Cosa è cambiato da quando sedici anni fa Gaspare Spatuzza ruppe il silenzio facendo emergere le falsità delle propalazioni di Vincenzo Scarantino con le quali aveva fatto condannare all’ergastolo anche gente innocente accusandola per la strage di Via D’Amelio nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque componenti della sua scorta?
Lo spiega bene l’articolo pubblicato oggi sul “Corriere della sera” a firma di Giovanni Bianconi che fa il punto sulla situazione partendo dai primi sedici anni dall’attentato, dalle dichiarazioni di Scarantino, dagli ergastoli sbagliati, fino ad arrivare a Spatuzza che svelò il «più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana».
E se questo è il dato certo, quello che manca – o che non è certo – è il resto della storia, quella storia che da sedici anni ad oggi non sembra avere fatto i progressi che tutti ci attendevamo.
Cosa manca ancora?
Manca la verità!
O quantomeno manca quella parte di verità che va oltre le responsabilità della mafia nella strage di Via D’Amelio.
L’articolo riporta come grazie a Spatuzza avvenne “un terremoto che fece crollare ogni certezza, segnando uno spartiacque nella ricerca del movente della morte di Paolo Borsellino. Che a differenza di quella di Falcone, è difficile spiegare con la sola logica mafiosa”.
Seppure anche Capaci non può essere spiegata dalla sola logica mafiosa – altro non fosse per le dinamiche stesse dell’attentato – non v’è dubbio che così come riportato dal Corriere l’attentato di Via D’Amelio portò il Parlamento ad approvare misure eccezionali contro ‘Cosa nostra’, come il carcere duro “e la pressoché totale impunità per i collaboratori di giustizia (un po’ come accadde dopo il delitto dalla Chiesa nel 1982)”.
Quali furono i vantaggi per ‘Cosa nostra’ in rapporto ai danni che ne subì?
Per Giovanni Bianconi più che indagini fatte male furono indagini non fatte allo scopo di addossare le responsabilità della strage a ‘u picciottu da Guadagna’.
E qui si apre un altro inquietante capitolo.
Oggi si tende a puntare il dito contro il cosiddetto ‘nido di vipere’, la procura di Palermo a quel tempo, così come ad attribuire l’accelerazione della strage di via D’Amelio al dossier mafia-appalti, il famoso rapporto dei Ros, escludendo ogni altra possibile pista che non sia solo quella di ‘Cosa nostra’ e le responsabilità di alcuni magistrati che a vario titolo avrebbero favorito la mafia, depistato o ostacolato le indagini.
Come nel caso dell’allora procuratore Pietro Giammanco che ostacolò prima Falcone e poi Borsellino.
L’articolo del “Corriere” correttamente riporta come tra i più recentemente ‘accusati’ compaiono i nomi dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra e quello dell’allora capo della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera “Entrambi finiti di fatto sotto accusa dopo essere morti, dunque senza potersi difendere né spiegare le loro mosse”.
Ma non soltanto di questo si tratta, visto che fu proprio Tinebra, contravvenendo a ogni regola, a chiedere aiuto per le indagini al Sisde che avvalorò lo spessore mafioso di Scarantino, ‘u picciotto da Guadagna’ che tutto poteva essere tranne che un ‘uomo d’onore’.
Potevano i servizi segreti italiani prendere una cantonata del genere?
Potevano non essere a conoscenza di ciò che l’ultimo balordo della Guadagna sapeva?
Se dessimo per scontato tutto questo, forse sarebbe stato meglio affidare la sicurezza della nazione alle Giovani Marmotte.
Torniamo però per un attimo alle dichiarazioni di Spatuzza.
“Chi era l’uomo presente quando la 126 rubata da Spatuzza fu caricata di esplosivo, mai visto prima né dopo?” – si chiede il giornalista del Corriere – «È una figura che rimane in sospeso», affermò il neo-pentito, inquietante anche per lui; fosse stato un mafioso glielo avrebbero presentato come tale, e siccome nessuno disse niente lui capì che non lo era, né chiese nulla.”
Cosa è cambiato dopo sedici anni dalle dichiarazioni di Spatuzza?
Nulla!
Purtroppo è questa l’amara verità di un Paese che fa presto a dimenticare, che fa presto ad accontentarsi di un colpevole, un qualsiasi colpevole, aiutato da una stampa i cui giornalisti non si stracciano le vesti cercando la verità.
Dopo la Trattativa Stato-mafia, un’altra verità unica e assoluta è mafia-appalti.
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, diceva Tancredi, nipote del principe Fabrizio Salina nel celebre romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
E tutto cambiò!
Gian J. Morici