16 Maggio 2024
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4 thoughts on “Salvatore Giuliano: il test del Dna conferma che è lui

  1. VIAGGIO A TORONTO
    Siculiana 25 marzo 2010
    Alphonse Doria

    “Eccellenza
    Non desidero essere coinvolto nelle curiosità che mi potrebbero circondare (almeno per il momento).
    Però per quanto riguarda la posizione religiosa di Salvatore Giuliano, devo affermare in qualità di sacerdote che il giovane è morto con il perdono di Dio. Sono del continente e qui lo conobbi due anni a dietro circa, perché mi cercò. Confessò i suoi errori dei quali era relativamente responsabile. Preoccupato solo di salvare sua madre. Deciso a non fare del male a nessuno, ma non a costituirsi: due mesi mi cercò in Isola ed io per salvare un’anima lo esaudii. Si confessò pentito, quanti pochi così ne vidi, mi promise che non avrebbe più sparato salvo legittima difesa, promise come un bambino per paura del castigo di Dio, promise di vivere ramingo e di accettare la morte alla prima occasione in espiazione dei suoi mali.
    Lo consolai povero figliolo e lo assolsi, assicurandogli il Paradiso.
    Desiderava la comunione ma non mi fu possibile accontentarlo, dato che io non volevo essere troppo notato in Palermo.
    E’ però probabile che l’abbia fatta in una chiesetta che io gli indicai di buonora.
    Sicuro di non rivedermi più, lasciandomi mi baciò dicendomi: che sarà cosi come me l’ha promesso, ci rivedremo lassù. Dio voglia che sia una pecorella del suo ovile ritornata in seno a Dio. Non sempre il giudizio degli uomini è simile a quello di Dio.
    Sta ora a V.E. se è il caso o meno di dare consolante notizia alla sua vecchia madre con autorizzare suffragi.

    Umilmente in. G.C.
    Padre Agostino Reni
    Via Pescara Milano – Luglio idì 1950”
    (Lettera scritta nel luglio del 1950 da padre Agostino Reni, un prete milanese, al vescovo di Monreale Ernesto Filippi)[1]

    Dopo venti anni, era arrivato dal Canada Vicenzu Pumadoru. Lui dice di essermi cugino, ma non ho mai riscontrato questa parentela, poco importa. Lo chiamavamo così perché vendeva pomidori per le strade e abbanniava: “Pumadoru! Pomadoru!”. Mi ricordo che canticchiava con la musichetta dei bersaglieri questa canzoncina: [2]“Garibardi sutta u’ ponti chi vinniva pumadora, la valanza ‘un ci pisava Garibardi si la minava.”
    Dieci anni fa, non lo potrò mai più dimenticare, quella mattina del 7 aprile del 1984, ci fu un trambusto tanto, uscimmo tutti dal bar, era scappato dal macello di don Pasquale Marchetta un vuteddu.
    Don Pasquale stava sparando in testa al povero animale, segnato dal suo destino, quando la bestia all’improvviso si mosse e lui la colpì di striscio. Il vitello fuggì via a testa bassa caricando chi gli stava davanti. Non era la prima volta che succedeva. Così quella bestia ferita correva per le strade di Camico.
    Chi chiudeva le porte e s’affacciava dai balconi, chi invece correva incontro all’animale per catturarlo. In realtà, ogni volta, s’innescava un’aria di festa tra tutti noi, si risvegliava nei nostri animi qualcosa di antico, tanto da interrompere qualsiasi attività in corso e così improvvisare questa specie di corrida. Chi correva di qua, chi di là, le grida: “Cca è!”. I picciotti si paravano davanti la bestia che caricava, spaventata e inferocita. E’ capitato che qualcuno andò a finire scornato in ospedale. Poi si riusciva in qualche cortile a bloccarlo e così infine, stanco per il sangue versato dalla ferita e per le corse, veniva immobilizzato e ucciso. Ognuno a tal punto tornava alle sue cose.
    Quella mattina Vicenzu Pumadoro, preso dall’euforia di quella corrida paesana, prima si tracannò un bel bicchiere di marsala a l’uovo, e poi guardando le fotografie, mise la mano su quella di Giuliano, disteso a terra in quel cortile di Castelvetrano e mi disse tistiannu:
    -Cuscì, chistu ‘un è Giulianu!- Pensai, senti che minchiata sta sparando questo …
    -Giuliano è ancora vivo!-
    -Cuscì, ma ti rendi conto di quello che dici?
    -Io mi sono preso il caffè con lui, mille volte, e abbiamo parlato del più e del meno. E’ a Toronto, sta bene, si gode la vecchiaia, si fa la sua partita di populu a carte, non parla molto, ma quello che dice ha la sua importanza.
    Questa notizia è stata come una rivoluzione mentale. Credergli o non credergli? Non riuscivo più a dormirci sopra e più cercavo di non pensarci più mi si presentava davanti con tutta la forza sconvolgente del mistero che avvolge la storia di questa terra nostra di Sicilia.
    Vicenzu Pumadoru, insisteva, raccontandomi che una volta era riuscito a fargli mostrare le due ferite di moschetto all’addome, quelle di Quarto Mulino. E le ferite c’erano, tutte e due!
    Le mie due figlie: Costanza e Lucrezia, sono più pazze di me, così insieme ai mariti, mi organizzarono il viaggio per Toronto. Il 19 marzo 1986, al mio 55 compleanno mi hanno fatto la sorpresa, il biglietto aereo!
    -Ma ju non so nemmeno dove andare? Non abbiamo parenti!
    In realtà, loro avevano pensato ad ogni minimo particolare.
    Non vi racconto il volo in aereo, perché la storia è troppo lunga. Sono stato con le orecchie attupate per tutto il viaggio, sentivo come se fossi dentro ad una bolla di sapone. Palermo, Roma, Amsterdam, Toronto. Da lassù ho visto i ghiacciai e sembrava non finissero mai.
    Arrivai alle quattro di pomeriggio, all’aeroporto trovai i cugini di Gianluca, mio genero, il marito di Lucrezia. Tutto era grande! Loro, i cugini, erano gentilissimi, parlavano siciliano, però a modo loro ed erano contenti di conoscermi.
    Salii su quella macchina che era per tre volte una di quelle nostre. Quando ho detto a loro che con quell’auto sicuramente in piazza non potevano venirci. Si misero a ridere come pazzi e dissero quella famosa barzelletta ritrita:
    -In America le strate le chiamiamo stritti e ammeci sono larghe, in Sicilia le chiamate strate e ammeci sunnu stritti!
    Fece finta di averla ascoltata per la prima volta e per essere cortese risi come un imbecille.
    Passai due settimane con questa famiglia pazza sempre in movimento, senza un attimo di tregua. Mi fecero conoscere amici, familiari, mi sono sentito veramente importante.
    Nel loro scantinato avevano una vera armeria. Più di dieci fucili con relativi mirini di precisione. Poi attrezzature per costruirsi loro stessi le munizioni. Non solo, avevano una specie di poligono con tanto di sagoma, movibile. Insomma mi fecero sparare con diversi fucili e pistole. E visto i risultati mi ci trovavo. Rimasero delusi, quando ho dovuto dichiarare la mia avversità alla passione delle armi, anzi, ne ero proprio contrario.
    Non per questo motivo hanno desistito, una mattina prestissimo, di trascinarmi a caccia. Mi portarono su una montagna, mi fecero fare tanta di quella strada che non mi sentivo più le gambe. Poi finalmente uccisero il loro cervo e così siamo tornati.
    Non ho capito quale fosse il loro lavoro, la loro attività economica, perché parlavano solo di caccia, pesca e di un camper, con il quale si giravano il Canada e gli Stati Uniti. Ma me ne sono rimasto con la curiosità dentro lo stomaco e non chiesi a loro mai spiegazioni, da buon siciliano.
    Così mi portarono pure a pescare su la loro imbarcazione che quanto era grande sembrava un piscariggiu.
    Il padre e la madre se ne stavano in giardino ad arrustiri carni nni la tannura. In quella famiglia avevano tutti la passione di mangiare carne a più non posso. Carnivori dai bambini agli anziani! Questa è l’America che ho visto io.
    I due cugini mi hanno dato una grandissima soddisfazione. In quei giorni il discorso verteva continuamente sulla Sicilia, la sua storia, la politica e tutto ciò che un sicilianista come me, incomincia a vomitare fuori con gli occhi spirdati di pazzo. Si, perché mi sono visto una volta per caso allo specchio del bar, mentre parlavo di questi argomenti, e vi giuro che mi sono conosciuto appena. Che hanno fatto i due cugini? Un giorno siamo entrati in un locale dove vi era un baffuto biondo e capelluto, uno di quei vichinghi uscito fuori dalla pellicola di un film, e si fecero tatuare tutt’e due una grande e bella trinacria! Joe, sul cuore e Lillo sull’avambraccio. Volevano che anch’io ne approfittasse di quel maestro, anche se fui molto tentato, ho riflettuto che non era per me più l’età di queste pensate.
    Tutto questo succedeva tra una visita e l’altra al bar Venezia. Loro non lo frequentavano perché era molto distante da dove abitavano, anche se le distanze per loro erano relative. Riflettevo che per spostarmi da Camico e andare a Palermo, che so, o a Catania, per me, quello era un viaggio da organizzare per benino. Loro si spostavano per lunghissimi tratti, da uno stato all’altro, senza ragionarci minimamente.
    Comunque ogni giorno eravamo lì, facevamo qualche partita a carte con i frequentatori, con la speranza di quel fatidico incontro. Niente di niente. Ormai ero entrato in confidenza. Vi erano Siciliani, Calabresi, Pugliesi, insomma ci capivamo tutti.
    C’era chi si metteva da parte a discutere, a me non riguardava, così mi allontanavo per non ascoltare. Con il mestiere mio queste cose o te le impari o hai chiuso bottega da tempo.
    Questo mio modo di comportarmi fu osservato da chi di dovere e questo bastò per avere dato una buona impressione. Tanto che, nei giorni successivi, uno anziano lì presente osservando la mia trinacria d’oro all’occhiello della giacca, mi chiese se ero del partito di Finocchiaro Aprile. Io gli risposi:
    -Di Finocchiaro Aprile, Castrogiovanni, Canepa e Giuliano!
    Ormai era l’ultimo giorno, ero preso dalla delusione, di non avere ricevuto nemmeno una conferma della presenza di Giuliano in quel bar, anzi, mi giuravano che non avevano visto nessuno con quelle caratteristiche. I cugini mi avevano lasciato lì, avevano impegni loro, mi venivano a prendere fra un pajo d’ore. Ero passato ai saluti con alcuni di loro e mi ero confidato, della mia speranza, sicuramente l’amaro che avevo dentro usciva fuori. Ad un certo punto il ragazzo biondiccio al bancone, mi chiamò:
    -Mister Giovanni! Venga, c’è qualcuno che le vuole parlare.
    Il calabrese seduto accanto, sorridendomi mi chinò la testa per dirmi: vai!
    Seguii quel giovane che mi indicò, una porticina, che tramite una scala stretta e un corridoio, portava in un appartamento privato, un signore in giacca e cravatta mi disse di accomodarmi, facendomi strada. Pensai, ci siamo! Quando entrai vi era un elegante salone e proprio sopra il salotto vi era uno stemma dorato, che io conoscevo abbastanza bene: l’aquila e il leone rampante che sostengono il medaglione con tanto di trinacria circoscritta. Io gli disse a quel signore:
    -L’astuzia dell’aquila, la forza e il coraggio del leone, per liberare la terra di Trinacria!
    -‘Ass’a benedica!
    Dalla porta accanto era entrato, un elegante signore anziano aiutato dal suo bastone, con atteggiamento austero, nonostante dritto con la fronte larga e un bel sorriso giovane.
    Il sangue mi salì subito tutto in testa, fu un colpo e dentro me pensai: E’ lui!
    -Mister Giovanni! Paisà!
    Mi sono sentito scuotere la giacca era il barista, che mi svegliava. Lo stress, la stanchezza mi ha giocato un brutto scherzo, e mi sono appisolato sul divano in fondo al bar. Non so per quanto, dieci minuti? Un ora? Ed ho sognato, è stato solo un sogno. Mi alzai, scuotendo la testa, come un asino che non ha voglia di muoversi, stesi un po’ le gambe e mi avvicinai al bancone:
    -Me lo fai un bel caffè? Espresso però!
    Mentre sorseggiavo il mio caffè, dando una taljata panoramica a tutto il locale, proprio nel tavolo di fronte vi era un gruppetto di tre anziani. Uno di questi con una elegante coppola nera in testa, il bastone di legno in mano e due occhiali larghi con i vetri giallo scuri, faceva finta di non guardarmi. Sorseggiai ancora un po’ quel caffè, che non aveva il sapore di quello nostro, e mi avvicinai a quel tavolo.
    -Scusate, posso sedermi con voi?
    L’anziano con gli occhiali mi fece cenno con la testa acconsentendo la mia richiesta. Erano tutt’e tre in attesa di una mia spiegazione.
    -‘Ass’a benedica. Sono venuto dalla Sicilia, per incontrare una persona speciale.
    Scrutavo quel signore anziano, che rimaneva nel suo riserbo totale e da dietro i vetri degli occhiali si scorgeva il suo sguardo enigmatico, il quale con la mano mi fece cenno di proseguire.
    -Un mio parente, mi disse che questa persona speciale l’avrei trovata proprio in questo bar. Già da quindici giorni che sono qui, si è fatto il tempo di tornare a casa, con mio rammarico, senza successo.- Mentre frugavo con lo sguardo nel viso dell’anziano per trovare una somiglianza con Giuliano, anche minima, che non trovavo, però sentivo dentro di me, che quella persona era lui. Una semplice sensazione. –Sono sicuro, non mi chieda perché, che vossia mi può dare una mano d’aiuto.
    L’anziano stette quasi un minuto, che mi sembrò una eternità, a fissarmi dentro gli occhi, dopo si scompose un po’ e mi disse in perfetto italiano e con voce ferma:
    -Questa persona per lei deve essere veramente speciale, visto che ha fatto tutto questo viaggio per incontrarlo. Mi tolga una curiosità, come si chiama questo suo parente?
    -Vincenzo Taormina, di Camico.
    -Vincent Pumadoru?- E sorrise.
    Quel sorriso, come nel sogno di poco fa, mi diede la certezza che era lui.
    –Vicenzu Pumadoru … quello che quando arrivava si metteva a banniari davanti la porta “ah! chi bellu pumadoru chi haju! Accattativi u pumadoru!”
    Dentro al bar si misero tutti a ridere, ricordandolo, pure il barista, mentre stava pulendo alcuni bicchieri da vino con il tovagliolo.
    La mia perseveranza e la mia intuizione si erano convogliate in quella persona ed ero certo che quell’anziano, ora che aveva tolto la maschera enigmatica in quel sorriso aperto, era Salvatore Giuliano! Mi sentii come un brivido per tutta la schiena, una eccitazione come quando si percepisce che un momento va vissuto con interezza, perché, quel preciso momento, fa parte della grande storia e non della meschina quotidianità.
    Guardai attorno e attentamente i due anziani, così, con un soffio di voce e per giunta incerta, fissandolo negli occhi, gli sparai:
    -E’ vossia?- Ci fu silenzio, il barista rimase come in un fermo immagine. –E’ vossia, Salvatore Giuliano?
    L’anziano abbassò gli occhi e con la testa fece segno come dire: non è possibile.
    -Ma lei crede a Vincent Pumadoro? Quello è un pazzo completo, uno che gli piace scherzare, sparare minchiate all’impazzata.
    Ad un tratto si fece serio e con tono secco sparò:
    –NO!
    Quel NO mi piegò in due come se fosse stato un cazzotto dato allo stomaco.
    -La vede questa trinacria? Io … è da bambino che credo nell’idea di una Sicilia libera. E non ho mai pensato, un solo istante, che Giuliano abbia sparato al suo Popolo. Ed ho pianto lacrime amare quando hanno parlato della sua morte. Ora se lei fosse il colonnello Giuliano e mandasse via uno come me, senza farsi riconoscere, vossia rinnegherebbe il suo Popolo, la sua Terra, ancora una volta.
    Mi uscirono quelle parole come un raffica di mitra, fissandolo dritto a gli occhi. Lui si tolse gli occhiali e mi appizzò lo sguardo addosso. Il suo volto sembrò subire una metamorfosi assomigliando ora ad un’aquila. Incuteva timore!
    -Ho detto no, ed è vero. Ma la verità ha tante facce come un diamante. Ora tu vieni, qui insieme a quegli altri giovani, parenti di tuo genero, perché Vincent Pumadoru ti raccontò di avere visto Salvatore Giuliano, e ti vuoi levare lo sfizio di scoprire la verità! Come se la verità fosse una prostituta con le cosce aperte pronta a farsi fottere di tia!
    -Vossia sa, cosa potrà mai significare sapere che Giuliano l’ha fatta in barba a tutti, ancora una volta?
    -Cosa potrà significare? Che Giuliano ha venduto la sua Terra, il suo Popolo, per avere salva la vita. Un meschino, un traditore!
    -La lotta per l’indipendenza ormai era finita!
    -La lotta per l’indipendenza non finisce mai, perché anche dopo averla conquistata la si devi difendere!
    -La sua figura storica, il suo ruolo ormai era finito. Era finito il tempo della guerriglia … Vossia è Giuliano!
    -No!
    -Vicenzu Pumadoru, mi disse che le ha visto pure le ferite!
    -Quel fituso, pazzo di Pumadoru, mentre ero a cesso con le brache calate, entrò e mise le dita sopra le mie cicatrici, come San Tommaso a Gesù risorto! Ma quelle non sono ferite d’arma da fuoco, quelle sono frutto dell’operazione chirurgica che mi sono fatto fare alla cistifellea, negli Stati Uniti, dieci anni fa. Mi hanno operato con l’ultima tecnologia dell’epoca.
    Gli altri due si misero ghignare conoscitori dell’accaduto. Mentre guardavo attentamente avevo ormai la certezza che quel volto con le rughe, quello sguardo così penetrante e quel sorriso aperto, erano di Giuliano. Oppure ero io che volevo credere di non avere attraversato il mondo inutilmente? Era più di un intuito, o una impressione, era qualcosa di oggettivo. Per questo motivo mi ero rattristito così tanto che mi si leggeva nell’espressione del mio viso, così piegai il capo sconfitto.
    Ad un certo punto, si alzò in piedi poggiandosi al bastone, mi fece segno di seguirlo e ci siamo messi in un tavolo in fondo.
    Il barista mise della musica di flauto e chitarra, una voce maschile cantava: “Palumedda janca janca chi ci porti ‘nta sta lamba?” Rispondeva una voce femminile: “Ju ci portu pani e vinu fazzu la zuppa a lu Bambinu!”
    Le mura del bar, fino a due metri d’altezza, erano coperte di pannelli di legno scuro, pertanto, in fondo, dove ci eravamo seduti, non vi era molta luce, così u zzu Turiddu si tolse gli occhiali e a schiena dritta mi fissò in un silenzio misterioso, che valeva più di mille parole, quel silenzio impietriva. Si! era proprio Salvatore Giuliano e nemmeno mille dei suoi no avrebbero potuto cancellare quella mia convinzione.
    -Io ho conosciuto Giuliano, molto da vicino, ma l’ho conosciuto nella maniera giusta attimi prima la sua morte. Porto rispetto alla sua memoria più di chiunque altro.
    -Lo sa quanti libri articoli di giornali ho letto? Quante fotografie ho visto e rivisto tante volte, tanto che qualcuna la ho esposta nel mio bar e qualche omu di liggi ha fatto opposizione, ma io, non ne ho voluto sapere. Mi sono fatto un chiodo fisso, di tutta la questione, perché la lotta indipendentista siciliana è finita con vuscenza. Chi ha architettato Portella delle Ginestre, ha lasciato la firma, ma l’ha ben congeniata per uccidere moralmente l’eroe della liberazione del Popolo Siciliano. La sua morte fisica poi è servita per la rassegnazione totale. L’eroe, l’inafferrabile, è stato eliminato, stramazzato a terra, tradito e ucciso, punto!
    -Leggo nel tuo cuore attraverso i tuoi occhi e capisco il tuo dramma, per questo oggi voglio farti dono della mia verità.
    Quando ho udito quelle parole, il cuore mi si gonfiò e senza volerlo mi sgorgarono due lunghe lacrime che sentii solcarmi il viso. Così presi il fazzoletto dalla tasca e mi asciugai. Ero pronto a credere ad ogni cosa di quella figura austera di anziano, dal volto imperturbabile, mentre il suo corpo lievemente segnava le sue parole.
    Riprese a parlare, dopo un altro dei suoi silenzi profondi.
    -Certi uomini, il destino lo hanno scritto nei loro cuori. Quando poi nella loro vita ci si presenta il bivio, quel destino, come una forza, prende il sopravvento! E volenti o nolenti, deciderà il percorso da intraprendere di quegli uomini. Noi Siciliani lo chiamiamo destino, forse è il volere di Dio, il daimon platonico, oppure la Terra che si ribella nei cuori dei propri figli. Così, la Sicilia, al suo figlio Turiddu Giulianu, ha dato quella forza, quel coraggio e il profondo sentimento dell’onore, da divenire concretamente la ribellione alle angherie subite, come quelle degli uomini soggiogati dai padroni, la ribellione contro un colonizzatore politico che stava riprendendo le forze dell’oppressione. Turiddu Giulianu è la ribellione al torpore della rassegnazione del Popolo Siciliano. Per questo ancora oggi hanno paura al solo ascoltare il nome di Turiddu Giulianu, perché ancora oggi, nonostante tutto, è vivo nel cuore di ogni Siciliano che subisce ogni ingiustizia sociale e politica. In ogni Siciliano costretto a subire le mortificazioni per i diritti sociali negati, costretto a subire ogni genere di sopruso e illegalità, vi è un intimo segreto, un muto desiderio di riscatto e il loro pensiero va dritto all’icona del riscatto siciliano: Turiddu Giulianu!
    -I giovani Siciliani, però, spesso li vedo con le magliette di Che Guevara …
    -Se Giuliano fosse stato comunista allora il suo mito sarebbe diventato uno strumento di propaganda dei comunisti di tutto il mondo. Ma non lo fu, come non era, anticomunista. Lottava i ricchi, togliendo i loro soldi, era protetto dal proletariato, non per paura, ma per amore! Basti pensare che il suo luogotenente era un comunista accanito: ‘Aspanu! Poi, quando ci fu la scissione nel MIS, Giuliano si mise con il MIS-DR di Nino Varvaro, comunista, alle elezioni del 1947, fece un patto elettorale con il maggiore esponente del PCI, Girolamo Li Causi. Furono l’evoluzione di quei fatti, come il patto non mantenuto da Li Causi, l’inganno politico e il progetto anti indipendentista del PCI per ordini avuti dall’Unione Sovietica, che lo trasformarono in un agguerrito nemico dei dirigenti comunisti.
    -Portella delle Ginestre?
    -Quando Giuliano si è reso conto della tragedia di Portella, ha capito con amarezza come quelle vittime sono state sacrificate al potere della nuova Italia. Quello è stato l’inizio della “guerra fredda”, quello è stato l’atto di podestà per la Sicilia alla mafia nella funzione gladio. Anche il PCI ha utilizzato quelle vittime. I dirigenti siciliani sapevano, ma hanno taciuto, non hanno avuto il coraggio della presenza, hanno utilizzato anche loro quei contadini, proletari come vittime sacrificali per iniziare una campagna di vittimismo eroico, per avere concesso quella fascia di spazio di legittimità, omologazione e potere, rassegnati ormai, ad uscire dal potere di Stato. E nella commissione antimafia i compagni del PCI, il primo Li Causi, sapevano, ma omertosi hanno fatto silenzio, sulle dimensioni internazionali e il coinvolgimento della DC d’allora accordata con la mafia, scaricando tutto su Turiddu Giulianu.
    -Vossia ancora ha questo risentimento su Li Causi.
    -Rimani convinto che io sono Giuliano … Ecco cosa è successo in quel strano momento storico della Sicilia. Era la primavera del 1950 e da parecchi giorni mi sentivo osservato in paese, la sera in piazza, persino in campagna mentre lavoravo, avevo la sensazione che qualcuno mi stesse spiando. Era vero! Mentre ero alla robba, mi sentii salutare, erano tre persone, armati di mitra, due li conoscevo così bene anche se non li avevo mai incontrati: ‘Aspanu e Giuliano. Mi sono sentito il sangue tutto in testa. Il sorriso di Turiddu mi rasserenò, mi chiese dell’acqua, io presi la lancedda e gliela porsi. Lui ringraziò e fece bere prima ad ‘Aspanu, poi bevve lui. ‘Aspanu, con espressione di meraviglia, si rivolse a Turiddu: “Guardato da vicino, fa impressione! Questo è perfetto, non è come gli altri due …”
    Io non capivo, ma ero così agitato, speravo solo che se ne fossero andati al più presto. Invece Turiddu fece cenno di sederci in qualche parte. Mi guardò a lungo, poi mi chiese il nome.
    “Ti chiami Turiddu come ammia!”
    “Pure il nome ha lo stesso!” Intercalò ‘Aspanu. Giulianu mi spiego che dovevano fare un film su di lui e avevano bisogno un attore che gli somigliasse, ed io corrispondevo a quelle caratteristiche. Mi opposi cercando varie scuse, la terra, la famiglia. Mi avrebbe pagato una cifra che rimasi a bocca aperta e che per la famiglia sarei rimasto in contatto. Insomma accettai. Passai quei mesi con loro. Giuliano aveva una camera da presa e le scene le girava personalmente. Mi precisò che il film vero e proprio doveva girarlo un famoso regista di Roma. Ricordo che un giorno mi fecero fare la parte di Turiddu che caduto in una imboscata dai carabinieri rimane colpito dai loro proiettili e ucciso. Dovevo fingere di morire, urlare, Aah! E stramazzare a terra. Quella era l’ultima scena. Rimasi sconfortato per la fine del film. In fondo una fine inaspettata e che sicuramente avrebbe gettato nello sconforto il Popolo Siciliano. Infondo era finzione, lui era vivo con tutta la sua energia e questo mi rassicurava. Quasi tutto si svolgeva, in un terreno e un caseggiato, forse di Alcamo, sicuramente in provincia di Trapani. Turiddu e Pisciotta si allontanavano interi giorni, rimanevo con alcuni dei loro picciotti. Ad un certo punto capii di essere quasi un loro prigioniero, perché ero guardato a vista.
    Intanto i mesi passarono ed ho notato un cambiamento sostanziale, su tutti quanti, non regnava più quell’ordine di prima. Giuliano se ne stava a scrivere a volte intere giornate, Pisciotta si vedeva più raramente. Un giorno mentre Giuliano era via, ho tentato la fuga, mi trovai uno dei guardiani addosso con la sua pistola puntata sulla mia testa. Da quel giorno incominciarono a legarmi le mani e i piedi. Ho avuto certezza della cruda realtà. Ho fatto mille costruzioni con la mia mente, ma non concepivo quale fosse il loro programma. Quando poi mi trasferirono a Castelvetrano mi dissero che bastava una mia mossa falsa e finivo la mia vita crivellato come un colabrodo. Ero rinchiuso in una stanza al piano di sopra, uno di quei giorni interminabili e senza data mi venne a trovare Giuliano, mi liberò e poi guardandomi, come lui sapeva fare, mi disse:
    “Io sono uomo d’onore e mantengo sempre la mia parola. Devi avere fiducia e fare, senza cercare spiegazioni, quello che ti ordino!”. Abbassai la testa acconsentendo, ma tremavo dalla paura. Da quel giorno stavo sempre accanto a lui, ho ascoltato il memoriale mentre lo scriveva e mi mise a conoscenza pienamente di ogni cosa, sia a me che al Di Maria. Quest’ultimo l’ho conosciuto completamente diverso da come è stato descritto in seguito, dalla stampa e dai libri: taciturno e solitario. Invece era molto eloquente con Turiddu e con me, e di tanto in tanto non mancava di intercalare umoristicamente con qualche battuta. Forse avrà messo a disposizione la sua dimora per qualche favore che doveva a Marotta, lo avrà fatto anche per una sostanziosa ricompensa, ma una cosa è fuor di dubbio: aveva una ammirazione e stima per Salvatore Giuliano grandissima. Gregorio Di Maria con il suo carattere comunicativo era un uomo di cultura, piaceva leggere e conversava con Turiddu di politica, di storia tra i due vi era complicità e rispetto.
    Sono rimasto colpito dalla profonda fede in Dio di Giuliano, è capitato più di una volta di accorgermi che era assorto in preghiera. E’ questo il terribile assassino che parlano i giornali di tutto il mondo? Mi chiedevo, come è possibile?
    L’inizio di luglio fu un continuo succedersi di eventi, di incontri, di comunicazioni. Confesso che avevo una paura fortissima che s’insinuava dentro la pelle fino alle ossa. Ero terrorizzato di come mi guardava ‘Aspanu, tanto che ero deciso a fuggire alla minima occasione. Così avevo fatto finta di andare al gabinetto e invece mi ero partito per l’uscita secondaria. I due avevano intuito e mi bloccarono all’istante. Fui legato di nuovo mani e piedi con del filo di ferro sopra il letto nella stanza di sopra.
    La sera del quattro luglio sentivo parlare giù ‘Aspanu e Giuliano, in maniera concitata, senza minimamente preoccuparsi che qualcuno di fuori potesse ascoltarli. Poi Giuliano salì e mi disse con tono deciso:
    “Ascoltami attentamente perché non posso ripetere quello che ti sto per dire. Ora io ti libero, prendi i vestiti che sono nell’armadio e indossali, compreso il cappello, qui c’è questa busta con questi documenti e questi soldi, prendi pure questo orologio. Sali per le scale e dalla finestra ti sistemi sul tetto e aspetta, come senti degli spari, corri per i tetti e scendi dall’altro versante e scappa! Non ti fidare di nessuno solo di te stesso e stai lontano da strade e centri abitati.”
    Mi slegò, mentre lui si mise in mutande e canottiera, volle essere legato a posto mio, capii cosa stava succedendo e mi commossi profondamente. Gli chiesi perché lo stava facendo.
    “Non mi sarei macchiato mai del sangue di un innocente, nemmeno per salvare la pelle. E’ l’ora di uscire di scena, ma non sarei mai andato via dalla mia Terra. Esco di scena a modo mio.”
    -Mi chiese di promettergli che quando sua madre, sarebbe passata a miglior vita dovevo portarle un suo saluto. Così feci nel 1971, arrivai a Palermo e con un taxi andai a Montelepre, ho onorato il mio impegno omaggiando la salma, ritornai immediatamente, senza dare opportunità ad alcuno di chiedermi qualcosa. Ho avuto tempo per porgere una preghiera nella tomba di Salvatore Giuliano. Quando ero in volo, pensavo a Mattia Pascal di Pirandello, solo che io, al contrario del personaggio, sapevo chi c’era lì dentro veramente! Bastò quella mia presenza per accendersi la fantasia di qualcuno e credere nel mito di Giuliano ancora vivo.
    -Quella notte del 4 luglio 1950, gli baciai la mano e andai, con il cuore rotto, salii sopra il tetto. Il cielo era ricolmo di stelle, il cuore mi batteva all’impazzata, ero teso all’ascolto di quello sparo che non tardò ad arrivare, tre colpi di pistola, forse quattro. Corsi sulle tegole e scesi dall’altra parte dove in lontananza vidi una 1100 nera. Scappai furtivamente dalla parte opposta. Mi nascosi nelle campagne circostanti, seguivo le sue parole e non mi fidavo di nessuno. Così, poi, riuscii a farmi una vita, diciamo normale. Ben sapendo che un incontro con Giuliano la vita te la cambia. In questi anni mi spostai moltissimo ed è ormai da tempo che sono a Toronto. La fede in Dio mi ha molto aiutato. Mi sono chiesto spesso e volentieri: chi sono?
    -A volte ho creduto di essere io il vero Giuliano. Di sicuro qualcosa di lui mi è rimasto dentro la mente. Tanto che, quando vido le foto di quel cortile, che tante volte avevo guardato dalla finestra, mi riconoscevo in quel corpo a terra. Era una parte di me che era rimasta lì, tra la polvere di quei sogni uccisi, da quei falsi gesti e sorrisi degli uomini di uno Stato presente solo nelle tragedie di un Popolo che ha perso il padre, il figlio o il fratello.
    -In tutti questi anni ho tentato di continuare la sua opera, ma mi resi conto che chissà quanto tempo dovrà passare ancora per rinascere un altro Giuliano. Ho potuto solo incentivare economicamente associazioni siciliane di cultura e qualche giovane promettente negli studi, poca cosa, niente!
    -Non so chi ha sparato materialmente a Giuliano, se fu Nunzio Badalamenti entrato dall’altra parte di casa Di Maria, oppure Pisciotta, o chiunque altro sia stato, però ho capito che il ruolo di ‘Aspanu era stato ben congeniato con Giuliano, a millimetro. Il ruolo di ‘Aspanu era quello di Giuda, il traditore, solo così potevano riuscire ad ingannare tutti e sostituire un corpo per un altro, quello del sosia con quello di Giuliano. Forse nei loro progetti la morte del personaggio Giuliano del film doveva corrispondere alla mia morte fisicamente autentica e documentata per la polizia, per il commissario Verdani, chi sa? Avariato questo progetto si attuò: il gioco delle verità in scatola.
    -Nella scatola della verità del C.F.R.B.[3], cioè, del conflitto a fuoco nel cortile di Castelvetrano, del Giuliano ucciso dai carabinieri del colonnello Luca e del capitano Perenze, rimasta ancora oggi riconosciuta e unica dallo Stato Italiano; vi è un’altra verità, quella del tradimento di Pisciotta. Anche questa ne contiene un’altra, quella dell’accordo tra Giuliano e Verdiani per la sostituzione con il sosia e il suo espatrio. La verità nascosta dentro a quest’ultima è quella di ‘Aspanu che ha recitato l’ingrato ruolo del traditore del suo fratello di sangue Giuliano, per potere così consegnare al C.F.R.B. un corpo morto e non un uomo vivo. Ma anche questa ne contiene un’altra ancora più forte, quella di Giuliano che si sostituì al sosia liberando quest’ultimo al posto suo. Giuliano così morì spiritualmente sereno ben coscio del carnefice che si stava avvicinando e accennò un sorriso come dire: l’ultima parola è la mia!
    A questo punto si fermò in uno dei suoi pesanti silenzi e guardandomi dentro, in fondo ai miei pensieri, per un bel po’, poi riprese a raccontare:
    -Quando quel pazzo di Pumadoru incominciò a rompermi le scatole, mi ha inquietato veramente tanto da essere tentato di cambiare destinazione ancora una volta. Rimasi e sbagliai, pertanto dovrò, alla mia età, spostarmi ancora, da qualche altra parte del mondo.

    U zzu Turiddu finì così il suo racconto, ora non mi rimaneva altro che crederci oppure no. Intanto incominciava a farsi strada nella mia mente un dubbio: e se in questa verità, che mi ha testé riferito, fosse un’altra scatola dove si nasconderebbe un’altra verità ancora?
    Mentre parlava il suo volto era impassibile, non cambiava minimamente espressione, non muoveva nessuno dei suoi muscoli facciali, però il suo corpo parlava, la sua mano prendeva le parole dall’aria attorno, la sua testa rafforzava con ogni movimento i suoi pensieri. Quell’anziano, che molto mi ricordava il poeta Ignazio Buttitta, aveva nelle sue rughe, la storia del Popolo Siciliano, con tutti i paradossi e i tanti misteri.
    Arrivarono Joe e Lillo, ci trovarono ancora seduti in fondo, si avvicinarono e chiesero il permesso di sedersi. Lui calò la testa acconsentendo.
    Gli chiesi se fosse stato possibile avere una fotografia insieme a lui. Mi regalò uno dei suoi sorrisi e Joe corse in auto a prendere la macchina fotografica. Lui si tolse la coppola rimase seduto ed io accanto feci il saluto indipendentista, ecco fatto! Ma non ne permise altre.
    Quando fui sull’aereo, soddisfatto di quell’incontro, riflettei su ogni minimo particolare. Ad un tratto mi si bloccò nella mente la sua fronte e quella cicatrice vicino la tempia sinistra, la stessa che permise la giornalista svedese Tecla di riconoscerlo. E allora? Chi era quell’anziano? Sicuramente avrà avuto una spiegazione come per le cicatrici sulla pancia. Una probabile, quella che le erano state causate appositamente da un medico per somigliare ancor di più al vero Giuliano. Mi vennero dei dubbi: forse sarà stato solo un effetto di ombre?
    Arrivato a Camico mi feci sviluppare un ingrandimento della fotografia e altre ancora di diverse grandezze. La cicatrice, in quella fronte così particolare, è cicatrice ed è lì presente, tutto il resto è Sicilia.

    NOTA DELL’AUTORE
    Questo racconto è pura fantasia, non ha la pretesa di essere una ipotesi possibile. Comunque sia, in quel corpo tra la polvere del 5 luglio 1950, dove anche la legge di gravità non era certezza scientifica, di sicuro ha cessato di esistere il Colonnello Giuliano, dell’eroica “Brigata Palermo” comandante dell’EVIS per la Sicilia Occidentale.
    Al Popolo Siciliano, compreso me, piace credere, che quel giovane di ventotto anni, sia riuscito a scamparla ancora una volta, e rifarsi una vita nuova, normale, di buon padre di famiglia. Spuntando così, a farsi beffa del suo crudele destino iniziato in quel 2 settembre 1943 a Quarto Molino.
    La storia di Salvatore Giuliano è quella di ogni Siciliano che esce fuori dalla riserva mentale, che chiamano sicilianità, simile alla riserva riconosciuta agli indiani d’America, per rivendicare la propria territorialità, scontrandosi inevitabilmente con chi ne ha il possesso, nel suo caso, prima contro l’Italia badogliana post fascista, poi l’Italia repubblicana. Questa è la lotta indipendentista, una lotta di territorio da riconquistare palmo dopo palmo. Per iniziare è necessario che i Siciliani abbiano il coraggio almeno di uscire dalla loro riserva mentale, da dove vivacchiano ormai da millenni e solo alcuni hanno avuto il coraggio di farlo, uno tra questi Ducezio nel 450 A.C., altri ancora fino a Giuliano dal 1944-50 A.D.

    Giuseppe Sciortino Giuliano, ha realizzato la sua ultima fatica: VITA D’INFERNO – Cause ed effetti. La lettura di quest’opera fu tempestiva ed esplicativa, perché mi colmò alcuni vuoti importanti per completare questo racconto.
    Ho trovato questo testo scritto con il cuore, in una prosa luminosa, senza ombre, da facilissima lettura partecipativa. L’Autore si è posto nella giusta distanza dello storico non escludendo la sua presenza critica ad alcuni fatti incresciosi. Il libro fa parte di quella letteratura alternativa a quella ufficiale e omologata dal potere istituzionale. Quell’altra cultura che si contrappone alle forme di propaganda massiccia del potere che detiene la sovranità territoriale e che bombarda continuamente l’opinione pubblica siciliana. Nonostante ciò, non riesce, però, a scalfire minimamente l’icona di Turiddu Giuliano nell’intimo di ogni Siciliano che non giace nella rassegnazione ed ha acceso il fuoco della ribellione alle varie ingiustizie sociali e politiche.
    Nell’opera di Giuseppe Sciortino Giuliano viene fuori un elemento di grandissima importanza: la repressione cieca e coloniale di uno Stato d’occupazione, che ha usato le proprie forze belliche e di polizia contro i Monteleprini, non risparmiando loro né la tortura, come mezzo per estorcere confessioni, né lo stupro e il saccheggio. I Monteleprini devono essere fieri del loro passato, come lo siamo noi Siciliani della loro eroica storia.
    Certa letteratura non si pone nemmeno scrupoli su ciò che hanno dovuto subire cittadini inermi nelle mani di quella forza di occupazione militare a Montelepre. Cito uno per tutti: Il bandito Giuliano di Salvatore Nicolosi Edizione Brancato Editore – Catania 2005 a pagina 149 scrive: “Costui[4]fu messo alle strette; e per “mettere alle strette” i carabinieri non si facevano scrupolo di picchiare qualche volta i sospettati (metodo assolutamente condannabile, il quale però alla fine fruttava confessioni che, altrimenti, i più incalliti delinquenti mai si sarebbero abbandonati a fare).” Sicuramente penso che viene il volta stomaco quel “però” che, in un certo qual modo, giustifica la tortura come metodo e subita dai Monteleprini, dimenticando che sotto tortura anche lo stesso Nicolosi avrebbe confessato di avere sparato quel 1° maggio, insieme a Giuliano. Perché quel “mettere alle strette” era la “cassetta” di don Pasquale[5] e fare ingoiare acqua sporca e salata tramite una maschera antigas per poi sferrare pugni alla dome fin quanto l’ “interrogato” non accettava tutto quello che gli propinavano come confessione. Ora accettare questo significa dimenticarsi dei minimi significati dell’umanizzazione raggiunti della bestia umana.

    Chi è Giuseppe Sciortino Giuliano? E’ un indipendentista dal primo battito del suo cuore. Figlio di Mariannina Giuliano e Pasquale Sciortino, nonché nipote di Salvatore Giuliano. Finito nelle italiche galere a otto mesi insieme alla madre. Poi nel 1980 fu processato e condannato per avere costruito uno cippo in memoria dei Partigiani dell’EVIS caduti.
    Il 30 marzo del 2009 il presidente della Camera Gianfranco Fini inaugurando a Montelepre la targa in memoria dei carabinieri caduti nella lotta al banditismo nel periodo in cui visse Salvatore Giuliano, posta al centro del paese all’esterno del centro Polifunzionale in via Castrenze di Bella 14 disse:“Ricordare gli uomini in divisa che si sacrificarono contro il banditismo non e’ retorica, ma e’ un dovere delle istituzioni perche’ sono stati i primi a combattere nel nome della legalita’”[6]. Riflettendo su questa visita e queste parole non posso fare di confrontare Montelepre a Bronte. Anche a Bronte vi è una via dedicata a Nino Bixio.
    Due città, due Popoli che si ribellarono e che hanno subito quell’ingiustizia storica con le esecuzioni sommarie a Bronte e con i soprusi a Montelepre. Due epoche storiche ed una sola Italia colonizzatrice che chiama la sua oppressione “legalità”.
    Ricordo nella prima visita che feci a Montelepre, nel 1995, la sensazione che ho provato, mista tra commozione e riconoscimento, mi ritornavano alla mente le fotografie in bianco e nero dell’epoca dei fatti e i volti di quei Monteleprini. Non ho potuto fare a meno di legarmi al collo il fazzoletto giallo/rosso dei Volontari dell’EVIS. Poi, visitai i posti, le strade, le piazze, andai ad abbracciare Frank Mannino, nella stazione di rifornimento di benzina. Quando lui mi vide e notò il fazzoletto, gli venne un sussulto di commozione. Ho visto le sue lacrime sgorgare ed ho capito la forza di quella passione politica, autentica, che aveva infiammato quegli animi e che sicuramente non si è assolutamente assopita in quegli uomini forti e valorosi di allora. Frank, alias Cicciu Lampu, in un filo di voce mi disse: “E’ difficili …”. Sì, sarà pure difficile, ma noi Siciliani abbiamo il dovere di crederci ancora, e ci crediamo, compreso Frank, il quale non disse “è impossibile” come qualcuno vuole convincere senza nemmeno prima muovere almeno il sedere dalla sedia. Ho saputo allora che lui era divenuto un fratello evangelico. Questo sta a significare l’autenticità di uomini come nel loro cammino interiore. Uomini che hanno impugnato le armi e le hanno pure usate, ma nello stesso tempo ne hanno sentito la pesantezza.
    Quel giorno visitai la “Casa Museo Giuliano” in corso di realizzazione dall’infaticabile Giuseppe, collezionando oggetti, utensili agricoli, perché Giuliano non è divisibile dalla Terra e dai suoi contadini. Mille immagini affioravano nella mente. Vedere la camicetta di Marianna, o il leone disegnato nella cameretta, la bicicletta di Turiddu. Una cosa mi ha colpito in particolare la sua tessera del MIS, la stessa della mia.
    Una visita al cimitero di Montelepre era d’obbligo. Così mi accompagnò un incaricato, il quale ad un certo punto, visto la mia riluttanza a fermarmi nella tomba di Gaspare Pisciotta, perché i Siciliani ai traditori li chiamiamo per l’appunto Pisciotta, mi disse: “Falla una visita ad ‘Aspanu, pirchì la storia ‘unn è comu si cunta!”

    APPENDICE

    Giuliano[7]
    Le stagioni sono passate,
    ma il tempo è lì rimasto;
    tra le piazze e le sue strade
    vi è il ricordo del suo gesto.

    L’eroe del Popolo Siciliano
    dal cuore buono
    e dal mitra in mano
    è il Colonnello Giuliano.

    L’EVIS gridò vittoria,
    per la Sicilia fu gloria!
    La sua legge l’onore,
    per la sua Patria l’amore,
    una bandiera nel cuore.
    “il giallo osare
    Il rosso amare”.
    “Risorgi Patria mia
    Sarai indipendente”.
    Nel cielo di Sicilia
    Cantava per la sua gente.

    Tra mafie e forze comuniste
    calpestarono tutte le verità
    a Portella delle Ginestre
    negando alla Sicilia Libertà!

    Caffè all’Ucciardone
    E segreto di stato,
    antimafia e commissione
    su l’eroe bandito.
    Anche se l’odio rancora
    Giuliano vive ancora
    in ogni Siciliano
    che porta nel cuore
    la Patria, Dio e l’onore.

    Fine

    ——————————————————————————–

    [1]Il documento – identificato come «Fondo Governo Ordinario», Sezione 9, Busta 1, Serie 36 S dell’archivio storico dell’Arcidiocesi di Monreale. Confermato dalla Curia di Monreale, diretta dal vicario generale don Vincenzo Noto. (Fonte: Giuliano, bandito in paradisodi Francesco La Licata suLa Stampa, 5 aprile 2001)
    [2]“Garibaldi sotto un ponte, vendeva pomidori, la bilancia non gli pesava Garibaldi se la menava (si masturbava). Canzoncina popolare con la celeberrima musica FLIK FLOK della fanfara dei Bersaglieri musica di Pietro Luigi Hertel del 1861.
    [3]Corpo Forze Repressione Banditismo
    [4]Trattasi di Francesco Gaglio detto Riversino, teste principale della strage di Portella delle Ginestre.
    [5]Ben descritti da Giuseppe Sciortino Giuliano nelle sue opere, compreso quella citata testé.
    [6]http://www.montelepre.info/2009/03/30/fini-le-leggi-vanno-sempre-rispettate-ricordare-e-dovere_588(presa visione il 22 luglio 2010 alle 20,31).
    [7]Autore della parte letteraria Alphonse Doria, melodista Alessandro Doria, arrangiamenti Bruno Doria. Canzone incisa nel 1998 in un Compact Disc dal titolo: Studio S.u.D. PRODUTIONS, collezione di artisti vari.

  2. Mi auguro tanto che “chi sa” di queste cose parli, con sincerità, prima di morire. Perchè a questo punto non mi fido più neppure dei documenti che saranno aperti nel 2016.

  3. Il mio nome e Fernando ma tutti mi chiamano Dino.Mio padre con mia madre emigrarono in Inghilterra negli anni cinquanta e ricordo vivamente mio padre che aveva un disco di 33giri con la storia di Salvatore Giuliano che io ascoltavo sempre e questa storia mi è rimasta impressa. Oggi che ho 47 anni ne sento ancora di cotte e di crude sulla storia di Giuliano ma crededemi vorrei credere al signore che dice di essere andato a Toronto e di aver avuto la possibilità di potersi sedere al suo fianco e dividere un emozione che non posso immaginare.Spero vivamente che quel signore al bar era proprio lui Turiddu,anche leggendo questa storia il mio cuore mi conferma quello che io spero.Spero un giorno di poter venire in Sicilia per onorare la vostra terra ed avere il grande onore di conoscere il Signor Giuseppe Sciortino Giuliano grazie.

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