Ago e filo. Colla e viti. E scotch, nastro isolante, pinze, pinzette, forbici, giraviti. Di ogni possibile dimensione. E poi due, tre computer accessi contemporaneamente e i tuoi occhi e le tue mani che scorrono veloci dall’uno all’altro o le tue dita frenetiche che smontano, aprono, montano, chiudono. Tu non mi guardi e pensi che io non lo faccia mai. E invece ti guardo, spesso. Aggiusti le cose. Quelle che capitano. Nuove, vecchie, utili, inutili, non importa. Poi levi e metti programmi, pulisci i dischi, testi connessioni. E pensi. Si vede quando pensi. I tuoi occhi si svuotano di tutto e cercano dentro, in un dentro che è tuo ma neanche tu sai dov’è ed è fatto di tutto il mondo che hai incontrato, letto, ascoltato, osservato. Cerchi soluzioni. Soluzioni perché le cose tornino in vita. “Bisogna aver rispetto per le cose. Le cose hanno una storia”.
Ogni tanto provo a parlarti. Io non ho mai molto da dire. Non sono abituato a condividere emozioni. Qualche volta ti sei arrabbiata e hai detto che in realtà non ne ho. Qualche volta ci ho pensato. Cioè ho pensato che forse era vero. Che io non avessi emozioni. Che mi fossi disabituato a sentirle. Non so neanche se per scelta o per routine. Non me lo ricordo neanche. La verità è che non ci penso. Io non penso oltre quello vivo, che mangio, che bevo, che vedo. E non so se lo faccio perché fa meno male o se perché ho la testa piena di altre cose. Quelli che tu chiami i progetti inutili. Perché senza soldi non si va da nessuna parte. Perché tu sei quella che qualunque idea, pensiero, sogno si mette in un posto, nero su bianco, e si studia come si fa, in quanto tempo, con quali cose o con quali forze. E con quanti soldi. Ti ho detto a volte tu non sai volare e non vuoi provare a farlo. “Io ragiono” è stata la tua unica risposta. Tutte così le tue risposte. Brevi, lapidarie. Tu ragioni, tu sai, tu fai. Ormai non spieghi neanche più. Forse è colpa mia. Colpa mia che quando di cose ne dicevi e tante io continuavo a guardare i miei documentari in tv, a leggere le mie riviste, a navigare nelle mie idee. Quando non mi addormentavo. E non ho smesso. E’ quello che faccio anche oggi, mentre di tanto in tanto sollevo lo sguardo su di te. Per vedere se ti fermi. Se mi guardi. Se ti accorgi che sono ancora qui.
Ti parlo. Cioè cerco di farlo. Ma le uniche cose che riesco a dirti sono sempre le stesse. “Guarda questa scena!” “Devi leggere quest’articolo” o peggio “Quando pensi di cenare?” “Cosa c’è da pagare?”. Tu mi rispondi senza neanche girarti, quando rispondi, neanche infastidita ormai, meccanicamente. Conosci le domande e hai pronte le risposte. La risposta: “Non adesso”.
Così guardo le tue mani. Che si muovono. E che da un tempo infinito non si posano su di me. “Non mi baci mai”. Era una frase che dicevi – quanti anni fa? – e che ora vorrei urlarti io, quando torno a casa e trovo la porta lasciata socchiusa, per evitare di venirmi incontro per aprirla. “Non mi piace baciare” ed ero sincero. Eppure oggi mi manca. Mi manca perché so che tu non vuoi baciarmi. Che non me lo chiederai. E mi capita di domandarmi se lo hai mai voluto davvero. Anche quando me lo chiedevi. Mi capita di guardare indietro. Di cercare momenti in cui ti ho visto felice, in cui ci ho visti felici. In cui sono stato felice. Capita raramente. E per pochi istanti. Tra un’idea e un pensiero, un documentario e una rivista.
A te deve essere capitato più spesso. Perché forse hai preso ad aggiustare le cose quando hai sentito che non potevi più aggiustare nulla nella tua vita. Quando hai capito o deciso che non avresti più volato. Ed io o un altro avanti a te saremmo stati la stessa cosa. O forse no. Forse io ho solo reso tutto più facile. Con la mia distrazione, con la mia “assenza”. Calma piatta. Quella ti serviva per andare avanti senza sentire la tua voce.
Aggiustavi le cose quando ti ho conosciuto. E stringevi i pugni. Non hai mai smesso.
Eppure qualche volta provavi ad urlare. Oggi no. Oggi c’è solo silenzio. Lo stesso che ti ho dedicato io – per quanto tempo?
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Stasera fa mi hai chiamato in ufficio. “Noi dobbiamo parlare”. Non è esattamente così. Ci hai provato altre volte. A dirmelo. Ci provi da tempo. Da quando… Dio! La verità è che non lo so da quando! Da quando non mi apri più la porta? Da quando non mi tocchi più? Da quando mi hai chiesto di portare via quelle quattro cose che avevo a casa tua che erano “Dire decenti è un affronto alla decenza!” “Ma sono cose comode, per la casa!” “Che son buone per far da cuccia ai poveri randagi, o per farne pezze e non sopporto più di vederle qui”? O è stato da quando hai comprato il divano nuovo? O da quando… Eppure me lo hai detto, sono sicuro che lo hai fatto. Mi ricordo rabbia e stanchezza e fughe e lacrime e occhi vuoti e distanti. Sono io che non ti ho sentito. Io che stasera come le altre dieci, cento, mille sere, non ho voglia di ascoltare. Ho paura? Non lo so. Non me lo sono chiesto. Non mi sono mai fatto queste domande. Paura di che? Di perderti? Ti ho mai avuto? Mi hai mai voluto? Ora tutte queste domande mi riempiono la testa ma io non ho le risposte perché non le ho pensate. Sento che vorrei del tempo e sento che ne ho avuto troppo. Infinito. Un tempo lunghissimo nel quale tu hai aggiustato un mare di cose. E so che se ne avessi ancora lo sprecherei. “Non posso venire stasera”. Ci ho provato. Lo stesso. A prendermi un giorno in più. Ma poi ti ho richiamato: “Vengo, magari più tardi, ma vengo”.
Avevo le lacrime agli occhi ed ero insieme livido di rabbia con me stesso la sera in cui ti ho detto ti amo, no, “penso di amarti” la prima volta. Ed erano settimane che ci rimuginavo, mentre tu eri al mare. Non riuscivo ad accettare l’idea di sentirlo e peggio ancora l’idea di dirtelo, di scoprirmi. L’unica cosa che ricordavo dell’amore era il dolore di perderlo. Tu eri tornata per me. Per parlare con me. Era per parlare con me che eri tornata. Non per ascoltarmi. Quanti anni fa? E invece mi avevi ascoltato. E non avevi più parlato. Ma neanche mi avevi abbracciato. O sorriso. Avevi stretto forte, più forte i pugni. Forse è stata quella la prima volta in cui tu hai provato a parlarmi.
Quando sono arrivato mi hai aperto la porta e mi tolto da mano la borsa, le buste della spesa, le mie riviste. Hai poggiato tutto in un angolo e mi ha detto: “Parliamo in cucina, lontano dalla televisione. Dalla televisione e dal divano e da una posizione troppo comoda in cui potresti addormentarti”. Questo me lo ricordo. Credo volessi provare ad ascoltarti. O forse no. Forse volevo solo che tu pensassi che lo stavo facendo. Seduto su quella sedia scomoda le tue parole, migliaia, milioni di parole cadevano come un diluvio e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era per quanto tempo sarebbe piovuto. Calma piatta. Di questo avevo bisogno per vivere. Il problema era che io la volevo con te. Mentre pioveva mi sono alzato e tu non hai neanche cercato di fermarmi. Cercavo di raggiungere il divano, di portarti vicino alle tue cose da riparare, ai tuoi computer, alla tua scrivania. Tu invece seguivi me e continuavi a parlare. “Vuoi sederti? Va bene. Vuoi accendere la tv? Va bene. Non smetterò di parlare e di dire quello che ho da dire stavolta. E se non mi ascolterai sarà una tua precisa scelta”. Hai preso il telecomando e l’hai accesa tu la tv. Hai messo su uno dei miei programmi preferiti. Forse allora a volte mi guardavi. O mi ascoltavi. Forse lo facevi più di me. Ma non hai smesso di parlare.
Quando hai finito… non lo so quando hai finito, credo dormissi. Mi hai svegliato. Quindi dormivo. Mi hai detto: “Io ho finito”. Finito, finito, finito… Credo ti stessi guardando. Tu mi stavi guardando. “Vuoi dire qualcosa tu adesso? Vuoi dirmi che pensi? Vuoi dirmi che senti?” “Non ho niente da dire”.
Ti sei alzata. Sei andata alla tua scrivania e hai acceso un computer. Poi hai tirato fuori da una scatola un vecchio cellulare e hai cominciato a smontarlo. “Quando ceniamo?” “Non adesso”.
Non ricordo se abbiamo cenato. Non ricordo di averti neanche guardato mentre armeggiavi con quei mille pezzetti sparsi sul piano di vetro. Mentre ridevi leggendo qualcosa sul video del tuo computer. Ricordo che ho dormito. Come sempre sul divano, semi vestito, avanti alla tv accesa tutta la notte. La mattina nel buttar via la busta del latte che avevo finito ho visto nella pattumiera il cellulare che stavi provando a riparare. Dormivi quando me ne sono andato. Non era più tempo, per aggiustare le cose.
Cinzia Craus
verismo, realismo del XX secolo…vera, bella, conosciuta, ripetuta… vita