“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Chi non se le ricorda questa frase? Campeggia sul muro, affianco alla mia scrivania, che è la mia casa, la mia vita, la mia amica, la mia stessa pelle. Appena sopra c’è la pergamena della mia laurea. Che ho finalmente appeso dieci anni dopo che l’ho conseguita. Non so neanche perché.
Avevo poco più di sedici anni quando mia madre mi fece trovare questo biglietto tra i libri di scuola. Pensai che dava i numeri. O che fosse il suo strano modo di incoraggiarmi in uno dei miei tanti momenti bui. Strano perché a me in quei momenti proprio quello mi sembrava il modo peggiore. Parole come quelle intendo. La verità è che ci ho messo del tempo a comprenderne il senso. Il senso che lei aveva voluto indicarmi. E ancora oggi non ne comprendo la giustizia. Almeno in questo mondo. Ancora oggi mi chiedo se la mia vita non sarebbe stata migliore se fossi stato un po’ di meno. Meno intelligente, meno dotato, anche fisicamente, che la natura, almeno lei, non mi ha fatto mancare niente, meno convinto delle mie idee, meno sognatore anche, e simpatico, brillante, pulito, fiducioso. Per fortuna la fiducia alla fine la perdi, quella negli altri, che sembrano non aver altri scopi che minare quella che hai in te.
E’ strano. E’ strano che il mio primo pensiero sia sempre uguale, sempre questo, dopo tanti anni. Anche adesso che so bene di non pensarlo. Perché se non ne ho compreso la giustizia so bene di averne compreso i motivi. Forse non li ho accettati, che non riesco a farlo, per questo mi monta la rabbia, ma li ho compresi. Comprendere l’ipocrisia non significa accettarla. Ed omologarsi.
Ho vissuto di frasi come “chi ha di più deve dare di più”. E ho scontato il mio avere di più ogni maledetto giorno della mia vita. Lo sconto anche oggi. Perché è vero e giusto che chi ha di più ha il dovere di dare di più ma è anche giusto che i suoi sforzi, la sua volontà siano premiati di più, quantomeno alla pari di chi avendo meno dà meno. Perché è giusto che anche chi ha di più paghi gli errori ma che li paghi come li pagano tutti, non di più. E perché niente è più falso e meschino di chi, in cambio di quello che ogni giorno toglie alla tua voglia di fare, ti dice “lo faccio per te”. Non lo fa per te. Lo fa perché ha bisogno di sottometterti. Ha bisogno di avere per sé qualcosa di più, in cambio di ciò che gli manca. Ha bisogno di piegarti. “Mi aspettavo di più”. “Tu devi fare la differenza”. E il di più non è mai quello che dai, non è mai abbastanza, e anche se lo è vale meno di niente. E della “differenza”, quando di lasciano spazio per farla, anche quella non è mai abbastanza differente. Ho tentato decine di volte di essere all’altezza delle aspettative. Che si alzavano ogni volta che riuscivo non a raggiungerle ma a superarle. E ho mollato decine di volte. Mentre tutti andavano avanti. Mentre tutti diventavano ai miei occhi più in gamba, più bravi di me. Mentre tutti mi passavano avanti. Ho rinunciato decine di volte. Anche alle cose che amavo di più. Rinunciare mi sembrava l’unico modo di vincere, di non mettermi in fila per ultimo. Se non ci sei sei fuori, non sei dietro nessuno. Forse non vinci ma almeno non perdi. E invece perdevo. Perdevo i miei sogni. Perdevo ogni voglia. A volte perdevo anche quelli che allora credevo fossero amici. Che si sentivano autorizzati a sentirsi migliori di me. E saziavo l’invidia che è affamata di equilibri, che l’eccellenza travolge.
Mi chiudevo in camera e mi spendevo nel nulla. Non potevo disegnare: amavo farlo, ero bravo davvero, ma avrei potuto fare di più. Non potevo scrivere. Ero bravo, geniale, ma qualcuno aveva deciso che non era abbastanza. Non facevo più sport: sì perché anche lì, lì dove in teoria contano i risultati, il mio di più non era mai quello che ci si aspettava; e anche se era dieci volte di più di quello che dava un altro era lui che meritava di stare in campo, non io, che non ero abbastanza da non deludere. Con la musica era finita allo stesso modo. Perché avevo iniziato per gioco e per gioco mi era riuscito. Ovviamente troppo e troppo in fretta. E chi faticava a starmi dietro trovò presto un modo per frenarmi: “Tu puoi fare di meglio”.
Anche la frase di mia madre mi sembrava dire lo stesso. In realtà dice lo stesso. Ma lei voleva dirmi altro. Voleva dirmi quello che so oggi, dietro la mia scrivania a scrivere, a disegnare, a comporre musica. Quello che so al lavoro. Mentre do tutto me stesso senza tregua, senza tempo, senza limiti. Quello che so quando sono solo e mi conto sulle dita di una mano le persone che nella mia vita contano davvero qualcosa, quelli che, come per me, gli altri non sono che numeri. Con dentro sogni spezzati che nessuno gli ha lasciato sognare.
Quelli che hanno di più pagano più di tutti. Il prezzo più alto è la solitudine. Il prezzo più alto è una strana forma di disprezzo, che è diverso da quello che chi ti invidia ha per te. E’ un disprezzo che ti ferisce ogni giorno e che combatti ogni giorno perché quando hai tanto di più, che quel tanto sia poco, sia molto, sia abbastanza, sia all’altezza delle aspettative del mondo o non lo sia, bruci dalla voglia di darlo, agli altri, a quelli che prendendo diranno potevi darmi di più. E non diranno mai grazie, che conta anche poco. Non diranno mai bravo, non lo sarai mai abbastanza. Nessuna giustizia dunque. Nonostante sia giusto dare di più. E nessun premio. Tranne quello che tu dai a te stesso ogni volta che vinci. Che ti rispetti. Che alzi la testa e ti guardi allo specchio e di là il tuo sogno, il tuo talento, il tuo impegno, la tua volontà, non importa che cosa, ti fa l’occhiolino, da sopra alle occhiaie, sotto la fronte sudata, che ti asciughi con le mani stanche, che hanno sempre e ancora voglia di ricominciare.
Potevo essere meno. Potevo essere abbastanza. Godermi i miei piccoli premi, le mie piccole soddisfazioni, chiudere il lavoro fuori la porta di casa e andarmene al cinema, o al bar con gli amici. Potevo avere una donna per sempre e dei figli e un cane e tre settimane di ferie. E aspettarmi da qualcuno, da ognuno, che mi desse di più. Per restare deluso ogni volta.