“Maledizione! Dove diavolo sei?” Mi ci vollero almeno quaranta secondi, credo, per sciogliere la lingua impastata di alcol e di fumo e rispondere a mia sorella che sbraitava dall’altro lato del telefono. Mia sorella… da quando mamma era morta era lei a svegliarmi e ripetermi almeno tre volte al giorno la stessa frase. Eppure non si erano mai conosciute.
Quel giorno era corsa da me mollando il lavoro e i bambini non appena lo aveva saputo. Non appena nostro padre la aveva avvisata. Mi sono sempre chiesto come abbia trovato la forza di chiamarla, ma non ho voluto mai saperlo. So come lui lo ha saputo e so che con me non ha avuto la stessa forza. Non so se farlo, avvisarla, per lui sia stato una specie di gesto dovuto o un regalo. Di fatto mi ha restituito in qualche modo una famiglia, nel momento in cui la stavo perdendo.
“Papà… nostro padre ha avuto un altro infarto, sono in ospedale. Marco, non ce la farà questa volta.”
Attaccai senza neanche rispondere. Il dolore alla testa era lancinante. Mi rotolai giù dal letto e mi aggrappai alla scrivania per sollevarmi dal pavimento. Dovevo vomitare. Vomitare e farmi una doccia. E correre da mia sorella prima che mio padre, prima che nostro padre, se nemandasse. Volevo che mi vedesse; volevo che ci vedesse, insieme.
Dopo pochi minuti ero in strada al volante, ancora completamente sedato dall’alcol da non riuscire a sentire altro. Forse non volevo sentirlo. Volevo solo far presto, arrivare presto, arrivare in tempo.
Senza neanche rendermene conto, nonostante la fretta e lo stato in cui ero, calcolai meccanicamente il percorso che avrei dovuto fare per arrivare all’ospedale senza incorrere in posti di blocco. Le abitudini, certe routine quotidiane, sopravvivono a tutto. Quando ci ripenso a volte mi sembra davvero assurdo che in quel momento la mia mente abbia scelto quel percorso tortuoso per evitare una stupida multa mentre mio padre, mentre nostro padre, stava morendo. Una ridicola multa per mancanza di specchietti retrovisori. Ne avevo collezionate diverse quando chiusi i miei rapporti con Camilla e feci a pezzi metodicamente tutti gli specchi che potevo incontrare nella mia vita.
Venti anni. Era passata quasi metà della mia vita da allora e io non mi ero mai ripreso.
Conobbi Camilla a una festa. Avevo da poco compiuto ventiquattro anni e lei aveva due anni in meno. Non era di quelle ragazze che “spaccano”, neanche di quelle che si notano. L’avrei definita “simpatica”. Ma quando ci presentarono i nostri sguardi si incrociarono e mi sentii completamente perso. O completamente ritrovato. Non sapevo spiegarmelo allora. Mi sentii “a casa”.
Cominciammo a frequentarci. Andavo a prenderla all’ università, in palestra, spendevamo insieme tutto il tempo che avevamo. Avevo voglia di lei e lei di me. La nostra voglia potevi toccarla, eppure passavano i giorni e non riuscivamo neanche a sfiorarci. Parlavamo, parlavamo per ore di tutto e di niente, ci raccontavamo, soprattutto lei, mi raccontava di sé, delle sue storie, dei suoi amici, della sua famiglia, di suo padre. Lo amava intensamente e io, che un padre lo avevo avuto per modo di dire, finivo per invidiarla. “E’ per questo che non la bacio” pensavo “mi parla di lui e mi monta la rabbia e l’invidia e non riesco a baciarla”.
Mio padre non mi aveva neanche riconosciuto. Aveva lasciato mia madre prima che io nascessi e aveva frequentato la mia vita come si frequenta un’amante. Di nascosto dal mondo. In momenti rubati. A sua moglie, a sua figlia, alla sua “vera” famiglia. E io ero innamorato di lui come un’amante e come un’amante lo odiavo.
Andammo avanti così per quasi un mese, fino a quel weekend che fermò la mia vita. I genitori di Camilla erano andati in montagna e lei si era inventata una dozzina di plausibili impegni per non seguirli. “Vieni da me stasera, non ho voglia di uscire. E poi sai così tanto di me che ho voglia di metterti tra le mie cose”. Aveva detto proprio così: di “metterti” tra le mie cose.
Cercai tutto il giorno di non pensare, di non proiettarmi in avanti, ma ero inevitabilmente eccitato. Eccitato e insieme spaventato. Insomma di ragazze ne avevo avute ed ero di quelli che non perdevano un colpo. Ero uno figo, per dirla come dicevano tutti, anche un discreto bastardo, per dirla come dicevano molte. Ma con Camilla era stato tutto diverso. E quello che trovavo ogni volta nei suoi occhi e che nei suoi occhi mi faceva sentire completamente nudo mi preoccupava.
Mi aprì la porta sorridendo, con quel sorriso che dal primo giorno avevo registrato come qualcosa di familiare. Non mi baciò, come sempre. Mi sentii quasi protetto da questo, da quella specie di barriera che dal primo giorno impediva ogni contatto tra noi. La stessa barriera che era impregnata
del nostro desiderio. Mi fece strada nel lungo corridoio e mi portò nel soggiorno. Mi indicò lo stereo dicendomi che avrei dovuto aspettarla lì, doveva preparare una cosa per me, e uscì dalla stanza.
Misi su il primo cd che mi capitò tra le mani e cominciai a guardarmi intorno. La parete di fronte a quella dove si trovava la console era tappezzata di quadri. La cosa mi fece sorridere: mia madre ne aveva a decine, ereditati dal nonno, accatastati sotto il letto perché in casa nostra non c’era una parete libera per accoglierli. Eppure piacevano molto ad entrambi. A volte, quando ero bambino, li tiravamo fuori e passavamo le ore a guardarli e lei mi raccontava di tutto, dell’autore, della tecnica, di quello che sentiva guardandoli. A volte mi inventava delle storie bellissime partendo da un fiore,
da una casa, da un ombra su un prato, da una nuvola. Mi avvicinai per guardarli meglio. Dovevano essere quadri di un certo valore, pensai, la famiglia di Camilla era una famiglia benestante. Rimasi deluso invece, quasi stizzito, rendendomi conto che la maggior parte di essi erano riproduzioni di importanti opere d’arte. La trovai una cosa di pessimo gusto. Cominciai a scorrerli distrattamente
richiamando alla memoria autori e periodi e insieme la noia mortale di quando al liceo ero costretto a studiare storia dell’arte.
“Caravaggio. Non mi ricordo di questo quadro, ma i colori e le linee sono sicuramente le sue”. Mi avvicinai al quadro per guardarlo meglio. Era sicuramente Narciso quello raffigurato nel quadro. Un ragazzetto imberbe in estasi davanti al suo riflesso nell’acqua. “Come si può essere così sfigati da
innamorarsi di se stessi?”. Quando cacciai questa frase davanti al mito di Narciso mia madre per poco non ebbe un attacco di bile. La feci dannare sui libri con me tutti gli anni del liceo ma in genere riuscivo sempre a strapparle un sorriso con le mie battute. Quella volta no. Montò su tutte le furie e stette su quasi un’ora a spiegarmi il senso del mito nelle più diverse e controverse teorie. Cercai davanti al quadro di ripercorrerle nei ricordi, ma più guardavo il quadro più mi sfuggivano tutte, tutte tranne una. “Narciso non si innamora di sé ma di quella parte di sé, fuori di sé, che vede riflessa nell’acqua.
Quella che da lui è stata separata prima che uomini e donne fossero esseri distinti. Il mito degli androgini di Aristofane.” Sorrisi pensando a Camilla. Ad un tratto però cominciai ad avvertire uno strano malessere del quale non capivo l’origine. Presi automaticamente il cellulare e cominciai a sfogliare le foto che avevo di Camilla. Pensavo ai suoi occhi e a quello che sentivo guardandoli. E pensavo a quella barriera che ci teneva lontani. Guardavo le foto e guardavo Narciso. Guardavo le foto e guardavo il suo riflesso. Mi tornava in mente la prima sensazione che avevo avuto: “casa”. Mi tornava in mente il suo sorriso e il vocabolo con cui lo avevo registrato “familiare”. E cancellavo quelle parole con la frase che mia madre aveva aggiunto alla spiegazione del mito a cui mi aggrappavo:
“Ci si ri_conosce negli occhi dell’amato”. E cancellavo con rabbia un’altra maledetta teoria che mi stava stringendo lo stomaco fino a togliermi il fiato. Quella che mi aveva costretto a prendere il cellulare. “Secondo la versione riportata da Pausania…” Aprii di nuovo il cellulare e cercai tra le
nostre foto insieme quella che lei, per gioco, aveva montato mettendo insieme due nostre snapshot* da webcam mentre parlavamo su Skype. I nostri riflessi nel video dei nostri computer. Conoscevo il suo viso a memoria e non lo avevo mai visto. Ricordavo il suo sorriso e i suoi occhi da sempre e non li avevo ricordati.
Apri il portafogli e ne estrassi una foto di quando ero bambino. Una foto con mia madre e mio padre. Senza neanche guardarla la fissai alla cornice del quadro. In punta di piedi attraversai il corridoio che avevo percorso insieme a Camilla e chiusi la porta dietro di noi.
Arrivai in reparto trafelato. Avevo fatto le scale di corsa per non perdere tempo aspettando l’ascensore. Trovai mia sorella accanto a mio padre, a nostro padre, che le teneva la mano. Non si vedevano da quasi venti anni. Non lo vedevamo da quasi venti anni. Lui aveva gli occhi gonfi e
socchiusi e un viso stanco e respirava a fatica. Piegò una smorfia del viso fino a farla somigliare al sorriso dei nostri incontri e mi tese la mano. Guardai mia sorella prima di stringerla. Lui sorrise ancora e mia sorella rispose con lo stesso sorriso.
Se ne andò in qualche ora. Lasciando me e Camilla da soli.
Pausania individua la fonte di Narciso a Tepsi, in Beozia. Lo scrittore greco trova incredibile (usando le sue stesse parole “idiota”) che qualcuno non sia in grado di distinguere un riflesso da una persona reale, e cita una variante meno nota a cui dà più credito. In questa versione Narciso aveva una sorella gemella, del tutto somigliante a lui, con la quale andava spesso a caccia insieme. Narciso alla fine si innamorò di lei e quando questa morì, recandosi alla fonte, capiva di vedere la propria immagine, ma quel viso assomigliava così tanto alla sorella amata che gli era di grande consolazione.
*snapshot è una foto dell’immagine che appare sullo schermo di un computer. Durante una conversazione con webcam l’immagine sullo schermo è l’immagine della persona con cui stiamo parlando.