A chiedere l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta che “faccia piena luce sulla stagione del terrorismo mafioso“, che vide tra le vittime più illustri, il 6 gennaio del 1980, il presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella – come riporta ieri il quotidiano “la Repubblica” – è il presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo, alla vigilia del 43esimo anniversario dell’omicidio dell’allora presidente della Regione.
“Una fase storica – continua Balsamo – che inizia negli anni Settanta e si protrae fino al 1993, nella quale, come evidenziato nell’ordinanza-sentenza emessa il 9 giugno 1991 dal giudice Gioacchino Natoli, “Palermo è stata l’unica città del mondo occidentale nella quale, nel breve volgere di pochi anni, sono stati assassinati i vertici più rappresentativi del potere statale e del sistema politico“.
Lo scorso anno, in occasione 42esimo anniversario dell’omicidio di Piersanti Mattarella, pubblicai un articolo del dott. Lorenzo Matassa – da quasi quaranta anni in Magistratura – che avrebbe dovuto suscitare più di un interrogativo.
Ma il nostro è un Paese dove spesso ci si interroga poco, troppo poco…
Matassa, nel suo articolo dello scorso anno, ricordava un episodio accaduto nella sala delle autopsie dell’Istituto di Medicina Legale del Policlinico di Palermo il 30 settembre 1987, dove era appena giunto il cadavere, devastato dai colpi di fucile, di uno dei killer più feroci di “Cosa Nostra”: Mario Prestifilippo.
Come la pellicola di un film, conservata in un cassetto della memoria, il ricordo riappare, nudo, crudo, a tratti doloroso.
Ma cosa c’entrava uno dei killers preferiti da Totò Riina con l’omicidio Mattarella?
A distanza di un anno – e il perché lo capirete rileggendo con attenzione – mi trovo a riproporre integralmente quell’articolo:
“A cosa serve il fluire del tempo se non a farne memoria?”
“Dovrei premettere a questo articolo – scriveva lo scorso anno Matassa – la frase che, a volte, si legge sui titoli iniziali dei film:
“vietato ai minori e a tutti coloro la cui sensibilità potrebbe urtarsi a ragione di immagini e contenuti”.
Però è anche vero che il recente passato della Sicilia (e di Palermo) sono un immenso scenario storico di sangue e morte.
Nè si può pensare di cancellare questo trascorso agli sguardi delle nuove generazioni se non privandole del senso stesso di una memoria condivisa.
Il futuro può essere certo, ma è il passato che si manifesta imprevedibile nei pensieri di chi non lo ha vissuto o conosciuto.
La memoria ha il suo strumento nel racconto e allora proverò a raccontarvi questa storia.
Solo vorrei che mi riservaste indulgenza e perdono per tutto ciò che, in questa narrazione, vi farà male all’anima.
Devo portarvi indietro nel tempo, esattamente al giorno 30 settembre 1987.
Il luogo è quello della “morgue”, la sala delle autopsie dell’Istituto di Medicina Legale del Policlinico di Palermo.
Vi era appena giunto il cadavere, devastato dai colpi di fucile, di uno dei killer più feroci di “Cosa Nostra”: Mario Prestifilippo.
Occorreva fare il riconoscimento e due donne (la madre e, forse, la sorella) si avvicinarono a quel cadavere, straziate in un pianto senza fine.
Udii la voce sussurrata di qualcuno tra i presenti, ma davvero non ricordo chi fosse.
Diceva: “Stavolta piangono gli occhi giusti…”
Era un modo feroce per dire che altri avevano sofferto, prima di quelle donne, uguali lacrime di dolore a causa delle azioni sanguinarie perpetrate dal loro congiunto.
Le due donne vestivano di nero, interamente di nero, come un tempo vestivano le “pleureuses” che officiavano il pianto negli antichi funerali siciliani.
Non mi accorsi del momento in cui la madre di Prestifilippo estrasse dall’abito nero un fazzoletto bianco.
Nessuno, dentro quella sala, avrebbe mai potuto prevedere quel gesto. Nessuno avrebbe mai pensato potesse essere possibile.
La donna intinse quel quadrato di tessuto bianco tra le profonde ferite ancora inondate del sangue del figlio.
Vermiglio e grondante, quel pezzo di stoffa aveva già colorato entrambe le mani della madre che lo stringeva come fosse una purpurea reliquia.
Ma il gesto ebbe la sua conclusione solo quando la donna portò il sangue al viso cospargendosene in ogni dove.
Nel fare questo gridò – un urlo senza fine – gli occhi rivolti ad un luogo indistinto della sala e contro un nemico invisibile.
“U sangu! U sangu du me sangu!”
Inorridito vidi tingersi il suo volto.
Era il sangue del figlio che si riuniva a quello della madre.
Molto tempo è passato, ma quella immagine ritorna spesso alla mia memoria per raccontarmi la Sicilia e la ferocia di quei giorni.
Quello era un omicidio davvero incomprensibile nelle dinamiche di “Cosa Nostra” che pure avevo scandagliato in largo ed in lungo.
Prestifilippo era uno dei killer preferiti da Totò Riina.
Anzi, insieme al suo “compagno d’armi” Pino Greco (inteso “Scarpuzzedda”) era il braccio armato “riservato” per i crimini più eccellenti.
Perchè Riina l’aveva fatto uccidere? E perchè, due anni prima di lui, aveva ucciso lo stesso Pino Greco?
L’unico motivo che mi appariva plausibile era quello che Riina – in puro stile siciliano – avesse eliminato la possibilità che questi suoi “stretti collaboratori” potessero raccontare i più segreti ed inconfessabili delitti.
Questo mio sospetto si incrementò allorchè ebbi modo di ascoltare a lungo Giovanni Drago, apertosi alla collaborazione dopo un breve periodo carcerario.
Diversamente da Prestifilippo e Greco – con i quali aveva condiviso il ruolo di killer direttamente al soldo di Riina – Drago era rimasto nel cuore del capo di “Cosa Nostra” e su mandato di quest’ultimo aveva organizzato l’assassinio del suo ex compagno d’armi curando ogni particolare.
L’azione militare non diede scampo a Prestifilippo.
Malgrado fosse armato con tre pistole, la potenza del fuoco avversario fu veemente ed improvvisa da non lasciargli alcuno scampo.
Rimase inchiodato dai proiettili cadendo sul selciato di una strada non lontana da Bagheria.
Drago sparò il colpo di grazia, ma sembra che, vedendo rantolare il suo vecchio amico di tante avventure, prima di premere il grilletto gli abbia sussurrato: “Mario, nulla di personale”.
Ebbene, in numerosi interrogatori provai a chiedere a Drago perchè lo avesse ucciso ed ebbi sempre la medesima risposta.
Nè Drago, nè gli altri componenti del commando (erano una decina) che avevano ucciso Prestifilippo avevano mai saputo il perchè di quel brutale assassinio del “valoroso” compagno d’armi.
L’unica cosa certa è che Prestifilippo, dopo l’assassinio di Greco “Scarpuzzedda” (1985), aveva capito che i suoi giorni volgevano al termine.
Il motivo era “qualcosa” di assai importante che li aveva legati assieme ed in ragione del quale, assieme, avrebbero dovuto morire.
Ho sempre avuto il convincimento che questo “qualcosa” fosse individuabile negli omicidi politici commissionati dal figlio del barbiere di Corleone e Sindaco del sacco di Palermo, Vito Ciancimino.
Quegli omicidi servivano ad impossessarsi definitivamente della più importante forza politica territoriale e al contempo chiarire – terroristicamente – a ogni possibile e futuro interlocutore chi davvero comandava a Palermo.
Su questo scenario coltivo due certezze e non da (ex) inquirente della materia, ma da siciliano.
La prima è quella che mai Riina e il suo referente politico avrebbero “appaltato” gli assassinii politici a soggetti esterni all’organizzazione.
La seconda è quella che era impossibile pensare che i killer di così gravi azioni potessero – a loro volta – restare in vita dopo averle commesse.
Di questa inaspettata e geometrica ferocia compensativa, probabilmente, restò stupito lo stesso Prestifilippo allorchè capì che all’eliminazione di Greco “Scarpuzzedda” sarebbe seguita la sua come logica conseguenza.
Da queste due ragionevoli certezze ne deriva un’altra:
se è vero che Riina mai avrebbe lasciato in vita un testimone di un così grave fatto, allora si può affermare che ad uccidere il Presidente Mattarella non può essere stato Giusva Fioravanti e non tanto perchè esterno a “Cosa Nostra”, ma per la più semplice ragione che lui è ancor oggi vivo.
Bene, anzi male (perchè del male parliamo…).
Se questo è lo scenario delle mie presunzioni, resta aperta la domanda: “Come mai la moglie del Presidente Mattarella è certa di avere visto Giusva Fioravanti sparare i colpi mortali?”
A questa domanda diedi la mia personale risposta molti anni dopo, allorchè avevo lasciato già da qualche tempo l’ufficio della Procura della Repubblica.
Come sempre tutto accadde per caso e perchè se è vero che il tempo consegna verità e al contempo vero che la verità cerca chi la trova…
Un giorno mi pervenne la chiamata di un’amica architetto.
Stupita dalla visione di un articolo apparso su “Il Giornale di Sicilia” sul delitto Mattarella, la mia amica mi chiedeva in quale modo il suo ex compagno di banco potesse essere implicato in quel delitto.
Rimasi stupito a mia volta, anche perchè non avevo davanti ai miei occhi l’articolo al quale alludeva.
“Chi era questo tuo compagno di banco?” – le chiesi basito.
“Mario Prestifilippo” – mi rispose.
E poi continuò:
“Sono stata sua compagna di banco per molto tempo.
L’ho visto ogni giorno per tante ore al giorno. Pensi non possa riconoscerlo in una foto?”
Non passò molto da quel dialogo e mi procurai una copia del giornale.
Allorchè, con ansia, ne aprii le pagine, rimasi marmorizzato davanti alla foto che vi era effigiata.
Non era Prestifilippo, ma Fioravanti.
La mia amica si era sbagliata anche perchè sotto la foto non era riportata alcuna didascalia.
La richiamai e le spiegai il suo errore di identificazione.
Ma – senza per questo mutare la sua interpretazione delle cose – lei replicò: “Sarà come tu dici. Ma per me, quello in fotografia, è il mio ex compagno di banco…”.
Ho sessantadue anni e quasi quaranta di ufficio della Magistratura.
Avrei potuto lasciare che ogni mia presunzione restasse racchiusa nei pensieri fino al giorno in cui si fosse estinta.
Però oggi è l’anniversario dell’omicidio del Presidente Mattarella e io credo che nulla accade per caso, soprattutto in Sicilia.
Così vi ho raccontato questa storia e l’ho fatto prima che svaniscano, nell’eternità del silenzio, persino i colori rosso sangue dei miei ricordi…”
Un articolo che avrebbe dovuto ingenerare interrogativi, forse anche critiche, ma che non poteva e non doveva, comunque, rimanere sepolto dall’ignavia – o da altre ragioni che preferisco tenere per me…