o lo “zio lontano”. Il cantante che piaceva a suo padre e che col tempo ha allungato l’ombra della sua amicizia anche su di lui. Riccardo va a vederlo spesso, ma altrettanto spesso non riesce nemmeno a finire di sentire il concerto, torna a casa prima, l’innominato lo guarda, sa quanto è difficile per quel ragazzo anche solo dire il suo nome, prova a immaginare quale sensazione onnivora e gastrica prenda quell’abbozzo di uomo, lo saluta con lo sguardo e continua. L’altro è il suo idolo. Il suo cantante, quello che ha scelto lui quando era piccolo, quasi neonato gli dicono che vide un video e sorrise, da allora quel cantante era la sua colonna sonora. Quando si suicidò il padre era appena uscito il suo ultimo album, un titolo profetico: “vivi davvero, o non vivere”. E suo padre non è vissuto. Fecero in tempo ad andare a comprare il cd, che il padre gli regalò abbracciandolo forte. I gesti d’affetto li faceva spesso, per cui Riccardo non si allarmò più di tanto. Ma se proprio doveva notare una stranezza non gli incrociava lo sguardo, nemmeno per sorridere o fargli una smorfia, come faceva spesso.
Paolo Ruiz era il suo cantante, la sua seconda parte di repertorio di cover. Paolo Ruiz cantava di amore senza garantirne l’eternità di sentimenti così fatui come fuochi di cimitero, cantava di amici che spesso ti baciano sul cuore con lame taglienti e spesso ti chiedi se è amore o voglia di distruggerti. Paolo Ruiz, cantava come la vita veniva da troppo tempo anche in faccia a Riccardo.
Paolo Ruiz stava morendo. Ormai ritiratosi dalla scena musicale da qualche anno con lo status di leggenda il mondo discografico non aveva ancora trovato l’erede, che tradotto significava la nuova gallina dalle uova d’oro. Nonostante si fosse fatto molte volte la strada per l’inferno, Ruiz era sempre riuscito a ritornare. La cosa più assurda è che stava morendo praticamente di vecchiaia e di un tumore al fegato. Bisognava solo capire chi sarebbe arrivato prima. ricoverato alla clinica “nostra Signora delle Misericordie” extralusso, i primi giorni è andato e venuto dal coma con una serie di bollettini medici molto retorici che i fans avevano tradotto e scritto sui social network ognuno a suo modo, arrogandosi notizie di prima mano. per alcuni era morto e gloria infinita, per altri era morto e finalmente ce lo siamo levato dalle palle, per i più era vivo e bisognava fare incetta della sua musica e attendere pazientemente che saltassero fuori gli inediti postmortem.
Riccardo cammina per la città nottetempo, ha la chitarra in mano, un foglio nell’altra, un amico cui ha chiesto un favore, naturalmente concesso (chi può dire di no a Riccardo, che restituisce amicizia centuplicata?), nel cuore.
– Tu sei pazzo, non chiedi mai niente, adesso di botto mi chiedi un favore che se lo scoprono mi licenziano.
– Chi dovrebbe scoprirlo? Saremo solo io e te..
– ..e mezzo mondo che ci aspetta per azzannarci alla giugulare..
A dire il vero la mano trema e non deve tremare, non si possono fare queste figuracce, Riccardo si è allenato e di certo non è la freddezza che manca nei momenti importanti. Forse sua madre avrebbe potuto evitare di dargli quella notizia proprio prima di uscire. Dettagli, ostacoli, sassi sulla strada. Ma non massi insuperabili.
Non ha preso la macchina, ha voluto fare il lungomare, fianco a fianco con l’assassino di suo padre che ogni tanto provava a sondare l’umore di Riccardo con qualche onda audace, Riccardo non ha ceduto e non h abbassato lo sguardo, lui non odia il mare, certo poteva avere la delicatezza di restituire suo padre, ma non si sa mai, magari sul molo dietro l’angolo c’è un crocchio di pescatori che analizza un corpo restituito dalle onde e lui sa già chi è. Troppi pensieri in distorsione, bisogna mettersi ben concentrati.
È arrivato, gli sembra di essere davanti all’attesa del decesso del pontefice, troppa gente, troppa onda mediatica, troppi avvoltoi che sperano qui e la corrompendo il personale di arrivare prima alla notizia.
Cerca un alibi a paure che gli suonano nuove. Riccardo vorrebbe aver sbagliato posto. Una idea così folle non gli appartiene, non è nel suo patrimonio genetico, forse “quel disgraziato di tuo padre” direbbe sua madre..forse..
– – Dove vai Riccardo?
– -Esco mamma
– – Perché, hai un concerto?
– – In un certo senso mamma
– -Certe volte mi sembri..
– – “quel dis..”
– -No, quel povero Cristo, tuo padre era una pallina da flipper sbattuta in un mondo che lo faceva andare troppo veloce. Ha covato i suoi sogni e i loro gusci non erano solidi, devo dirti una cosa, forse è la sera giusta, che hai in mano, cos’è quel foglio?
– -È una canzone mamma
– -Non portarla con te
– -Che cosa? Perché?
– -Perché credo che questa lettera ti farà capire che devi cantare qualcos’altro
– – e me la dai ora?
– -Credo che non ci sia momento migliore per farti unire parti di te e mosaici che avevi difficoltà a ricomporre, prendi questa lettera e lascia qui quel foglio, lo so che sono l’ultima persona che può entrare nel tuo mondo, io sono razionale, ho dovuto esserlo ancora di più quando la parte istintiva di questa famiglia ha deciso di farsi un viaggio in mare. Ma non è vero che non aveva lasciato scritto nulla..
– -Tu approvi quello che sto per fare?
– – No, io dico che sei un pazzo, ma almeno devi esserlo fino in fondo, senza appigli e alibi. Dentro quel foglio non ci sei tu. È una canzone scritta a tavolino.
– – Vado, mamma, il foglio te lo lascio qui, la lettera la porto con me.
Arrivato, non può passare dall’ingresso principale, verrebbe subito bollato come mitomane o squilibrato, due termini che i giornalisti utilizzano non appena qualcuno esce dal seminato dei comportamenti ordinari, salvo poi non sapere che termini utilizzare per definire chi pazzo lo è davvero. Fu un calciatore una volta a fargli notare come certi termini andavano usati con intelligenza. Durante i mondiali del 94 chiesero a Baggio se pensava che l’eliminazione dell’Italia contro la Nigeria sarebbe stata una tragedia. Lui calmo rispose:
– “Credo che il termine tragedia sia da usare per le carestie o i bambini che muoiono, l’eliminazione di una squadra di calcio non sia una tragedia e se lo è c’è da preoccuparsi.”
Grand’uomo Baggio, una delle cose che Riccardo ricorda del padre è che amava questo calciatore anarcoide, “che peccato che non lo vedrai mai giocare” gli disse una volta.
Gira dal retro, legge la targa sulla porta per essere certo che sia il posto giusto: “quando arrivi alla clinica prendi la stradina in discesa, c’è una porticina invisibile a molti, da li facciamo entrare i fornitori di farmaci, o usciamo noi dottori per fumarci una sigaretta senza essere notati, bussa due volte e ti apro”. Così gli ha detto il suo batterista, alias Giacomo, alias uno dei più importanti oncologi della Clinicanostrasignoracomecavolosichiama che Riccardo si è già scordato.
Sente il brusio dei cronisti appostati all’ingresso principale, al buio tutti ammassati, sembrano un grande brontosauro nero che fa fatica ad addormentarsi e muggisce infastidito.
Bussa e gli viene aperto, evangelicamente perfetto, tranne le bestemmie e le parolacce che l’amico gli rivolge e si rivolge per aver accettato di far parte di questa stronzata. Giacomo è l’oncologo più importante dell’ospedale, a lui è affidato Ruiz per gli ultimi giorni di vita
– “Non capisci Giacomo, Paolo Ruiz io non l’ho mai conosciuto, stadi di milioni di spettatori, gente che gli scrive per ogni sorta di cavolata, una rockstar come lui non mi guarderebbe nemmeno, io devo vederlo, mi ha svezzate, cresciuto, ti sembrerà assurdo ma sono stato io a farlo conoscere a mio padre, quando ha capito quanto mi piaceva si è quasi convertito, gli sembrava assurdo che un bambino prendesse una posizione così netta sulla musica.”
Suo padre, all’inizio la pensava una cosa passeggera, a tre anni lo vedeva rovistare nei cassetti per mettersi il cappello come Paolo Ruiz, cantare come lui e fare anche il gesto del dito medio durante la canzone “se vuoi fottermi, fottiti”. Ovviamente a tre anni sapeva anche le parolacce dette da Paolo. I dvd fanno miracoli nell’apprendimento. “se piace a te che sei un bimbo sveglio non deve essere tanto male”. Aveva conquistato anche il padre che all’insaputa di Riccardo si era fatto una cultura su Ruiz.
Alla fine anche Ruiz stava sparendo dalla vita di Riccardo senza che lui avesse mai avuto occasione di dirgli qualcosa di suo, delle sue emozioni. A volte si incazzava con il padre per non avergli dato l’occasione di volergli bene, per aver tranciato ogni abbozzo di emozione portandola con sé in fondo al mare. Stavolta non si sarebbe portato con sé l’ennesimo sentimento incompiuto, Riccardo avrebbe parlato con Ruiz.
– – I familiari sono qui?
– -È in terapia intensiva Riccardo, qui non dovresti esserci nemmeno tu, nemmeno io se è per questo, eccolo lì, stanza 238.
238, ventitré otto, il giorno del suicidio del padre, ventitré agosto, altra cosa imperdonabile, si era suicidato all’alba del suo quinto compleanno.
Entra, silenzio sacrale, il mito è davanti a lui e puzza di piscio e ospedale, di odori e umori che escono dal corpo e che i disinfettanti non fanno altro che esasperare. È difficile pensare che la più grande rockstar che Riccardo abbia mai adorato, è li morente. “puoi anche ballare nudo non ti sente e non ti vede”, l’oncologo ha dato la sua diagnosi.
– Io vado Riccardo, hai mezz’ora, poi dovremo ritornare per verificare le sue condizioni.
Una penombra inutile, le atmosfere ad hoc non hanno mai esaltato Riccardo, nemmeno Ruiz se è per questo. Riccardo prende un attimo di tempo per leggere il foglietto che gli ha dato la madre, quello per cui ha rinunciato a portare la sua canzone prefabbricata.
È una lettera del padre, del giorno del suicidio, la madre ha tenuto nascosta per tanto tempo una tessera del mosaico che forse avrebbe ricomposto alla bell’e meglio qualcosa di “quel disgraziato di..”.
Caro Riccardo
Intanto non ti arrabbiare con tua madre, in una lettera che avevo scritto a lei avevo detto di darti questa solo in una occasione importante, un momento in cui avessi deciso di fare pace con me. immagino quanto tu sia arrabbiato, ti ho levato un padre, la possibilità di giudicarlo, demolirlo, criticarlo e batterlo in ogni sport in cui avessi mostrato i muscoli. Ti ho tolto tanto e non me lo perdonerò mai. Ma le “scimmie che ballano” nel mio cervello stanno prevalendo. Questa frase ti faceva ridere, ti sbellicavi quando papà ti diceva che in testa aveva le scimmie che ballano. A me col tempo quelle scimmie mi hanno demolito. Non sarei stato un padre di cui andare fieri e tra questa delusione e il dubbio, preferisco darti la possibilità di immaginare un padre diverso. Volevo solo dirti una cosa, ultimamente, prima di decidere di andarmene, ho fatto spesso un incubo con dentro un sogno. Avevo l’incubo di vederti con una valigetta 24 ore che mi parlavi di trading, mercati on line, azioni e che mi dici “papà, non hai capito un cazzo della vita”, poi questo orrore sfumava e ti vedevo su un palco, come il tuo idolo, in uno stadio pieno di gente che canti le tue canzoni libero di poterti esprimere, così famoso da poterti permettere di rifiutare ogni mercificazione della tua immagine, ti immagino con i ragazzi che ti eleggono a loro riferimento. Io spero che questa sia la tua strada, anche se è giusto che tu sia felice, pure con una valigetta in mano. ti voglio bene, anche se non ci credi.
Vorrebbe piangere, ma c’è da parlare a Ruiz, trattiene il bolo e prende la chitarra.
– Ciao Paolo, lo so che non puoi sentirmi, ma sappi che per me sei stato un amico lontano, è il mio destino avere affetti da immaginare a distanza, non riesco a amare nessuno da vicino, anche mia mamma o la mia fidanzata se si avvicinano troppo mi vedono tirare fuori le spine. Volevo solo salutarti, come si deve, cantandoti una canzone che per me ha un doppio valore. È per te e per mio padre, non so chi dei due riuscirà a sentirla, ma eccola.
Anime incastrate nei fondali cercano la strada
Anime che la vita non la odiano vada come vada
Lasciamo immaginare agli stolti vie disperate
Le notti intense valgono per quel poco che le hai vissute
Lasciami pensare che sei qui con me abbracciato
Perdonati l’inferno in cui credi di avermi abbandonato
Nessuno è solo se ci sono angeli
Nessuno è solo anche con i diavoli..
..tre minuti di pura invenzione senza testo e con una chitarra che sembrava suonare da sola,
riprende la chitarra e va via, dire qualcosa a cornice dei sentimenti appena espressi in note non è il suo forte.
– Ciao Paolo, ricordati di salutarmi mio padre quando lo troverai.
Giacomo riaccompagna Riccardo fuori, la notte è calma, il mare concilia stranamente una pace che Riccardo non gli avrebbe mai concesso. Ma stanotte può perdonare anche l’assassino di suo padre.
Il brontosauro mediatico si è appisolato, Riccardo non è stato individuato, apparentemente non è successo nulla. Paradossalmente è la metafora della vita moderna attaccata perennemente a internet o alla tv o ai social network. Se nulla viene detto in quella sedi, nulla è successo. Se nessuno ha filmato un incontro, gli occhi non basteranno a garantirne la verità.
L’ospedale si sazia del silenzio che nelle proprie stanze non è mai gradito. Il tacere degli ospedali non è mai uguale al silenzio di una notte d’estate in riva al mare eppure è la stessa qualità.
In terapia intensiva Giacomo entra nella stanza di Ruiz:
– -Tutto a posto, è andato via signor Ruiz
– -Mi dispiace non averci potuto parlare, in fondo non so se potrò farlo mai
– -Mi creda signor Ruiz, se Riccardo le è piaciuto e vuole darle quest’opportunità, quando capirà che cosa abbiamo architettato credo che varrà più di mille discorsi.
– -Il merito è tuo Giacomo, sei riuscito ad arrivare a me come non avrei mai sperato, in fondo essere l’oncologo di una clinica e curare casualmente la rockstar preferita del proprio migliore amico non capita spesso. Poi mi hai dato i cd con le canzoni di Riccardo, sarebbe una pena non aiutarlo.
– -Devo dire che la cosa più difficile è stata tenere segreto tutto il giorno che lei era uscito dal coma, ma anche far finta di non essere d’accordo con Riccardo e indurlo ad avere questa idea.
– -Ti prego, mi resta poco da vivere lo so, vorrei solo che fossero informati delle mie possibilità di comunicare solo mia moglie, mio figlio e il mio produttore. Tieni lontani telecamere e giornalisti.
– Tranquillo signor Ruiz passeranno da dietro e non li vedrà nessuno.
Paolo Ruiz morirà di li a qualche giorno, per i malati di fegato è normale entrare e uscire dal coma negli ultimi momenti. Caso ha voluto che Ruiz potesse far finta di essere incosciente mentre Riccardo gli metteva in mano la sua anima incastrata, in una notte che di anime ne ha disincastrate tre, quella di Riccardo che non farà più andata e ritorno tra le sue angosce, quella di Ruiz che sta per consegnare a un ragazzo il ruolo di suo erede, telefonando la notte stessa al suo produttore e imponendogli di ascoltare quel ragazzo solo dopo la sua morte e di considerare il suo percorso artistico un suo volere testamentario.
Riccardo va proprio sul palco, così si disincastra anche la terza anima, quella del padre, che non importa dove sia il corpo, almeno ha visto fuggire via il suo incubo, suo figlio canterà libero.
I giornali, le tv e i social network alla morte della rockstar non si spiegano perché, da fonti attendibili, si dica insistentemente che abbia sorriso poco prima di chiudere gli occhi e cantato qualcosa che parlava di anime incastrate nei fondali che cercano la strada…
(Gli scritti di Zanca, sono pubblicati dai siti “Informare per Resistere (clicca qui) e Beneficio D’Inventario (clicca qui)