Oggi è il 19 luglio del 2010: esattamente 18 anni fa stavo conducendo quella azzardata trattativa. Allora mi fu detto che il fine era quello di frenare l’ondata di violenza che, prima con l’uccisione dell’on. Lima e dopo con la strage di Capaci, Cosa Nostra aveva scatenato.
Mi trovavo a Roma. Ero da poco tornato da Palermo ed era stato già fissato un appuntamento tra mio padre e Provenzano per il 23 Luglio. A suggerire l’incontro erano stati proprio Provenzano e il signor Franco. Riina aveva già avanzato le sue contro richieste alla Stato e si era convenuto che, nonostante la follia dei 12 punti contenuti nell’ormai famoso Papello, fosse necessario trovare una mediazione.
Era domenica e la giornata era torrida. In cerca di un po’ di sollievo, ero stato al mare a Fregene con la mia ragazza. Rientrato a casa mio padre mi diede subito la notizia della morte del giudice Borsellino. Ne rimasi schoccato.
Non riuscivo a capire. Mi pareva che non vi fossero ragioni per un massacro come quello. C’era in ballo il possibile accordo con la mafia. Solo poche settimane prima c’era stata la strage di Capaci e davvero non pensavo che loro potessero, a una così breve distanza di tempo, alzare di nuovo il tiro.
Mio padre, comunque, mi aspettava in piedi. Disse che dovevo sbrigarmi perché mi doveva parlare: “Tutto questo è anche colpa nostra…. Io lo avevo detto al colonnello, a Provenzano ed al signor Franco: con quell’animale non si può trattare. Questa volta il pazzo deve avere i cani ben attaccati, per osare tanto”.
“I cani attaccati”: mio padre usò questa frase tipica siciliana come per farmi capire che Riina, visto che aveva fatto una cosa del genere, doveva aver trovato degli interlocutori veramente potenti.
E oggi, nonostante i molti passi avanti fatti nelle indagini, quei cani di cui parlava mio padre non hanno ancora un nome. O meglio lui, mio padre, un’idea precisa di chi potessero essere ce l’aveva. Sapeva chi erano i registi occulti di tanta violenza. Ma lui stesso li temeva. Perché facendo parte di quel gruppo di persone ne conosceva la forza e ne aveva paura. Tanta paura, perché capiva che al momento giusto, anche lui rischiava di essere sacrificato, se ci fossero stati piani più ambiziosi da portare a compimento.
La maggior parte delle persone, quelle che rappresentano la così detta “società civile”, s’interrogano sul perché oggi qualcuno parli. Lo so. Io rappresento un’anomalia. Sono un’anomalia in un contesto sociale dove il silenzio non solo rende innocenti, ma anche paga.
Tutti, o quasi, del resto stanno in rigoroso silenzio. Stanno in quello stato di “oblio omertoso” che ben accompagna la maggior parte di noi siciliani e non solo. Perché in Italia si può essere anche celebrati come eroi, per il proprio silenzio dinnanzi ai magistrati. Un silenzio dato in omaggio ai soliti personaggi che ancora oggi rappresentano parte del potere. Quei soliti potenti che ancora oggi con il loro atteggiamento costituiscono lo zoccolo duro contro la ricerca della verità su quelle stragi. E inutile nasconderlo, la verità per alcuni livelli delle nostre istituzioni e delle nostra politica potrebbe essere anche letale. Potrebbe costituire un de profundis per un sistema che su certe collusioni e connivenze ha di fatto costituito le proprie fondamenta.
Lo so, io non sono certamente né un eroe né il depositario di verità assolute. Sono un semplice dichiarante, oppure un teste privilegiato, o magari un imputato di reato probatoriamente collegato. Non so più quanti termini sono stati usati per descrivere la cosa più normale che ognuno dovrebbe fare: dare il proprio contributo a far luce su quei terribili anni.
Io l’ho fatto. Ho risposto alle domande dei magistrati su fatti e circostanze dove sicuramente anche il mio contributo può aiutare. Eppure oggi rappresento un vero e proprio caso. È in corso un dibattito sulle vere finalità di quella che viene definita la mia pseudo collaborazione. Sono, insomma, un dissidente, in un ben rodato sistema omertoso. Perché non si può certamente credere ad uno che in cambio della sua collaborazione, non ha chiesto niente, anche perché nulla può chiedere, e che anzi rispondendo ha notevolmente peggiorato in modo radicale la propria qualità di vita e della propria famiglia.
Ma non importa. Perché oggi, dopo due anni e mezzo, dopo quasi novanta interrogatori, sento solo il bisogno di chiedere scusa.
Voglio chiedere scusa ai familiari di Borsellino e del giudice Falcone e di tutti gli agenti delle scorte che in quelle stragi hanno lasciato la loro vita. E voglio chiedere scusa anche ai magistrati della Procura di Caltanissetta e di Palermo per quella che loro chiamano la rateizzazione delle mie dichiarazioni. Ma la verità è che anche in questi mesi ho avuto paura.
Perché non sono un eroe e non ho mai pensato di esserlo. Non sono come Impastato che ha trovato il coraggio di combattere il padre da vivo.
I personaggi di cui ho parlato e di cui sto parlando sono ancora in sella.
Viviamo in un sistema in cui l’illegalità paga. In cui si festeggia con cannoli condanne a cinque anni di carcere. In cui ci si ritiene soddisfatti dopo condanne a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Viviamo in un sistema in cui in posti chiave delle nostre istituzioni ci sono personaggi che hanno riportato condanne penali, ma nonostante questo continuano a conservare la fiducia di chi li ha scelti.
Anche per questo io oggi, 19 luglio, chiedo scusa.
Tratto da “il Fatto Quotidiano”