
In Italia, la cronaca è purtroppo scandita da tragedie: incidenti sul lavoro, disastri naturali, fatalità della vita quotidiana. Eventi che dovrebbero essere trattati con rispetto e accuratezza informativa. Eppure, assistiamo a un fenomeno sempre più diffuso e aberrante, la spettacolarizzazione del dolore sui media, amplificata esponenzialmente dalla logica dei social network.
Ciò che un tempo era confinato a una macabra curiosità, oggi è una vera e propria offerta e domanda di immagini e video cruenti che nulla aggiungono alla notizia, se non un’onta di profondo disprezzo per la dignità umana e, quel che è peggio, un dolore incessante per i parenti delle vittime.
Il problema ha due facce, entrambe deplorevoli. Da una parte, c’è un’utenza social assetata di sensazionalismo, che cerca attivamente “gli ultimi istanti delle vittime” o si sofferma su dettagli raccapriccianti come il sangue sull’asfalto. Qual è il senso di questa ricerca? Soddisfare una curiosità morbosa che celebra la tragedia altrui come intrattenimento?
Questi utenti, protetti dalla barriera di uno schermo, si trasformano in un’orda di “sciacalli digitali”, pronti a postare commenti insensibili, spesso violenti, in una valanga di non-pensiero. Non è una questione di ‘Homo homini lupus’; la crudeltà del lupo ha una sua logica nella catena alimentare. Qui siamo a un livello inferiore, siamo diventati sciacalli, figure che banchettano sui resti del dolore altrui, esultando a colpi di like o share.
L’altra faccia della medaglia è il sistema mediatico che, per inseguire click e visualizzazioni si presta a questa logica perversa che va ben oltre i canoni dell’informazione etica, sacrificando il diritto di cronaca sull’altare del becero sciacallaggio.
Non è raro vedere la pubblicazione di immagini esplicite o video non necessari, presentati con titoli sensazionalistici, spesso con l’unico scopo di catturare l’attenzione e generare interazioni sui social. Un esempio lampante è la tendenza a mostrare i dettagli più cruenti di un incidente, a volte indicando le generalità delle vittime prima ancora che i familiari siano stati avvisati ufficialmente. Questo non è giornalismo, ma tradimento della fiducia pubblica in cambio di qualche misero dato di audience.
Il danno più grande, spesso ignorato nell’isteria del breaking news, è quello inflitto ai parenti delle vittime. Per loro, la pubblicazione incontrollata di immagini e video non è un evento isolato; è la condanna a un dolore che si rinnova costantemente.
Mentre il ciclo di notizie va avanti e la tragedia viene dimenticata dal pubblico, la famiglia si ritroverà a lottare per anni contro la rete, cercando di far rimuovere fotografie che mostrano i loro cari nei loro ultimi, tragici momenti. Ogni immagine cruenta che riemerge online è un colpo al cuore, una ferita mai rimarginata che viene riaperta con violenza.
Questo non è solo un atto di irresponsabilità editoriale o di morbosità dell’utente; è una vera e propria crudeltà postuma che rende il lutto insopportabile. Il vero rispetto della vittima e dei suoi familiari non si misura con la rapidità della notizia, ma con la sua dignità e il suo contenuto informativo essenziale.
È tempo che i media si riscattino, tornando a un giornalismo che informa senza infangare, e che gli utenti riflettano chiedendosi: stiamo condividendo informazioni utili, o stiamo semplicemente nutrendo la nostra parte più oscura e predatoria? Il confine tra informazione e sciacallaggio è diventato sfumato, ma la scelta di attraversarlo o meno resta nelle nostre mani.
Gian J. Morici