di Mauro Mellini
Oramai quel che in pochissimi osavamo scrivere, cioè che l’antimafia fosse comodo “coperchio” per gravissime manifestazioni ci corruttela e di prevaricazione, è cosa che anche da parte dei più “insospettabili” degli “insospettabili” non può più essere negata.
Certo, l’ineffabile Rosy Bindi aggiunge che occorre continuare a far tanto di cappello a Sicindustria ed ai suoi dirigenti (con la “piccola” eccezione di Montante, magari…ché questo lo ammetterà) e la Borsellino aggiunge che “da tempo” si notava che qualcuno mischiava antimafia e malaffare.
“Da qualche tempo”. Già. Noi lo ripetevamo da anni (un mio opuscolo “Gli sciacalli dell’antimafia” risale al 1991). Ma anche la Borsellino e, magari, o, forse, soprattutto, Rosy Bindi avrebbero dovuto rendersene conto. Almeno dal febbraio 2014, quando, proprio in coincidenza con una visita delle Bindi con l’Antimafia in Sicilia, scoppiò (o fu impedito, senza riuscirci del tutto che scoppiasse), il caso Musotto e, quel che è peggio il caso del maldestro e palesemente “pilotato” semioccultamento di questo incredibile episodio di abuso e di sfruttamento dell’antimafia, era impossibile ignorare l’atmosfera creata dall’Antimafia e dei legami inconfessabili intrecciati in suo nome.
Per chi non avesse seguito quel po’ di notizie al riguardo che allora riuscimmo a far venire fuori, ricordiamo che questo Musotto, regista cinematografico di Agrigento, autore di “docufilm” antimafia, organizzatore di manifestazioni di “sostegno” del processo della c.d. “trattativa Stato-Mafia” con “Libretti rossi” e “Scorte civiche” conseguenti, aveva convinto un suo socio che Cosa Nostra voleva ucciderlo e che, per suo tramite, era stato disposto un servizio di “protezione” per lui e la famiglia.
“Protezione” con obbligo di celarsi in casa, muoversi sempre con preavviso, etc. etc. Con ciò era stato facile indurlo a cedere la sua parte della società con il regista. La commedia pirandelliana era durata due anni, finché il “protetto” aveva finalmente “mangiato la foglia” denunciando il socio “protettore” e “mediatore” di quella protezione.
Processato per sequestro plurimo di persona, il regista “antimafia” si era difeso ammettendo il fatto della simulazione della protezione-sequestro, ma di averlo fatto a fin di bene, cioè di male per tenere alla larga i creditori (della vittima e suoi!). Il processo era durato anni, dal 2004 al 2014, di cui tre per il dibattimento.
Risultato: condanna a sette anni di reclusione.
Ma una sentenza simile, che aveva tutti i numeri per empire pagine dei quotidiani e dei settimanali e per occupare a lungo il video della T.V., con immancabili evocazioni del concittadino di Musotto, Pirandello etc. etc. fece, e soltanto qualche giorno dopo la pronunzia della sentenza, una rapida apparizione in un articolo de “Il Fatto quotidiano”. Fu ripreso da diversi siti e giornali internet di Sicilia (e da noi di “Giustizia Giusta”) ma non ne scrissero una sola riga quotidiani e settimanali siciliani (nonché quelli del Continente). Persino un settimanale il cui sito internet aveva dato notizia dell’insolita sentenza, non ne fece poi la minima menzione nell’edizione cartacea.
Questo Musotto, che stava allestendo un film-documentario sulla mafia ad Agrigento, non era, ripetiamolo, un “antimafioso qualsiasi”. Era, lo abbiamo già detto, uno degli organizzatori delle manifestazioni “antitrattativiste” pro Di Matteo, ed i suoi films, destinati al pubblico americano e canadese, sono finanziati, a quanto pare, da qualcuno dei più noti industriali antimafia di Sicindustria.
Il suo non è il caso di una “pecora nera” di un gregge immacolato. La copertura, il vero occultamento del suo “caso”, così clamorosamente pirandelliano, presuppone che un potere di fatto vasto e pesante abbia condizionato la stampa e che, magari, parecchio denaro sia pure stato speso.
Il caso Musotto è una delle prove che la “mafia dell’antimafia” è davvero il “terzo livello”, potente e invisibile.
Ed è la prova che la Borsellino avrebbe da tempo dovuto capire che il malaffare non era una occasionale devianza di persone, dalla “legalità” di quella confraternita ed affari poco puliti.
Musotto, Montante, Helg.
Monnezza, acqua, formazione professionale, camere di commercio, Sicindustria, film antimafia e, all’occorrenza, il silenziatore per la stampa.
E’ o non è questo il “terzo livello” di cui non si parlava più?
Almeno l’interrogativo tutti dovrebbero porselo e molti ne avrebbero il preciso dovere.
Via, signora Borsellino! Se ha, da tempo, avuto quella brutta sensazione, si sforzi un po’, rifletta e colleghi omissioni, fatti, casi, notizie e silenzi. E vedrà che non è di “sensazioni” che si può continuare a parlare.
Di lei non diremo “non poteva non sapere”.
Avrebbe il sapore di una ritorsione forcaiola. Ma dobbiamo dirle: “Lei non si poteva permettere di non sapere”.
Mauro Mellini