La “prescrizione”, l’effetto del decorso del tempo su gli effetti giuridici di situazioni e fatti sia nel campo civile che in quello penale, è istituto antichissimo. E’ il riflesso nel campo del diritto di una ineludibile legge naturale, per la quale il decorso del tempo tutto cambia e nulla lascia indenne.
Istituto, dunque, di diritto sostanziale e non di diritto processuale, anche se l’invadenza delle procedure sulla sostanza del diritto ha finito per farne qualcosa assai più soggetta alle esigenze della procedura (e dei signori giudici) che a quelle della vita sociale e dell’effetto che in essa hanno fatti, atti, situazioni in relazione al tempo che decorre.
Oggi l’originario istituto della prescrizione penale è stato sopraffatto totalmente addirittura dai comodi dei giudici ed ha finito per porsi nella loro mentalità come un fastidioso e provocatorio mezzo di intralcio del lavoro di Procuratori e di Giudici e di turbamento della loro tranquillità nel fare giustizia e magari, nel perseguirne “l’uso alternativo”.
Nella mia esageratamente lunga carriera professionale ho visto l’istituto della prescrizione penale cambiare profondamente sotto i miei occhi, soprattutto da quel giorno, in cui, Deputato della mia prima legislatura (1976-1979), membro della Commissione Giustizia, mi trovai presente quando Luciano Violante, portatore delle richieste e dei lagni dei suoi ex colleghi magistrati, venne in Commissione a proporre un vero sconvolgimento di fondo dell’istituto della prescrizione, mutando effetti, condizioni e calcoli del tempo necessario a prescrivere a seconda dello stato processuale di cui fosse soggetto il fatto-reato in questione. Capii che imboccavamo una strada pericolosa, anche se non immaginavo che saremmo arrivati alle prodezze di, nientemeno, un Bonafede.
Ma il vizio dell’atteggiamento psicologico dei magistrati e la tendenza alle storture del loro pensiero per perseguire un uso “di comodo” della prescrizione avevo già avuto modo di accertarlo.
Ricordo bene che, Cassazionista già da qualche anno (lo ero divenuto per esami nel 1961) questo episodio mi capitò un giorno avanti alla IV Sezione penale della Cassazione.
Sostenevo un ricorso contro una sentenza della Corte d’Appello che offriva motivi di ricorso più che evidenti, tali da comportarne il totale annullamento. C’era anche un ultimo motivo, proposto in subordine: i Giudici d’Appello avevano, confermando una sentenza di condanna assolutamente sbilenca, dimenticato di prendere in esame anche un ultimo motivo di appello (subordinato) che, riguardava la mancata concessione di un’attenuante comunque più che evidente.
Il Procuratore Generale, che io già conoscevo per certe sue abitudini, chiese frettolosamente il rigetto del ricorso (mostrando, si sarebbe dovuto dire di non aver nemmeno letto i miei motivi scritti di ricorso!!). Aggiunse: “Ci sarebbe poi l’ultimo motivo di ricorso, ma non dovete accogliere, altrimenti qui va tutto in prescrizione” (non c’era ancora la norma, contraddittoria del carattere delle funzioni della Cassazione, che oggi in tal caso consente alla Corte Suprema di fare giudizio di merito e di applicare l’attenuante giudicando anche in termine di opportunità.
Quella sfacciata richiesta di un vero falso che si chiedeva alla Corte di Cassazione mi fece saltare, come si suo dire, il sangue agli occhi. Presi la parola cominciando dall’argomento finale del P.G. con le parole: “Viva la faccia della sincerità”. Non ricordo chi fosse il Presidente, che, con un sorrisetto, dovette condividere quel vero insulto rivolto al P.M. Mi disse: “non si preoccupi, Avvocato”. E in effetti la Corte accolse in pieno il ricorso, così non dovette neppure esaminare il motivo, secondo il P.G. “pericoloso” benchè fondato e da respingere come tale.
Erano altri tempi. Oggi chi sa che cavolo di arzigogoli avrebbero tirato fuori per respingere l’intero ricorso di quel giovane impertinente avvocato.
E il legislatore ha fatto di peggio.
Mauro Mellini
10.02.2020