Correva l’anno 1997.
La missione era di quelle che Tom Cruise avrebbe definito impossibile.
Per il Consiglio d’Europa avevo accettato di lavorare ad un progetto, chiamato “Themis II”, sulla decomunistizzazione (solo a scriverlo viene il mal di testa…) di molti paesi dell’Est europeo.
Per farla breve, se questi Stati desideravano avere i finanziamenti dell’Unione Europea dovevano dimostrare di avere democratizzato il loro sistema sociale e giudiziario.
Così partivamo, in gruppi composti da diversi specialisti, per aiutare il cambiamento e suggerire le misure più appropriate a garantire il livello minimo di democrazia.
Lavorammo in Moldavia, Armenia, Repubblica Ceca ed in tante altre regioni caucasiche, luoghi, questi, in cui – come cerimonia di benvenuto – ci facevano visitare le piazze in cui era visibile una statua decapitata di Stalin o di Karl Marx.
Era questo il loro modo per spiegarci che si erano decomunistizzati…
Ricordo che ci spostavamo in vecchie Lada nere e il nostro autista moldavo ebbe a spiegarci che, con quelle stesse auto, la “Procuratura” (l’ufficio inquirente di Stato) usava portare via imputati che mai più avrebbero fatto ritorno a casa.
Altro che processo accusatorio…
Ma la trasferta più drammatica fu quella che effettuammo in Bosnia Erzegovina a guerra non ancora conclusa.
Ricordo che, non potendo atterrare a Sarajevo e neppure a Dubrovnik, fummo dirottati all’aeroporto di Spalato e da lì viaggiammo per quasi tutta la notte in una strada angusta tra alte rocce a strapiombo sul mare.
Arrivammo a Neum, una piccola città costiera dove gli incontri si sarebbero svolti.
Riuscii, quella notte, a vedere l’albergo e – prima di piombare nel sonno della stanchezza – notai solo l’esistenza di una grande piscina illuminata da mille candele.
La sorpresa del mattino fu di quelle che è difficile dimenticare per tutta la vita.
Aprii la finestra della mia camera per farvi penetrare la luce del mattino, ma stentavo a credere ai miei occhi.
Tutto attorno – tutto! – e per chilometri era solo un ammasso di macerie nere e ancora si poteva avvertire l’olezzo forte dello zolfo bruciato misto all’acre sentore di morte.
La piscina si era riempita, ma non erano bagnanti in costume quelli che la popolavano: erano bambini, ragazzi, uomini e donne mutilati.
In quell’unica piscina rimasta in tutto il territorio distrutto dalle bombe cercavano di aiutare la riabilitazione dei feriti.
In una sala dell’albergo cominciammo l’incontro con le autorità bosniache e fu parlando ai presenti che commisi l’errore del quale ancora oggi mi dolgo.
Allusi al conflitto nella ex Yugoslavia definendola guerra civile e parlai dell’assedio di Sarajevo come parte di quella violenta contesa.
Non so neppure perchè toccai quel tema, visto che non era necessario farlo per il lavoro che stavamo svolgendo.
Una donna, a quel punto, si staccò dal gruppo degli ascoltatori, prese il microfono e cominciò a parlare nella bella lingua slava.
La traduttrice la seguiva in inglese.
Sembrava che le stasi del suo procedere nel discorso, fossero dettate più dal dolore dell’anima che dalla necessità del respiro.
Era un magistrato della corte suprema di Sarajevo.
Raccontò che durante l’assedio della sua città, durato quattro anni (dal 1992 al 1996), le armate militari yugoslave avevano bombardato – con l’artiglieria pesante e da duecento postazioni nascoste tra le montagne – gli inermi cittadini di Sarajevo.
Stremati dal freddo, dalla fame e dalle bombe morirono a migliaia.
Durante uno di questi atti criminali (perchè atti militari non potevano definirsi secondo le regole della guerra…) la donna aveva convinto suo figlio a rifugiarsi, insieme a lei, dietro ciò che restava di un muro di cemento armato.
Il figlio cercò di convincerla che quello non poteva dirsi un posto sicuro a ragione della traiettoria degli obici d’artiglieria.
Ma quando vide la madre sdraiarsi dietro quel muro, fu naturale per lui raggiungerla in quel luogo ed abbracciarla.
La donna prese un lungo respiro cui seguì un silenzio simile a quello che esiste nell’universo siderale attorno a noi.
“Mio figlio fu colpito.
Ed io restai miracolosamente viva.
Ma morta, per sempre, nella mia anima di madre.
Ebbene, collega” – mi disse guardandomi dritto negli occhi – “è ancora convinto che quella guerra si possa definire civile?”.
Chiesi scusa e abbracciai quella donna mentre prorompeva in pianto.
Chissà se questa storia arriverà mai alle orecchie del vecchio Vlad…
Lorenzo Matassa