L’hanno trovato che se ne andava alla deriva, un paio di miglia a levante del porto, nella calma piatta del mare d’estate. A bordo nessuno, e tutti abbiamo capito.
Era un bel gozzo di legno, come ormai non ne fanno più, adesso usano la vetroresina, lo stampo pronto e via. Per Orlando quel legno era come un figlio, il lucido della vernice a testimoniare l’amore d’un padre. Dentro le reti pronte, raccolte con l’ordine di chi fa qualcosa di più d’un mestiere.
Quelle vecchie tavole le conoscevo bene, mi ci sono fatto marinaio.
Orlando diceva che essere marinai non è avere il libretto di navigazione, quello possono prenderlo tutti. Serve dell’altro e lui sapeva cos’è.
A vederlo sembrava un vecchio, capelli bianchi, lunghi fin sopra le spalle e le rughe, tante e così profonde da stentare a credere fosse bastata una vita sola a fargliele. Eppure dentro aveva tanta forza che a stargli dietro non bastavano i nostri vent’anni. Non era questione d’età, niente a che fare col tempo.
Qualcuno diceva ch’era matto. Gente di terra, di quelli che guardano il mare e vedono una grande vasca da bagno. Per noi era il “Comandante”, con quel po’ di strano che non si può capire, sta oltre l’ordinario.
Parlava poco. Nelle notti di burrasca restava con gli altri in banchina ad aspettare che il vento calasse, fino all’alba che smorzava l’ultima speranza, limitandosi ad annuire alle poche cose sensate che spuntavano tra le chiacchiere dei pescatori. Di rado schiudeva un pensiero sino a farne voce, una frase sola, asciutta e precisa, un colpo secco a fare centro, sempre. C’era più vero in quelle poche parole che nelle pile di libri che fanno studiare a scuola.
Teneva sempre le gambe larghe, facendo oscillare lentamente il tronco sui fianchi, come se non avesse i piedi ben piantati in terra, ma fosse ancora a bordo, il mare sotto a cullarlo. Avevano un rapporto speciale quei due, lui e il mare.
Pescatore lo era da sempre, ma mica come gli altri, che per lui non era roba di soldi. Il nostro è un mestiere di morte, cosa per gente senza troppi scrupoli. E’ la vecchia storia del sopravvivere, e anche a farlo senza avidità è comunque una guerra che a vincere non siamo sempre noi. Orlando no, quella delle reti era tutta una scusa, il pretesto di andare per mare, il porto come pausa, altro che mercato. Ogni suo gesto aveva un senso, nel rispetto d’un rigido codice d’onore.
L’ho visto maledire con rabbia un ragazzino con la canna da pesca. L’aveva sorpreso a buttare un secchio di cefaletti lunghi un palmo nel bidone della spazzatura, tanto è roba che non mangia nessuno. – Che cazzo di divertimento è ammazzarli per niente? – I pesci finirono ai gatti, la canna in pezzi.
E capitava che piangesse, come la volta del delfino. Quel giorno stavamo rientrando con una buona pesca, le casse piene già pronte a poppa. Il motore girava a tutta forza, che le regole del mercato sono severe, e chi arriva tardi resta con un pugno di mosche. Eravamo allegri, si scherzava, poi l’ha visto e gli s’è spento il sorriso in un attimo, il buio improvviso di quando salta la corrente. Mi tolse il timone dalle mani e accostò, una manovra sola. Gli siamo stati a fianco tutto il tempo dell’agonia, fino a notte. Orlando proprio non riusciva a trattenere le lacrime mentre lo carezzava. Nessun dubbio sul perché di quella morte, qualche bastardo gli aveva sparato. Lo fanno ancora, sembrano dilettanti usciti per divertirsi, ma si portano il fucile a bordo, quelli s’avvicinano per giocare e loro pum… che il mosciame lo pagano bene.
Aveva un profondo rispetto per qualunque cosa appartenesse al mare, fosse anche solo alga, ma la sua passione erano i gabbiani. Diceva che sono i veri padroni del mondo, che possiedono il cielo, la terra e il mare: – Stanno per aria, negli scogli o sull’acqua con la stessa fierezza dei re. Lo facciamo anche noi, ma goffi come polli -.
Bisognava vederlo quando li faceva ballare. Succedeva col mare mosso, onde a passare il porto. In quei giorni i gabbiani volano come avvoltoi, fanno ampi cerchi in cielo stando altissimi. Spinti dalla fame che il mare grosso non gli lascia saziare volteggiano sul porto, l’unico spicchio di bonaccia. Lui prendeva una manciata di sardine e metteva le sue gambe larghe sul ciglio della banchina, poi buttava qualche pesce in acqua. Venivano giù a grappoli. In un attimo era una furiosa nuvola bianca, l’urlo di centinaia di gabbiani a combattersi un pugno di pesci che a stento sarebbe bastato a sfamarne uno solo.
Come facesse non l’ha mai saputo nessuno. Parlava, diceva qualcosa a quel frullare d’ali e intanto muoveva le braccia, gesti ampi e ritmati. Dapprima sembrava non succedesse niente, poi a poco a poco la massa bianca cominciava a farsi più compatta, omogenea nel muoversi insieme alle braccia d’Orlando. Mani in alto e tutti stavano fermi davanti a lui, solo qualche battito d’ali a tenere la posizione. Braccia in basso e tutti giù, a sfiorare l’acqua. Il gesto a risalire faceva un volare in tondo e il ritmo era preso, seguendo l’armonia di una danza. Era un’onda, flusso e riflusso come di una musica, e sembrava di sentirlo, il canto del mare.
Durava per tutto il tempo che voleva, mai abbastanza perché qualcuno potesse capirci niente. A quel punto allargava le braccia, sollevando lo sguardo al cielo. Lo stormo si fermava un istante poi esplodeva verso l’alto, tornando caotico sfrecciare, il volo disordinato della libertà.
Mi voleva bene Orlando, niente che si potesse vedere, ma lo sentivo chiaramente, e bastava. Un giorno mi ha detto che sarei sbarcato, quella sera stessa. Disse che ero diventato marinaio, che non avevo più bisogno di lui, che dovevo fare da solo. Era il suo modo di dirti bravo, quando l’avevi meritato. Mi ha guardato dritto negli occhi tenendomi pesantemente la mano sulla spalla:
– Sta’ attento, che il mare non è acqua –
Non capii, ma non mi lasciò il tempo di chiedere spiegazioni. Prese un secchio, lo gettò in mare e lo recuperò colmo d’acqua, poggiandolo in coperta, di fronte a me.
– Cos’è questo? – mi chiese.
– Come cos’è? E’ un secchio d’acqua –
– Bravo – disse – è un secchio d’acqua salata. –
Tornò a mettermi la mano sulla spalla e spiegò:
– Ricorda, per quanto tu ci possa provare, se riempi un secchio nel mare non avrai mai un secchio di mare, sarà sempre solo un secchio d’acqua salata. Il mare non è acqua, non solo quello. Il mare è anche tutte le cose che ci stanno dentro e sopra. E’ il vento che lo agita, lo scoglio che l’infrange, il pesce che ci vive. E’ anche l’uomo che lo sfida sputandoci dentro sangue, e quanti se n’è presi, come a pagarsi il conto. Vedi di non capitarci pure tu, che me lo faresti odiare –
Ci abbracciammo senza dire altro, che non si può parlare coi denti stretti a ricacciare indietro lacrime.
Il Dottore gli disse “niente mare”. Aveva qualcosa al cuore. Doveva riguardarsi, mettersi a riposo e starsene in ciabatte.
Non l’hanno trovato mai. Sul foglio coi timbri hanno scritto “disperso”, ma tutti noi sappiamo dov’è.
Può sembrare triste, però a me fa piacere poterlo fare tutte le sere, prima di rientrare in porto. Mi volto verso il mare aperto e sollevo un braccio, a salutare un amico. Tutte le sere, prima di rientrare in porto.
Questo racconto ha vinto il concorso letterario nazionale “Vivere il mare” 6ª edizione 2001 ottenendo il Primo Premio Assoluto.
È stato inserito nella raccolta antologica “Un mare da vivere Una terra da amare”
Edizioni Tigullio-Bacherontius.
Pubblicato nell’Antologia di Narrativa “Concorso degli Assi” Terza Edizione 2008 – Torino
Giovanni Ciaravolo © Copyright 2001 Tutti i diritti riservati
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