Le tende schermavano il sole. Il sole si accaniva sui balconi bianchi, sulle spiagge calcinate di sassi, brillava immoto al centro del mare. Era una stella fissa e maligna, che cadeva giù di schianto all’ora prestabilita, all’ora che tutti attendevano.
La casa era invece in ombra. Le tende la proteggevano da quel lume costante e infuocato. Ed era Settembre. Sulla riva non c’erano che pochi villeggianti, spaesati come se fossero atterrati su Marte, generalmente pallidi, camminavano lentamente come in preda ad una grande residua stanchezza.
Anche io prendevo le mie vacanze. La mia convalescenza, più che altro. Nel momento in cui avrei dovuto radunare amicizie e conoscenze, io mi staccavo dal mondo. Venivo qui, su questo balcone bianco con le tende a righe verticali. E il mare. Potevo sentirlo mentre cercavo di dormire e non ci riuscivo perché mi assalivano al buio tutte le paure più ovvie, nel mio caso. Lentamente, al posto delle paure, entrava il movimento del mare, e a volte dormivo, a volte sognavo, ricordavo tutte le cose più recenti, compreso l’abbandono. E al mattino, quando ogni terrore attendeva il mio risveglio per precipitarmisi addosso, cercavo con l’orecchio, le voci di chi passava davanti al balcone, coppie tardive, signore con bambini linfatici che avevano bisogno del mare di settembre, e dopo sarei arrivato io, mi sarei accodato agli ubbidienti adoratori della spiaggia semideserta.
Certo è che mi annoiavo, mi deprimevo, ricadevo sul carattere mio, quello vero, non quello ostentato al mondo. Quello che camminava con me quando avevo i calzoni corti e le gambe gelate mentre andavo a scuola. E che ora mi animava un poco verso una certa autocommiserazione, e anche un esaurimento delle forze. Non ero sfinito solo fisicamente, avevo il morale a pezzi, ero stanco. Ogni prospettiva mutata. Ero solo, non come lo si è genericamente, questo isolamento si era approfondito.
Nell’ora più calda aprivo l’ombrellone, quello che lasciavo la sera sulla spiaggia, un becco solitario puntato verso il cielo nero. Avrei dovuto andar via, ed invece rimanevo, perché la luce era terribile, l’azzurro si esaltava, il verde della pineta intorno diveniva furioso, la spiaggia non era che un blocco bianco e accecante. Indossavo una maglietta bianca per difendere la mia ferita, e guardavo. D’altronde, cosa può fare un fotografo? Non c’era questo mare in Africa, né queste notti fresche contro le giornate afose. Neppure la ricordo se non vado a cercarmi le foto nei giornali che le hanno pubblicate. Non c’era azzurro, non questo, molto giallo, e verde denso, e bianco, e rosso. A volte ho dovuto usare dei filtri, la luce mi faceva male. Anche quello che ho visto mi ha fatto male. Mi ha fatto letteralmente ammalare. Ma dicono di no, che già c’era tutto bello e pronto per il tavolo operatorio. C’era del nero, c’è stato per giorni, credevo di avere un disturbo alla vista. Ora non c’è più. Per un po’ non ho potuto nemmeno guardarmi. Sul ventre avevo una benda bianca. Ho provato, nel dormiveglia dell’antidolorifico, a piazzare un lenzuolo bianco sul mio spirito. Non anima, non pensiero, volevo riparare lo spirito. Sentivo di averlo, capivo cosa fosse, che le distinzioni sulla materia mi avevano sempre fatto ridere. Ed invece non c’è che il sangue a farti rimbalzare sullo spirito, a rifletterlo come in uno specchio sorprendente.
Ma non c’è riparo, né sicurezza. Tranne qui, fittizia, con la testa sotto l’ombrellone, e gli occhi verso le dita dei piedi, che sono il mio orizzonte, il limite del corpo mio, questo corpo mi ha deluso.
Allora lo addormento. Se si alza un po’ di vento, e il mare si agita, per riflesso mi addormento. E comincio a lavorare. Sono sempre io e ho come una maschera davanti al volto, e mi aggiro, a volte tra la gente, a volte sono sul tetto di un autobus, a volte in alto, molto in alto e gli uomini si muovono come formiche ed io ne rido. Risento anche la musichetta della sala operatoria, e il parlottare dei medici, rivedo la mia compagna che mi saluta, e mia madre, addirittura, sull’entrata di quella casa, la casa dove è avvenuto tutto, forse c’era anche lei dunque, se continuo a sognarla là, e se ansiosamente cerco di decifrare il suo volto, ma la lente enorme che scherma la mia maschera, mi impedisce di stabilire chiaramente le emozioni sul volto di quel fantasma. Allora mi sveglio, e so che il sogno è stato pietoso, e che è ad occhi aperti che rivivrò ogni momento della grande malattia. Ah, sono frammenti, due uomini in divisa che trascinano un morto per le gambe, ragazzini avvolti in stracci che dormono sulla terra, nessuno piange, nessuno dice niente, non è vero che il dolore ha qualche espressione esagerata, il grande perpetuo dolore è inespressivo, è muto. E oggi riconosco che è così la faccia del fantasma che viene a me con il sembiante di mia madre.
Dunque mi sveglio. Qualcuno fa il bagno, i pochi bambini neppure schiamazzano, perché il Settembre mitiga con la sua sola presenza, con il suo solo nome, quella lenta svolta del sole, quel declino della stagione, quella calma nonostante qui ancora l’estate non sembra voler andar via, eppure ecco l’autunno, nelle sferzate fredde del mattino, mentre cammino sulla sabbia umida, e in fondo non c’è che un dritto ferro gelato, come se si fosse su un altro emisfero. Non ci sono innamorati, né coppie. Il mezzogiorno passa mitemente, e la sera arriva più rapida, dopo l’arco delle due, quando tutto sembra non muoversi più. E allora decido di non andare via. Di rimanere ad aspettare che la luna si immerga nelle acque notturne. Non posso temere qui che me stesso. Non lo sapevo prima, che a furia di fotografare violenza, e fiori calpestati, e cieli estesi, e le stanze ridotte delle prigioni. E massacri, e sorrisi, insomma, a riprodurre il mondo e l’uomo nel mondo, io mi sarei perso.
Mi ero perso sulla porta della capanna. C’è la foto, un attimo prima ero vivo, un attimo dopo non più. L’uomo veniva portato via da altri due, ed un terzo gli ha sferrato un calcio in mezzo al petto. La foto si è scattata da sola. La macchina, il mio lavoro, il mio occhio, ora non c’è più. Neppure chi ha picchiato il mio amico, perché io…Mi tocco la ferita. Quella che guardo di sfuggita, quella che non voglio misurare. Ma ora la guardo. La luna la illumina dal fondale del mare, riverbera verso il mio ventre. E’ una lunga ferita, mi sembra di meritarmela tutta. Non posso ancora dirlo quello che ho fatto. E sono ancora vivo. Era un uomo crudele, e mi ha reso simile a lui. Più in là il mio amico è riuscito a liberarsi, ma non ci siamo più trovati. Non voglio vederlo, sono andato via impunito, nella grande confusione. C’è qualcosa di nero, c’è sempre stato, per questo mi trovo così bene nello schermo delle tende, nel favore della notte, nel silenzio, nell’assenza dell’anestesia. Mi sono già giudicato. Ho assunto il volto di mia madre, è un rimprovero senza appello. Il mio amico lo amavo.
Almeno questo, almeno questo è vero.
Sara Milla