Forse non avrei scritto di questo libro, nonostante lo avessi già considerato molto interessante, se non mi fosse stata data l’occasione per tornare a rileggerlo con maggiore attenzione.
L’occasione è stata quella di un commento ad un articolo pubblicato su questo giornale, in merito al controllo serbo sul traffico di cocaina.
Il commento, che mi ha incuriosito, era di Antonio Evangelista, Vice Questore Aggiunto e Capo della squadra mobile di Asti, nonchè ex comandante del contingente italiano presso la missione ONU in Kosovo (UNMIK) e autore del libro.
Le premesse, erano buone, già dal titolo: “La torre dei crani” (ed. Editori Riuniti). 141 pagine di un libro-documento che testimoniano da un punto di vista neutrale quanto è realmente avvenuto nel Kosovo, anticipando gli sviluppi a livello internazionale di una guerra che ha prodotto piú danni di quelli preesistenti, favorendo miseria e criminalità e legittimando una classe dirigente corrotta e legata a doppio filo con la mafia.
Evangelista, che ha diretto le indagini sui crimini di guerra e guidato la polizia criminale, con il suo libro smaschera e mette a nudo le responsabilità internazionali in un conflitto del quale non si è parlato abbastanza e che presenta ancora molti risvolti oscuri.
Un’importante testimonianza quella di Evangelista, anche per gli spunti che il suo libro – specie alla luce di recenti rivelazioni che gettano molte ombre sull’operato di governi impegnati sul fronte della “guerra al terrorismo” – può fornire a nuove chiavi di lettura su una guerra che, definita “giusta”, non andava fatta.
La prefazione, scritta da Pino Arlacchi, una delle massime autorità in tema di sicurezza umana, è quantomai utile a far comprendere al lettore – fin dall’inizio del libro – cosa accade quando una guerra sbagliata rischia di regalare l’immunità diplomatica a delinquenti che finiranno con il rappresentare uno Stato criminale.
Gian J. Morici
Kosovo 2000-2004
Prefazione di Pino Arlacchi
Le lezioni del Kosovo
Il Kosovo è dal 1999 un protettorato delle Nazioni Unite, nonché una provincia della Serbia sede di qualche miniera, di splendidi monasteri medievali e di molti miti. La provincia è abitata in prevalenza da albanesi di religione islamica, discriminati per molti anni dal governo serbo e in cerca dell’indipendenza completa da Belgrado.
Il Kosovo contiene luoghi e monumenti che fanno parte dell’identità nazionale dei serbi ma è anche un luogo dalle mille contraddizioni, che fanno venire in mente il detto di Winston Churchill che i Balcani producono piú storia di quanta ne riescano a consumare.
Come altrimenti considerare l’incredibile accumulo di grande storia in un territorio che ha la stessa popolazione della Calabria (2 milioni di abitanti) ed è di un terzo piú piccolo, ma che richiede un seminario di scienza storico-sociale comparata solo per impadronirsi dei termini elementari dei suoi problemi?
Nella «pianura dei corvi» si sono combattute nei secoli guerre di ogni genere: di religione e di nazionalità, di conquista e di liberazione, criminali e tecnologiche, etniche e politiche, tra Nord e Sud, tra Est e Ovest, nonché svariate combinazioni tra di esse. E di volta in volta gli aggressori sono diventati aggrediti, le vittime si sono tramutate in carnefici, e viceversa, in un tragico gioco di dominioe di risentimenti.
L’ultimo conflitto è del 1999. La Nato ha usato la forza per obbligare il regime semi-autoritario di Milosevic a cessare la sanguinosa persecuzione degli albanesi del Kosovo. Ma la guerra ha prodotto piú danni di quelli preesistenti, e ha generato le condizioni di un nuovo turno di persecuzione, meno violenta di quella precedente, e a parti invertite: è la maggioranza albanese che adesso discrimina la minoranza serba.
Il risultato finale delle disgrazie kosovare, tuttavia, non è il caos né l’avvento di un regno dell’insostenibilità e dell’assurdo. Non è vero che non esistano ragionevoli vie d’uscita dal groviglio delle crisi che tormentano il Kosovo. Basterebbe recepire, per individuare un itinerario di soluzione, anche solo un paio delle lezioni che la sua Odissea ha impartito a tutti noi.
Questo itinerario è faticoso quanto si vuole, ma interamente commisurato alle possibilità locali e alle risorse dell’Unione Europea.
La prima e la piú importante delle lezioni è che le guerre non servono a niente. Anche quelle umanitarie e apparentemente disinteressate come lo scontro tra i paesi Nato e il regime iugoslavo nel 1999.
La guerra del Kosovo è stata, infatti, un facile successo militare e un completo fallimento politico. Tutte le guerre riservano sorprese, e finiscono in modo diverso da quanto previsto e voluto all’inizio, ma qui è stata la guerra in se stessa a costituire un errore di valutazione politica madornale, del quale si stanno ancora scontando le conseguenze.
I leader politici occidentali che l’hanno iniziata hanno dichiarato di combatterla per il bene delle popolazioni locali. Ma queste sono uscite dal conflitto in condizioni certamente peggiori di prima.
All’inizio della campagna di bombardamenti, i governi Nato hanno detto di averli decisi per salvare delle vite umane da un progetto di pulizia etnica in atto. Prima del 24 marzo 1999, le vittime della guerra civile tra il Fronte di Liberazione del Kosovo (Kla) e le forze ufficiali e paramilitari serbe erano state circa 3mila, e non c’era evidenza di un piano di sterminio di massa da parte del governo di Belgrado.
Durante le 11 settimane di bombardamenti sono state uccise nella provincia oltre 10mila persone. Le vittime sono state in gran parte civili albanesi assassinati dalle formazioni irregolari e dall’esercito serbo, ma anche serbi colpiti e messi in fuga per vendetta.
Il tentativo di pulizia etnica, quindi, se c’è stato, è stato un effetto perverso della guerra e non una sua causa.
Un altro obiettivo della Nato era quello di prevenire lo sradicamento forzato degli albanesi kosovari. All’inizio delle operazioni belliche si stimavano in 230mila i kosovari che avevano abbandonato le loro case. Alla fine della guerra, gli sradicati erano un milione e quattrocentomila. Di questi, 840mila erano scappati verso i campi profughi della Macedonia e dell’Albania.
Non sappiamo oggi, e forse non sapremo mai, quanti di questi rifugiati sono scappati per evitare la furia assassina di Milosevic e quanti per timore delle bombe Nato. In ogni caso, il capo della missione Onu nel Kosovo, Kouchner, ha stimato che tra i kosovari in fuga c’erano anche 130mila serbi.
Quello che sappiamo con ragionevole certezza è che esisteva una alternativa concreta alla guerra: il personale dell’Osce (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) dislocato nel Kosovo a protezione degli albanesi dopo il cessate il fuoco tra i serbi e il Kla dell’ottobre 1998, e che poteva essere impiegato per guadagnare il tempo necessario per una soluzione pacifica del conflitto, e cioè per cambiare la leadership di Belgrado.
Questo cambiamento non era affatto impossibile. Milosevic non era inespugnabile. Non era affatto popolare tra i serbi. Non controllava in modo totalitario il paese, e le dimostrazioni del 1996-’97 lo avevano quasi fatto cadere. Gli osservatori Osce non sarebbero forse riusciti a impedire tutte le violenze, ma avrebbero sicuramente ridotto gli attacchi ai civili e avrebbero evitato il successivo disastro.
Dirigevo in quegli anni l’Ufficio Onu di Vienna, ed eravamo in continuo contatto con il quartier generale dell’Osce, collocato nella stessa città. Ricordo bene che l’opinione piú diffusa in ogni rango dell’Osce e dell’Onu era che il rafforzamento del contingente internazionale già presente sul campo era l’alternativa piú praticabile alla guerra. Anche altri osservatori, come l’ex-ambasciatore canadese in Iugoslavia, James Bisset, hanno dichiarato che la Nato aveva combattuto in Kosovo una guerra «ingiusta e non necessaria» e che il distaccamento del personale Osce poteva essere la soluzione in grado di risparmiare le sofferenze umane e i costi immensi della guerra.
Ma la Nato decise diversamente. Dopo avere convocato le parti nel castello di Rambouillet, in Francia, nel febbraio-marzo 1999, la signora Albright, Segretario di Stato americano, presentò loro un piano di autonomia politica del Kosovo che prevedeva di tenere un referendum dopo tre anni per decidere lo status finale della provincia.
Dopo il rifiuto dei serbi, iniziarono i bombardamenti.
La guerra terminò con un paradosso. Furono imposte a Milosevic condizioni per alcuni versi piú favorevoli di quelle proposte a Rambouillet, tra cui la cessione dell’autorità sul Kosovo alle Nazioni Unite, dove è presente con potere di veto la Russia, che è il maggiore alleato internazionale della Serbia. Il centro del paradosso fu che la guerra era stata combattuta dagli albanesi kosovari per conquistare l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia, e dai serbi per mantenere il Kosovo parte della Iugoslavia. La conclusione fu che la Nato era intervenuta in una guerra civile a sostegno della parte che poi aveva vinto, per abbracciare in seguito la causa della parte perdente sulla questione che aveva dato origine alla guerra.
Il Kosovo, infatti, secondo la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, è rimasto parte della Serbia. Il fallimento politico fu perciò senza attenuanti: non erano state salvate vite umane, le infrastrutture economiche essenziali della Serbia erano stata semi-distrutte, e il Kosovo era rimasto giuridicamente dov’era prima.
La Nato, infatti, si era attivamente opposta alla sua separazione dalla Serbia. La guerra non terminò neppure con una vera e propria dichiarazione di resa, ma con una complessa serie di negoziati durante i quali Russia e Serbia si adoperarono per strappare non poche concessioni.
Ma la guerra del Kosovo ha avuto anche un altro aspetto. È stata presentata come una guerra «giusta» che doveva dare inizio a una nuova era, quella dell’intervento umanitario attivo e se possibile preventivo, basato su due pilastri concettuali: l’uso della forza in nome di valori universali invece che per conto dei ristretti interessi nazionali che avevano fatto scontrare in passato gli Stati sovrani, e (sempre in nome degli stessi valori universali) l’intervento militare negli affari interni degli Stati invece della solita opposizione alle violazioni dell’integrità territoriale, come nella guerra del Golfo del 1991.
Il primo di questi concetti è stato applicato in modo incoerente. Avendo deciso di non mettere a rischio l’incolumità del proprio personale militare, la campagna del Kosovo fu sostanzialmente una guerra aerea, fatta di bombardamenti ad alta quota.
Nessuno si è accorto, perciò, che lo scopo della guerra era quello di proteggere gli albanesi del Kosovo.
Il secondo pilastro della dottrina dell’intervento umanitario era apertamente illegale dal punto di vista delle fondamenta del diritto internazionale e degli standard riconosciuti di condotta nelle relazioni tra Stati. Un paese o un gruppo di paesi non possono interferire negli affari interni di un altro paese. E tantomeno con la forza. Se ciò avviene, sono le basi stesse dell’ordine internazionale che vengono compromesse.
Ma se questa regola è inviolabile, non ci sono piú limiti alle trasgressioni dei diritti umani compiute dai tiranni o da gruppi delinquenziali entro i confini dei loro Stati. È per questo che la coscienza universale non si è ribellata quando la comunità internazionale ha deciso di intervenire per fermare genocidi e massacri in corso in luoghi come la Somalia, Haiti, il Congo o il Rwanda.
In questi luoghi, però, non si era bombardato da alta quota, e neppure da bassa. Si erano svolti interventi che rientravano negli schemi delle operazioni di mantenimento della pace piú che in quelli delle guerre.
L’intervento ispirato dalla protezione dei diritti umani non può essere attuato con modalità che contraddicono il suo mandato. Deve essere legittimato da una autorità globale – il Consiglio di Sicurezza o l’Assemblea delle Nazioni Unite – e non deve lasciare dubbi sulle sue matrici umanitarie. Il rispetto delle Convenzioni Internazionali sulla condotta delle guerre, l’uso delle armi e il risparmio dei civili deve essere piú che scrupoloso.
Entrambe queste condizioni sono state violate dalla Nato in occasione della guerra del Kosovo. La Nato ha agito senza autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Ciò implica che essa si è arrogata il diritto di scegliere se obbedire o no alle leggi internazionali, creando un precedente in base al quale qualunque associazione regionale può attribuirsi le prerogative delle Nazioni Unite in materia di salvaguardia dei diritti umani, e intervenire militarmente contro la violazione dei diritti di una etnia presente in qualunque parte del pianeta.
La Russia, per esempio, potrebbe intervenire in Ucraina, attraverso il Cis (Commonwealth of Indipendent States), se ad un certo punto ritenesse che i russi ivi residenti fossero maltrattati. E la Cina potrebbe fare lo stesso in diversi paesi asiatici dove sono presenti comunità di immigrati cinesi tramite una delle organizzazioni di cui fa parte o su cui ha influenza.
La Nato in Kosovo, inoltre, ha violato l’articolo 14 del Protocollo del 1977 della Convenzione di Ginevra del 1949 che proibisce gli attacchi contro «obiettivi indispensabili alla sopravvivenza della popolazione». Una guerra «giusta» si fa risparmiando prima di tutto i non combattenti.
È vero che la Nato ha impiegato una certa cura nell’evitare gli attacchi diretti alla popolazione serba, nel senso che non sono state bombardate abitazioni private e luoghi frequentati dalla gente. Ma ha compiuto vaste distruzioni di infrastrutture essenziali, inclusi gli impianti dell’acqua e dell’elettricità, che hanno provocato grandi danni e disagi alla popolazione civile.
Le distruzioni della guerra sono state stimate ammontare a circa 30 miliardi di dollari del 1999, pari a una volta e mezza il Pil della Serbia e del Montenegro dello stesso anno.
La Nato ha perciò punito invece di aiutare la seconda vittima innocente, dopo gli albanesi del Kosovo, della brutalità di Milosevic, e cioè la popolazione civile serba.
La seconda grande lezione della guerra del Kosovo è che non ci sono piú scontri ineluttabili di culture, etnie e civiltà, se non nelle interpretazioni dei loro fautori. Le motivazioni e i comportamenti reali dei protagonisti di questi scontri sono molto distanti da quelli attribuiti loro dalla politica, dalla diplomazia e dal circuito dell’informazione internazionali.
Il Kosovo non è una provincia di odi etnici secolari e di fanatismo religioso. E il resto dei Balcani non è diverso.
La lettura della testimonianza di Antonio Evangelista è altamente istruttiva al riguardo. Si tratta di uno dei pochissimi documenti sul Kosovo che parte da fatti vissuti in prima persona, e da informazioni raccolte da una posizione esterna, neutrale, come può essere quella di un funzionario di polizia che opera nel contesto di una missione di pace. La sua valutazione del problema principale del Kosovo attuale è netta.
Non esiste in questo territorio alcuna reale conflittualità di tipo religioso, e neppure di tipo etnico. La cosiddetta minaccia terroristica è enormemente inflazionata, perché la religione islamica non è parte decisiva dell’identità e dei valori degli albanesi del Kosovo. La versione dell’islam qui diffusa è molto blanda, incapace perciò di generare fanatismo ed estremismo politico.
Secondo Evangelista, questa identità si fonda molto di piú sull’eredità di una società pastorale basata sul clan e sul diritto primordiale del Kanun, il codice civile e penale del popolo delle montagne, vivo e attuale, anche nei suoi tragici risvolti, nel Kosovo di questi tempi.
Le chiese e i monasteri ortodossi bruciati durante i disordini del 2004 in Kosovo non erano i simboli di una irriducibile alterità religiosa, ma quelli del potere e della cultura serbi. E i disordini stessi sono stati tutt’altro che una spontanea eruzione di malcontento popolare contro l’amministrazione Onu, il governo serbo e i ritardi del processo di autodeterminazione.
La preordinazione e la regia delle manifestazioni da parte di un centro di potere nascosto erano evidenti.
Secondo Evangelista, buona parte dell’attuale crisi del Kosovo si spiega con un fatto che la comunità internazionale e l’opinione pubblica, sia europea che americana, preferiscono ignorare: la perdurante e profonda influenza del Kla e delle sue attività in quasi ogni aspetto della vita del Kosovo.
Troviamo anche qui l’eredità di una guerra sbagliata.
Il Kla è stato fin dalle origini un coacervo di bande dalle origini piú disparate e di discutibile valore militare, emerse in modo quasi improvviso sulla scena della crisi iugoslava. Sostenuti e armati dalle forze Nato come forza di ribellione alle atrocità dell’esercito e dei paramilitari serbi contro gli albanesi, i militanti del Kla si sono a loro volta macchiati di crimini efferati, molti dei quali contro cittadini albanesi sommariamente etichettati come traditori o collaborazionisti.
Vari appartenenti al Kla, inoltre, si sono trovati e sono attualmente nel mirino delle agenzie antidroga europee come protagonisti di primo piano della rotta balcanica dell’eroina.
Il Kla è oggi parte di un gruppo di potere politico-economico criminale composto da 3 mega-clan divisi in 13 sottoclan minori che controllano le principali istituzioni, nonché l’economia e la società kosovara. Alcuni tra i capi piú noti di questi clan sono accusati dalla Corte Penale dell’Aia sui crimini commessi nella ex-Iugoslavia, provengono dalle fila della criminalità, e in essa sono rimasti durante e dopo la guerra contro il regime di Belgrado.
La fusione e la quasi identificazione del Kla e dei suoi capi con la mafia kosovaro-albanese, che è la piú aggressiva formazione criminale organizzata dell’Europa odierna, fa del problema del Kosovo una delle piú serie minacce alla sicurezza del continente. E dell’Italia in modo particolare. L’allarme documentato che Antonio Evangelista lancia tramite la sua testimonianza non deve passare sotto silenzio.
I diplomatici e gli uomini politici del cosiddetto «Gruppo di Contatto» – Italia, Francia, Germania, Regno Unito e Russia – che discettano assieme all’Onu intorno al futuro assetto dei rapporti tra il Kosovo e la comunità internazionale, non sembrano tenere conto delle dure evidenze narrate in questo volume.
La questione della criminalità organizzata, della corruzione politica e del malgoverno dilaganti nel Kosovo, e i loro sinistri riflessi in molti paesi europei, non è presente nell’agenda dei negoziati. È come se l’argomento non esistesse. È superfluo sottolineare come i cittadini europei, e quelli italiani in prima fila, pagheranno amaramente questa omissione nei prossimi anni, quando un possibile Kosovo indipendente regalerà l’immunità diplomatica a molti delinquenti arrivati ai vertici della politica locale.
Chi legge questo volume e confronta i fatti in esso esposti con gli standard di legalità vigenti nei paesi occidentali può facilmente intravedere i contorni di un corso di azione alternativo per la soluzione della crisi kosovara.
Se non si spezza il cerchio di potere politico-mafioso che domina quella provincia, dalla sua indipendenza non potrà venire nulla di diverso che l’instaurazione di uno Stato criminale vicino al centro dell’Europa.
Pino Arlacchi
Roma, 19 gennaio 2007