Il concetto di totalitarismo evoca un sistema rigidamente chiuso e imperturbabile, privo tendenzialmente di ogni spazio autonomo e autodeterminato perché retto da una uniformità paralizzante. Il concetto di trasformismo è avvertito, al contrario, come un orizzonte politico mutevole che, mai uguale a se stesso e dotato di una flessibilità congenita, tende al travestimento, ai mutamenti repentini, alla trasgressione di regole e all’adeguamento tattico alle situazioni. Il trasformismo non richiama quindi le fissità tetragone di un sistema di controllori e sudditi consenzienti, ma trasversalità politiche, flussi di fatti corruttivi, transazioni sopra le righe, accordi di convenienza e scambi di favori. Lo si associa infatti a fasi particolarmente mosse del sistema liberale, come quelle che corsero in Europa, e in Italia con caratteri specifici, tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e i primi del secolo successivo.
Alla luce di queste considerazioni, un sistema che amalgami strettamente i due modelli, totalitario e trasformistico, dovrebbe costituire un non-senso, una costruzione ibrida percorsa da contrasti insanabili, quindi sostanzialmente debole. Il fascismo mussoliniano dimostra tuttavia il contrario perché amalgamò questi caratteri con effetti produttivi, uscendone di fatto rafforzato. Come si documenta in queste pagine, i due modelli erano in realtà funzionali l’uno all’altro. Insieme ressero infatti l’ordito politico del regime mussoliniano, che non fu perciò un totalitarismo debole, né fu debole la sua vocazione trasformistica, perché la fusione studiata dei due elementi lo aiutò a crescere e a radicarsi. Non è concepibile allora un fascismo totalitario che non fosse nel contempo radicalmente trasformista.
Il presente esame storico ricostruisce in definitiva aspetti di un fascismo «invisibile» con strumenti che consentono di affrontare aporie interpretative e discordanze. Le motivazioni di fondo sono quelle di una indagine fluida che porti a ripensare, da postazioni particolari e con l’impiego di documenti inediti e rari, le differenze, in realtà abissali, tra fascismo e nazismo e i caratteri mutevoli del regime italiano. Emergono quindi, da angolazioni particolari, le dialettiche interne del sistema totalitario, che vedono protagonista un fascismo plurale di produttori, tecnocrati e intellettuali capaci di sorreggere, per oltre un decennio con una concertazione paradigmatica, l’impalcatura più resistente della dittatura mussoliniana.
Nascita dello Stato totalitario
Il fascismo in Italia, modello ispiratore di movimenti, partiti e di altri regimi dittatoriali d’Europa, non fu una parentesi storica che si aprì improvvisa, senza radici e priva di connessioni dirette e sostanziali con la storia del liberalismo. Quella vicenda prese forma dalle viscere, dalle condotte e dalle contraddizioni del sistema liberale italiano, nell’epoca tardo-coloniale e degli imperialismi. Nella formazione di tale regime, continuità e rottura assolsero quindi funzioni dialettiche, mai scontate.
Nella visione mussoliniana il fascismo era l’Italia di Vittorio Veneto, uscita vincitrice dalla guerra a fianco delle potenze dell’Intesa ma umiliata per il trattamento ricevuto nel 1919 dalla conferenza di pace di Parigi, considerato lesivo e inaccettabile. Il movimento fascista si fece interprete di quelle frustrazioni e sostenne l’irredentismo fiumano, che culminò con l’impresa militare di Gabriele D’Annunzio e l’instaurazione della Libera Repubblica di Fiume. Ma quel movimento, mentre si disponeva al compimento della «rivoluzione» fascista, interpretava anche altri bisogni, in un quadro di incoerenze mirate e strategiche che dopo l’ottobre 1922 diventavano la cifra del regime.
Fondato il 9 novembre 1921, il PNF si ritrovava già con 35 deputati alla Camera, eletti il 15 maggio 1921 nelle liste del Blocco Nazionale, aggregazione di destra ideata per quelle elezioni da Giovanni Giolitti, grande manovratore del trasformismo liberale italiano. Esso disponeva in quei frangenti di una dottrina aspra, incardinata sul patriottismo retorico ispirato dal mito di Roma, lungo un percorso politico ancora in itinere, fatto di pochi principi essenziali che esaltavano la volontà e l’atto temerario che rivendica l’uso della forza. Reggeva infatti su una erogazione di violenza diffusa e commisurata alle circostanze, che trovava forti aree di condivisione nel nazionalismo scontento e, con sempre maggiore convinzione, nel padronato italiano.
Nelle logiche del movimentismo fascista quell’uso tracotante della forza non era solo un mezzo per attuare il disegno «rivoluzionario», ma anche la rappresentazione di uno status esistenziale e di un modo d’essere che consentiva il superamento del limite. Era in sostanza il superomismo di radice tardo-ottocentesca che, filtrato dal nazionalismo radicale di quegli anni, si tramutava in un potere di arbitrio che legittimava se stesso come tale, senza alcun bisogno di attributi colti e declinazioni ideologiche. Si manifestavano in realtà, sul terreno, i primi segni di un fascismo integrale, o totale, per quanto ancora vaghi, e, per ragioni convergenti, i sintomi di una condotta che avrebbe percorso l’intera parabola del regime con forti modalità trasformistiche.
Era la storia che prendeva una piega anomala, fatta di fratture ma anche di continuità più o meno discrete. Negli anni dello squadrismo movimentista il fascismo esibiva, spavaldamente, una politica di rottura, «antiborghese», mentre consolidava i suoi contatti con industriali, agrari e altri ambienti conservatori e reazionari. Nella primavera 1919, subito dopo la fondazione dei Fasci italiani di combattimento, nel contesto del «Biennio rosso», l’assalto all’«Avanti!» condotto da fascisti, nazionalisti e arditi era un segnale ben chiaro per tutti. Dopo quel tirocinio, quando il movimento operaio e socialista a causa dei colpi subiti era ridotto sulla difensiva, e quando c’era ancora chi agitava il fuoco della guerra civile, il capo del PNF era pronto allora all’accordo con la Monarchia. Senza impedimenti di rilievo, il 30 ottobre 1922, il giorno conclusivo della Marcia su Roma, egli ricevette infatti l’incarico a formare il governo dal regnante sabaudo più arrendevole e il più inadatto alle funzioni di Stato al cospetto dei due che lo avevano preceduto.
Ci fu poco d’improvvisato. Molte cose erano state messe in chiaro nei primi anni dello squadrismo, numerosi malintesi erano stati chiariti e i poteri forti dell’industria e delle campagne, in guerra in tutto il paese contro il «sovversivismo» proletario, oltre che timorosi di quanto accadeva nella Repubblica dei Soviet, erano stati rassicurati. Nel proclama del 27 ottobre che annunciava la marcia su Roma, scritto da Mussolini ai primi del mese ma firmato dai quadrumviri Bianchi, De Bono, De Vecchi e Balbo, che guidavano la marcia su Roma, era rimarcato con solennità che il fascismo avrebbe sostenuto le classi della borghesia «produttiva» e tutte le forze creatrici di espansione economica e di benessere. Il messaggio era esplicito, come lo era l’invito alla resa senza condizioni lanciato alle opposizioni politiche più radicali. Singolare era invece, in quelle poche righe, l’invito alle forze armate a non partecipare allo scontro in atto, appena attenuato dal richiamo ammirato ai combattenti di Vittorio Veneto che sarebbe rimasto un leit-motiv del militarismo di regime.
Il segnale è spiegabile se si prende atto di un dato che filtra da quei momenti: la diffidenza del fascismo mussoliniano per i corpi armati dello Stato, percepiti, nonostante tutto, come una realtà sfuggente, non controllabile appieno e ad ogni modo un’incognita. Un spostamento anche minimo di reparti militari, nei giorni della marcia su Roma, avrebbe potuto fare la differenza in una direzione o in un’altra. In quel momento, mentre si giocava la partita decisiva dopo anni di scontro politico e sociale, era ritenuto quindi preferibile un esercito confinato nelle caserme. E anche tale prudenza è sintomatica del regime nascente che, al di là delle retoriche belliciste, proprio nei riguardi delle forze armate si preparava ad assumere una condotta ambivalente.
Nasceva così l’«Era fascista»: per il regime, l’avvio della rivoluzione che avrebbe dovuto far risorgere l’Italia, portandola oltre le pastoie liberali e delle regole democratiche, presentate come ferri vecchi di una storia che cambiava passo. Veniva istituita infatti una beneaugurante cronologia, che dal 1922 faceva ripartire il tempo storico, portando la «rivoluzione» fascista all’altezza degli eventi più eccezionali della vicenda umana. I mutamenti erano in effetti a tutto campo ma non corrispondevano a quelli enfatizzati dal regime, perché, come era chiaro agli oppositori del fascismo, si trattava nella sostanza di una reazione brutale per scongiurare i pericoli di mutamenti radicali ad opera delle classi lavoratrici.
Lo Stato totalitario in cammino era un organismo complesso, che compattava una pluralità di elementi, come era nella teoresi di Giovanni Gentile e nelle direttive politiche di Benito Mussolini. Ma era nella sostanza la sintesi di due fascismi simbiotici. Uno, nell’accezione più rigida, era quello che si incarnava nella figura del duce, come espressione e garante di un nuovo ordine, di uno Stato totale nel quale tutti si dovevano riconoscere e davanti a cui tutti dovevano deporre la loro individualità. L’altro era un fascismo plurale che, incardinato su una vasta e articolata collettività professionale, avrebbe esercitato, fino alla metà degli anni trenta in particolare, una funzione organizzativa fondamentale. La dialettica tra i due livelli, che negli anni formativi del regime si espresse con simmetrie e corrispondenze forti, finiva con il diventare allora la base del processo totalitario.
Modernismo e tradizione, rivoluzione e reazione, violenza e perbenismo, culture arroganti e tensioni legalitarie, chiusure antiliberali e aperture ad aspetti mirati del liberalismo utili per il regime: erano i poli dialettici di un sistema che proprio per essere congegnato in questo modo assumeva una identità del tutto atipica, destinata a fare testo e ad essere emulata in quei decenni da numerose formazioni nazionalistiche in Europa e nel mondo. Il fascismo italiano non era una messinscena tragica che in poco tempo sarebbe evaporata da sé, per autocombustione, come riteneva un discreto numero di fuoriusciti antifascisti, ma una reazione trasformistica e manipolatrice. Era quindi, in aggiunta, un modo d’essere mutante, una visione mobile del mondo e delle cose, della politica, della vita sociale e dell’economia, che aiutò non poco l’immagine del regime mussoliniano anche presso i governi delle maggiori potenze occidentali.
Al regime italiano fino ai primi anni trenta fu riservata un’attenzione ambivalente ma cautamente positiva, con remore di fondo che non impedivano però il dialogo ai massimi livelli istituzionali. Emblematiche appaiono al riguardo le relazioni reiterate di Mussolini con Austin Chamberlain, ministro degli Esteri britannico dal 1924 al 1929, nelle logiche di una diplomazia collaborativa. Appare istruttivo inoltre nella prima metà degli anni trenta, l’apprezzamento che Franklin D. Roosevelt, da presidente degli Stati Uniti, in più occasioni manifestò al duce italiano. Un motivo di attenzione poté essere la funzione di contenimento antisovietico che l’Italia fascista avrebbe potuto esercitare in Europa. Un altro poté essere la soluzione fascista alla crisi del 1929, che non mancava di assonanze oggettive con il New Deal statunitense. Anche la stima dichiarata dal Mahatma Gandhi a Mussolini dopo la visita a Roma nel dicembre 1931 appare sintomatica poi di un’attrattiva, che finiva con l’alimentare in giro per il mondo la voce di un Mussolini statista illuminato. Era tuttavia una visione da lontano.
Dai primi mesi del 1923, quando il regime aveva compiuto appena i primi passi, i democratici, i cattolici popolari di Sturzo, i socialisti e i comunisti ebbero in realtà manifesta la gravità della situazione, la dirompenza degli attacchi allo Stato liberale e la furia repressiva che colpiva, fino all’assassinio, anche intellettuali. Finiva tra l’altro la fase movimentista dello squadrismo fascista, con la nascita della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale che, voluta da Mussolini e decretata da Vittorio Emanuele III il 14 gennaio di quell’anno, forniva alle Camicie nere una configurazione legale di corpo di polizia per la difesa del regime, prima che venisse integrata, nel 1924, nelle forze armate. Si percepiva allora una pressione inedita, che il liberale Giovanni Amendola definì in quei frangenti totalitaria, quale opera di un regime che s’imponeva, nelle forme di una religione, come dominio assoluto e incontrollato. Anche altri studiosi e oppositori, come Lelio Basso e Luigi Sturzo, percepivano qualcosa di gravemente anomalo, senza che ne potessero comprendere però la sostanza effettiva. Ma dopo la crisi provocata dal delitto Matteotti e dopo l’emanazione delle leggi definite da Mussolini «fascistissime», fu proprio il regime a legittimarsi come totalitario.
